Alessandro Fo, Giorni di scuola
Edimond,
Città di Castello, Settembre 2000
Esistono
bambini naturalmente malinconici, che ben prima di qualunque mediazione
culturale ("dum loquimur, fugerit invida aetas")
sono portati a vivere il presente nella prospettiva passata del futuro
e che, da adulti, continueranno a praticare questa dislocazione
temporale arricchendola con la variabile - geminata e forzatamente
crescente- del rivivere nel presente le emozioni del passato. La
scrittura diventa così mediazione insieme crudele e pietosa di
una
distanza dalle cose, che come le solerti e previdenti formiche usa
sottrarsi briciole di piacere ( o di dolore) presente per riassaporarle
poi (nel loro gusto agro o dolce, non importa) nei rigori
dell'ineluttabile inverno.
Nascono
forse così le geometrie del cuore di Alessandro Fo, il suo
sistema
affettivo di misurazione del tempo, scandito sulle liturgie private
degli anniversari, imperniato sulle figure chiave della sua esistenza
che come stelle fisse ordinano e regolano il ruotare dei cieli.
In
Giorni di scuola, uscito nel
settembre del 2000 in "Diapason", la collana di poesia di Alfredo
Giuliani per Edimond , appare potenziato l'aspetto rievocativo
già
fondante in Otto Febbraio (All'insegna del pesce d'oro,
Scheiwiller, Milano 1995). La differenza, semmai, è nella
maggiore
incidenza del dolore, nel prevalere di ciò che si chiude su
ciò che si
apre nel dipanarsi delle varie sezioni.
Anche
in questo libro aleggia la morte, in
un doloroso percorso di presagio, annuncio, compimento: da quella
anonima delle notizie di cronaca a quella di un negoziante vicino di
casa (L'estate -autunno del '97), da quella di un umile insetto
rovesciato (Desolazione e fuga) a quella dell'amata Trixi nelle
esulcerate Stanze per un cagnolino morto,
quasi a preludio, dopo un intermezzo più disteso, (l'aerea
rievocazione
della madre accostata ad Audrey Hepburn in una nuvola di Givenchy per
celebrare idealmente con il figlio di lei Luca Dotti la ricorrenza dei
rispettivi coincidenti compleanni ), della nuova serie di morti
domestiche di Un piccolo congedo. Qui, tra le stazioni dolorose
di inquietanti omina
e di responsi senza speranza, il precipitare del luminoso passato verso
l'oscuro presente aggiunge al dolore della perdita dell'amatissima
cagnolina Papeete quello del progressivo allontanarsi della coppia,
quasi quella ne fosse stata inconsapevole cemento. Tuttavia, come
già
nell'emblematica dedica alla madre di Otto Febbraio:
" SCELTA DA ME, LA TUA FOTOGRAFIA
NON RESTI QUELLA IMMOBILE
SOLTANTO , IN CUI SORRIDI TRA I BICCHIERI
SULLA LAPIDE A NOME CLARA NOBILE.
RIPRENDA VITA IN QUESTO CAMPO DI PENSIERI
COMPOSTI IN FORMA DI LIBRO DI POESIA"
anche qui, malgrado tutto, la presenza della morte è esorcizzata
da ciò
che resta, o si rinnova e da ciò che è recuperabile
attraverso il
ricordo.
Il
senso del titolo viene suggerito dall'autore nel Congedo al gentile
lettore: c'è, in Giorni di scuola, lo svolgersi
parallelo - e infine il richiudersi circolare- di vicende lavorative e
private intrecciate intorno al nucleo tematico della scuola : la vita
è un lungo apprendistato in cui non si smette mai di imparare.
Sulla propria pelle-pergamena si incidono nel tempo persone e luoghi, e
la risultante cartografia esperienziale fitta di tatuaggi, cicatrici e
prime rughe viene riportata su carta ed esposta come una Sindone al
gentile, ( ma pur sempre vampiresco), lettore.
Nella stessa sede il richiamo ad Ausonio equivale ad un'autoironica
chiamata di còrreo rispetto a un medesimo tipo di ossessione,
quella " frenesia di schedatura retorica del mondo" che lo stesso Fo
attribuisce all'estroverso intellettuale tardoantico:
" Si ha l'impressione che (Ausonio) si prefiggesse come compito poetico
quello di immobilizzare per sempre nei suoi versi, magari con un breve
commento, tutto ciò che si potesse distinguere ed elencare: i
giorni, i mesi, e stagioni, i propri parenti, i professori, gli eroi
greci, i Cesari, i sette sapienti." ( Percorsi e sogni geografici
tardolatini, in " Aion, Annali dell' Istituto Orientale di Napoli,
Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico,"
13,1991 ).
Nel
libro la classe IV H, già immortalata al completo nella prima
parte della sezione Briciole della scuola in occasione di una
gita - o, meglio, 'viaggio d'istruzione'- in Andalusia dove fu
partecipe testimone del perfetto amore coniugale tra Alessandro e
Francesca tornerà, divenuta V e ormai 'matura', per donare loro,
come un deus ex machina, il cagnetto di fumo (Perelà) a
simbolo di una possibile rinascita, di una vita nuova dopo la perdita
del secondo cagnolino.
È
significativo che La vita nuova sia posta a conclusione della
già citata sezione Un piccolo congedo, a ribadire che
per l'autore, come già indicava la sezione conclusiva di Otto
Febbraio, Dopo la fine tutto ricomincia.
Se
il tempo ("i giorni") è la dimensione dominante, l'ordito
verticale del libro, la spazialità ne è tramatura
complementare:
oggetti e persone sono fermati in un'attenta descrizione dello sfondo e
dei primi piani con un'immediatezza che rimanda allo
schizzo, pur con la densità cromatica del pastello, e ancora di
più alla fotografia. In Araldica viene delineata la
vocazione del poeta, ungarettianamente pescatore:
"vorrei anch'io da un battello pescare
(...)
voci delle persone, voci delle
cose: e quasi in fregio,
d'anticipo sull'entropia,
metterle in posa per la fotografia."
Il
richiamo alle voci è indicativo della sfida che Alessandro Fo
pone alla parola, dell'illimitata (e classica) fiducia che essa possa
esprimere e compendiare ogni aspetto del reale (odori - e quanti !-
compresi) i
n controtendenza con la trionfante multimedialità. Di contro
egli gioca con tutti gli elementi spaziali del significante: secondo la
tradizione del calligramma (in Mosaico, a rinforzare
l'impressione di frantumazione, disgregazione della propria vita, che
verrebbe di definire disiecta per la morte dell'amata catula
Papeete), dell'acrostico, (Avvento), lievitante talora alla
dimensione della sillaba ed alternato con le varianti del mesostico e
del telestico, (come già, in Otto Febbraio, Concessione
all'Inferno e Ninna-nanna, oppostamente mediati dall'odio e
dall'amore), o della combinazione delle due cose in Canetto di fumo,
che intende evocare l'oggetto del testo nella stessa disposizione dei
versi, come già accadeva nel quinto componimento della serie sui
girasoli della plaquette del 1998 dal significativo titolo Prove
di paesaggio.
Il
luogo dell'azione, come in Otto Febbraio, cambia spesso: i
personaggi si spostano, partono, ritornano. "Lontananza", "distanza",
"mancanza" sono parole chiave cui si oppone spesso la rima (talora
interna) "stanza", altra parola chiave dell'introspezione, del sogno e
del rifugio, nella duplice accezione domestica e letteraria. Non a caso
un'altra parola ricorrente, intimamente legata alle precedenti è
"assorto", che rimanda alla particolare forma di assenza che si
può avere anche in praesentia, in una sospensione
proiettata in un altrove (Pausa nella Passione, Autoscatto).
Si
potrebbe azzardare, forse, che la stessa inclinazione alla rima nasca
in poesia dalla volontà di ricucire almeno simbolicamente la
separazione. Se accettiamo questa trama ermeneutica, vedendo nel suo
uso un antidoto, un risarcimento simbolico, potremmo considerarne
espressione sofisticatissima ed estrema lo spericolato cimentarsi di Fo
nella 'lontana' sestina lirica ne La giostra di Tristano (in A
ricordo del grande Bologna, Poesia contemporanea, Secondo quaderno
italiano, Guerini e Associati, Milano 1992).
In questa forma impervia, ('ripescata',
però, anche da Ungaretti nel Recitativo di Palinuro e in
tempi più recenti da Fortini e Frasca), dopo aver schierato le
sei parole-rima secondo le coppie antitetiche "corpo/cuore",
"odio/amore", "pena/ gioia" - includendo così in ogni stanza, ad
ulteriore sprezzo del pericolo, anche la rima "proibita" "cuore/amore"-
, Fo sa superare la prova col successo che arride solo ai cavalieri
molto erranti e molto preparati.
Un
dato di mobilità è infatti caratteristico della storia
personale dell'autore, nato a Legnano, cresciuto a Torino ( con
presenze attestate a Bologna ), in vacanza dai nonni paterni a Luino,
studente universitario a Roma, docente universitario a Cremona e poi a
Siena, con un domicilio romano ed uno senese.
E
forse tale caratteristica avrà precocemente orientato
frequentazioni privilegiate di diversi rappresentanti, per lo
più tardolatini, di una cultura del viaggio, dello spostamento,
e soprattutto del ritorno, che è a un tempo ritrovamento e
lacerazione.
Ben
lo sa il fine traduttore del De reditu suo, esperto di cieli,
come tutti i nomadi, consentaneo testimone dei miti di vegetazione,
segnati dalla perdita e dal suo superamento, dall'eterno sfiorire e
rifiorire delle rose, fiducioso nel possibile perdurare degli affetti
originati da una sentita e non avara trasmissione del sapere. Quando
questa è sostenuta da passione autentica (gli studenti di
Alessandro lo sanno), dà sempre frutti e non muore mai.
Da Si chiude:
(...)
Sì, ci fu qui qualcuno. (...)
Questo lo sa la stanza, consapevole
ch'è la sostanza umana a fare scuola.
E si consacra al silenzio e all'attesa,
allegoria di quello che non muta
in tutto il traffico di varia gente intesa
a saperne di più fra l'inespresso,
l'inconcludente forse e l'inconcluso, e
a scavalcare un vetro: la distanza-
tutto chiuso.
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