Rodolfo
Wilcock: non so d'altra mente
più
geometrica e più mercuriale;
non so
se mai ci fu intellettuale
tanto mortuariamente
intelligente.
Non è
un caso si fosse formato
con Luis
Borges e con Bioy Casares,
alchimisti
del dedalo quadrato,
della grande
rovina circolare.
Tanto meno
è casuale che sia
Parola
morte la vetta simmetrica,
la più
sua tra le sfide poetiche,
e il paradigma
di un'alta pazzia.
Non è
un caso che la sua iterazione
si alleasse
allo zeugma e all'anàstrofe,
che l'anagramma
e l'epìstrofe
suoni in
lui naturale scansione;
che da
quel criptico ritmo
parole-larve
(non parole) nascessero;
«FUTSIRI»…
«SERTYVED»… e declinassero
i geroglifici
del gran logaritmo.
Non stupisce
se in cose e persone
il contatto
col suo segreto cifrario
inoculava
il germe visionario,
l'assurdo
unicum della mutazione.
Nello spoglio
salone a Velletri
(parlavano
di Marlowe da ore)
sussultò
e tacque il Visitatore
entro il
guizzo dei moccoli tetri:
perché
gli era parso passare
un gatto
grosso dalla rossa pancia
e: «Mi
annoio!… » imprecare
…«SERTYVED!»
con perfetta pronuncia.
«Ma
io… ho visto un gatto…» esclamò
stropicciandosi
gli occhi. E Rodolfo,
un po'
seccato: «È la solita solfa.
Sì,
è il mio gatto, che c'è?» bofonchiò.
«Ecco,
un gatto… ma è un gatto che parla!»
E il poeta:
«Non sempre, però».
Voltò
pagina e un blank-verse citò
riprendendo
il discorso su Marlowe.
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