Sans
passion il n'y a pas d'art
Calamus
Xenia
Inferno, Canto XVI
di Massimo Sannelli
|
I
sodomiti non sono solo “litterati grandi e di gran
fama”, ma anche gentiluomini della politica e della guerra. Meritano la
cortesia,
alla quale Dante è esortato. Qui Guido Guerra, Iacopo Rusticucci
e Tegghiaio
Aldobrandi esaudiscono il desiderio espresso in Inf., VI 79-80:
in
effetti sono tra le anime nere, ma la loro grandezza umana è
fuori discussione [questa grandezza evoca questa cortesia: altezza
chiede
altezza].
Dante ha
un rispetto particolare per questi dannati:
perché la cortesia la guerra la politica – e la cultura di
Brunetto – lo
riguardano, in prima persona, come poeta soldato politico. [E anche
il
peccato di questi grandi lo riguarda? Le fonti sanno che fu il
peccato
dello stesso Virgilio. E Dante è coinvolto in queste glorie e in
questi
naufragi, che lo fanno svenire come la dannazione di Paolo e Francesca.
Ma
Virgilio – se dobbiamo guardarlo con empietà – è meno
coinvolto nelle cose del
mondo, e il suo fallimento onesto – bruciare l’Eneide –
è nel fatto che
il verginello è incontaminato, ma vuoto: “Che
significato aveva l’Eneide
di fronte ad una vera storia romana, come quella che aveva scritto
Sallustio, o
come l’altra, alla cui poderosa costruzione Livio ora aveva osato
accingersi?
che significato avevano le Georgiche di fronte alle autentiche
informazioni
scientifiche che il venerabile Terenzio Varrone, il più dotto
fra i dotti,
aveva fatto pervenire all’agricoltura romana?”. E anche Orazio, “quello
sì, era
stato soldato, ed aveva combattuto per Roma, si era sacrificato per
Roma, donde
la sorprendente autenticità che prorompeva sempre dai suoi
versi”. Parole della
prosa poetica di Broch sulla Morte di
Virgilio; e le stesse
parole sono sembrate a Gombrowicz un eccesso bulimico di perfezione [il
suo
esempio è duro: “là tutto è perfetto, profondo,
grandioso, sublime”, come
divorare un piatto di zucchero, per eccesso]. Ecco la sorprendente
autenticità di un Dante troppo coinvolto, in tutto e con
tutti, per essere
neutrale o innocente – e per questo la sua opera non è innocua,
perché i conti
da regolare, nel bene e nel male, sono troppi]
Quello
che importa è la maledizione di Fiorenza,
provocata da una domanda dei dannati e pronunciata da Dante. Ora nella
città
mancano cortesia e valore – quasi una dittologia, un
concetto espresso
da due parole-chiave della cavalleria e dell’amore poetico – a causa
della gente
nova (i provinciali inurbati) e dei subiti guadagni. Oggi
la
cortesia è soppiantata dall’orgoglio, e il valore dalla
dismisura. Rimane su
tutto l’intuizione di José Bergamín: “In Dante tutto
diventa questione
personale”, anche “l’intero Universo”.
Qui
appare il mostro Gerione, per la meraviglia di chi
legge. Come il Minotauro e i Centauri, ma anche come la statua di
Creta,
Gerione è composito: viso di “uom giusto” e corpo di serpente,
con una coda “a
guisa di scorpion” che appesta il mondo. E Dante pronuncia uno strano giuramento,
«per le note» della stessa Comedìa:
cioè Dante giura su se stesso,
infrangendo un ordine evangelico preciso. E ora: che senso ha un
giuramento su
un’invenzione? O il giuramento è inefficace o la finzione non
è finzione: se come
autore giuro su una favola (mia) o sulla finzione poetica (mia) –
allora le
possibilità sono due: o la favola ha una sua verità
parallela alle verità
scolastiche o il giuramento è un flatus vocis. In
effetti il gioco c’è
(c’è anche il gioco, non solo il gioco): il
giuramento è sulle note,
e Gerione viene notando (v. 131; e anche in Inf., XVII
115). Una nota
è la scrittura in versi, su cui il poeta giura; una nota
è anche il moto
di un mostro, che vola. L’ambiguità è molto ravvicinata e
molto voluta: ora il
lettore – me compreso, e te compreso – è libero di credere o
di lasciarsi
ingannare. Dico il lettore, volutamente, perché Dante
giura rivolgendosi
a lui: è il primo e unico giuramento per il lettore, e chi parla
è il Dante
regista (mentre il Dante interprete giura nella finzione, da
personaggio a
personaggio: Purg., VIII 127). In Inf., XIII 74
c’è un altro giuro
in prima persona: parla Pier della Vigna, da
personaggio a personaggio.
Non è una questione piccola: su questi giuramenti si basano la
liceità della
finzione e la dignità dei parlanti: se il giuramento non
è uno scherzo, è
necessario che le note siano vere, anche se sono fittizie, e
anche
quando turbano la ragione; se le note sono vere – in un senso
abbastanza
alternativo a quello usuale – la testimonianza di Pier della Vigna ha
una sua
potenza, come se Piero avesse veramente parlato a Dante.
Che tipo
di finzione esiste, e quanto vale, quando il
tempo sta per scadere? Soprattutto: a che cosa tende la finzione? Ad
essere –
nel caso particolarissimo di Dante – un’opera da «legislatore di
religione»,
secondo l’intuizione di Foscolo: e questa volontà è
distruttiva, rispetto alle
piccole abitudini dei poeti fiorentini. Il punto è questo, nella
solita forma
violenta dell’aut aut: la Comedìa è O un
quinto vangelo O una
grande favola. E quindi, lettore? Il fatto è che la Comedìa
è
libera e definitiva: non obbedisce a nessuna regola perché
è nuova e mobile,
umana e sovrumana, e chi la scrive – l’eletto autoproclamato,
«fiorentino per
nascita, non per costumi» – non ha né patria né
committenti: qualche volta il
giuramento varrà, qualche volta no. Chi lo decide è
Dante, non tu. E tu, il
lettore, subisci questo fascino, un po’ autoritario e un po’
rassicurante.
dal
commento alla Comedìa in corso di
pubblicazione (Fara editore, Rimini 2010)
|
|
Home
|
|