I
Cerco di
mettere ordine
Nella mia
vita
Buttando
tutto all'aria,
Gli impegni,
gli stretti orari
E gli
appuntamenti
più urgenti
Che mi
attendono nella giornata
Passo
stancamente
in rassegna
Nella mia
mente acciaccata
Sperando
di dimenticarli per sempre,
E ogni
mattina mi rammarico,
Andando
al lavoro con lena ed impegno,
Che
nell’infanzia
lontana
Io mai
appresi a memoria
I nomi
di tutti gli uccelli dell'aria
E degli
alberi che vedo fuggire
Inafferrabili
nei finestrini
Ai bordi
dell'autostrada.
Oggi,
inoltre,
un po' più folle del solito,
Mi illudo
ed immagino che il cielo impassibile
Rifletta
una casta e composta benevolenza
Verso i
miei poveri sforzi
E che il
sole mi accompagni
Al lavoro
con un sorriso senza rimproveri.
Poiché
da tempo ho compreso
Che spesso
nel cielo gli uomini
hanno visto
e vedono le loro passioni.
Oh non
andate via, dolci amiche,
Io chiedo
poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero
me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti
di carta a pacchetti.
Giunto al
chilometro quarantasette
Sono
già
più prossimo ad attingere
Una
più
piena e più compiuta follia
E cado
in un deliquio senza ritegno:
Arrivo
a immaginare che milioni di flauti
Cantino
lodi in mio onore (povero Giovanni!)
Con tersa
furia in un cielo accecante,
E che una
estate lucente e senza sudore
Mi lavi
il viso e la pelle e i lunghi capelli
Con menta
verde, buon shampoo e freschissima crema,
E che la
semplice allodola mattutina
Canti
acutissima
il suo oboe sfrenato
Ed il cuculo
il suo corno inglese tra le verdi siepi
Della grande
pianura del Nord.
Come se
ancora trionfassero antichissime ere,
In cui
la natura circondava benigna
Un uomo
felice e assorto in assedi
E amori
cortesi e castelli
Come un
bambino. Oh, non andate via, dolci sorelle
Io chiedo
poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero
me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti
di carta a pacchetti.
Ormai evidentemente
impazzito,
Abbandono
il carro argentato
E i fissati
orari e la strada asfaltata
E mi avvio
in processione nel bosco
Seguito
da un battaglione di sogni,
Scelti
con cura certamente non degna
Di più
apprezzabile impiego
tra quelli
più bizzarri e inspiegabili,
Fastosamente
annunciati dalle ombre rullanti
Di Lorenzo
il magnifico bifolco
Al guinzaglio
di un maiale,
Di Antonio
mezzafaccia
(Il tenero
porcospino!), di Basilio il semplice
E di Roberto
il rosso, triste amico di un tempo,
Con le
tasche gonfie di tutte le migliori pastiglie
Portatrici
di felicità. Poi ripongo a terra
L'elmo
e il pennacchio e mi sogno
Vestito
da prete che raglio come un asino
E corro
insensatamente felice
Su un oceano
di erba, tuttavia inseguito
Da un
rabbioso
reggimento di rimpianti incappucciati
Che mi
volgono piangenti la schiena
Ma di cui
sono pur sempre
Il più
disperato dei capitani.
Oh fuggite,
andate via, frettolose visioni,
Orribili
sogni senza prezzo,
Io chiedo
poco all'angolo della strada, non lasciatemi solo
Povero
me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti
di carta a pacchetti.
Poi, rotolando
sempre più in basso
E senza
vergogna alcuna, credetemi,
Mi vedo
addirittura amato
Da tutte
le donne del mondo (sic!)
Le vedo
occupare acclamanti
Un intero
stadio di calcio,
Una splendida
candida rosa.
Esse ridono,
parendo davvero felici
(Povero
me, perdonatemi!)
Di attendermi
giulive, pazienti e adoranti,
Che io
torni dal diuturno impiego, fatica di Sisifo.
Così
mi aspettano presso il focolare
Intente
nelle solite faccende di casa,
Senza
inganni,
senza timori e rammarichi
Dimentiche
delle delusioni
Imperdonabili
e numerose
Da me
goffamente
perpetrate
Ogni giorno,
in un tempo lontano e senza riposo.
Esse
dimenticarono
perfino
La spazzatura
lasciata a muffire
In tutti
gli angoli possibili
E
immaginabili
del loro cuore.
Oh, non
andate via, dolci ninfe
Io chiedo
sempre di meno ogni giorno che passa
E dimentico
sempre più cose e più nomi
All'angolo
della strada, non lasciatemi solo
Povero
me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti
di carta a pacchetti.
Lo so, salto
di palo in frasca
Senza
preavviso,
ma ora vi dico
E qui seduta
stante dichiaro
Che un
giorno mio padre mi regalò un falco,
Le cui
piume avevano giocato con il vento del Nord
Sette volte
cento non so quanti
Anni prima,
in un cortile Andaluso
Nel cui
centro giaceva un libro perduto di favole.
Oh, di
certo voi non sapete quanto mi amava
Mio padre,
e io, al pari di voi,
Ancora
non so esattamente
Quanto
lo abbia amato.
Mia sorella
lavorava per me in piena notte,
Vergando
con folli segni uno schermo magico,
Mentre
io raccontavo favole antiche
A una miriade
di festanti nipoti acquisiti,
E mia madre
mi salutava dall'orizzonte,
Dall'alto
di una scala scintillante
Circondata
da tutti gli angeli del cielo di Abramo,
Di Isacco
il triste e del furbo Giacobbe,
Piangendo,
io non saprei dirlo ancora adesso,
Non so
se di eterno dolore
O di durevole
serenità.
Ella si
asciugava diligentemente
La fronte
e le guance,
E la manica
della sua camicia
Si bagnava
di sudore e di lagrime.
Oh non
andate via, amate megere, passanti spietate,
Io chiedo
veramente così poco
All'angolo
della strada, non lasciatemi solo
Povero
me che vendo accendini, sigarette
E fazzoletti
di carta a pacchetti.
E non mi
mancava il suon di Lei,
Gradito
come il sorriso di un mare
Disteso
e mai turbato dal vento.
Stoltamente
mi pareva di ricordare
Che non
fosse mai salita sulle navi Frigie
Con il
principe giudice scoccatore di frecce,
Volgendo
la prua ad oriente, e i buoni scalmi
A Nord
e a Sud, ma che pietosa e nata da uova,
Fosse ancora
con me, che ancora
Mi
accompagnasse
ogni giorno con pensieri insondabili
Lungo la
riva risonante del mare canuto e infecondo,
Mi
accompagnasse
al lavoro, me Re e Sacerdote,
A sacrificare
cosce grasse di buoi gambestorte
All'arco
d'argento e all'occhiazzurra
E allo
Zoppo divino. In quello stesso preciso momento,
Io sapevo
che il mio amico migliore
Viveva
nella città ben costruita
Che gli
avevo donato dopo la guerra
Per tenermelo
per sempre vicino,
Per tenerlo
con me in serena vecchiaia,
Per
trascorrere
con lui interminabili notti
Dispersi
in rievocazioni infinite
Di giovani
giorni passati. Ma tutto questo
Ben presto
dileguava come un’illusione,
E sfuggiva
al mio braccio. La mia casa
Era vuota
e la mia ninfa era svanita.
Io, amici,
io non ero stato
Che un
passante goffo e importuno
Un breve
momento nella sua inafferrabile vita,
E sebbene
avessi provato entrambi i piaceri,
E sebbene
avessi già previsto e presofferto tutto
Non avevo
trovato risposta alla sua domanda.
Chi bussa
ancora alla mia porta?
Tu, ignoto
visitatore
non andar
via, tu che ancora
non mi
hai detto il tuo nome,
Credimi:
io ti aprirò sempre gentilmente il portone,
Ogni giorno
che passi
Perfino
se non sei un amico dimenticato da tempo,
Ma solo
un venditore ansioso
Di rifornirmi
a dovere di accendini e sigarette
E fazzoletti
di carta a pacchetti.
Pochi giorni
dopo raccontai le mie sventure
A tavola
ai miei colleghi affettuosi:
Ricevevo
in cambio pacche e manate scherzose
E sgabelli
e robuste seggiolate di sincera amicizia
Sulla mia
schiena di ferro che meditava vendetta.
Ma non
per questo diventavo ogni giorno più saggio
Mentre
assorto osservavo l'arco
E la frecce
e le aste di bronzo accecante
E assetato
di sangue scorrevole,
Appoggiate
sui muri della mia casa.
Oh, non
andate via, ombre di cui ho dimenticato
Perfino
il nome, io chiedo poco
All'angolo
della strada, non lasciatemi solo
Povero
me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti
di carta a pacchetti.
Ma ora mi
appresto al congedo,
Ascolto
la voce dei merli più infreddoliti,
E accumulo
appunti senza memoria.
Prima che
ci lasciamo,
Lasciate
che vi dica ancora una cosa:
La pelle
dei sogni distesa ad asciugare
Sul comodino,
rivestitela con cura ogni sera,
Lodate
la Morte che ogni mattina
Vi incontra
e vi saluta,
E ascoltate
della buona musica,
Ma non
siate troppo esigenti
In cucina
e in camera da letto.
Ricordate
che Maometto e San Pietro
Portano
ogni giorno torme di pecore,
Di agnelli
bianchi, e mucche e cavalli innocenti
Ai fumanti
mattatoi di Brescia,
Mentre
la nonna prepara la carne
E i dolci
e trascura Beniamino
A favore
del penultimo e del primo.
Siate buoni
e generosi,
Ma affilate
e tenete basso e pronto
Il vostro
corno di rinoceronte
Contro
il gatto e la volpe,
E non
dimenticate
mai di carezzarmi
All'angolo
di strada, non lasciatemi solo
Povero
me che vendo accendini e sigarette
E fazzoletti
di carta a pacchetti.
I
Tra le creature
che sulla terra camminano
Ve ne sono
alcune che, misere,
Amano solo
quel che vorrebbero fosse
L'amato
o l'amata. Come scimmie che cerchino
Cibo negli
inganni riflessi da specchi,
Così
esse si offrono al sorriso pietoso del saggio.
Io, invece,
amai la tua semplice esistenza
Accanto
a me, e ora la canto.
Eppure
Non potrebbe
mai arrogarsi
Del nome
desiderato di uomo sapiente
Colui che
in amore non sappia
Mai cadere
in inganni
Nuovi,
vari e mutevoli
Ogni giorno
nuovo che passi.
Per questo
io non mi pento
Di quello
che ho fatto, dell'affetto
Pieno e
delicato che ancora ti porto,
Delle lagrime
amorose spuntate
Senza riposo
ogni quattro notti.
Ma fu quando
sopravvenne il timore
Amaro e
inatteso che l'amore morisse,
Fu allora,
amici, che io imparai a odiare
In lei
l'inganno e in me il disinganno:
Io vidi
me stesso come un fantasma
Futuro
e non più sofferente,
Come un
cieco veggente
Mi vidi
e mi temetti e mi odiai
Troppo
saggio e dimentico.
Così,
alunno del cielo ingannevole
E della
perdita amara,
Io
dimenticai,
come al mattino
I portinai,
le segretarie o i banchieri
Dimenticano
i sogni che più dolci o affannosi
Hanno
popolato
la loro notte infinita.
Spettinati
e seduti sui solidi letti,
Sulla riva
del giorno sonoro
Essi li
vedono svanire come massi
Nell'acqua
fangosa del risveglio
Ricco di
impegni e promesse.
Così
fu un breve sogno quel tempo
In cui
io desiderai una vita intera
In tua
compagnia, e disegnai
Progetti
e promesse. Tutto apparve
Facile
come facili sono solo gli inganni
Perché
un attimo era filato
Liscio
come l'olio, e tu mi avevi amato.
Ma non
fu che la gratificazione di un momento,
Una promessa
che non tenne,
Un'esca
gettata a pescare
Tra tante
debolezze.
E quanta
e quale fu l'oscurità
Che, calata
sullo sguardo,
Ne interruppe
il raggio,
Io non
lo saprei ancora oggi
Ricordare.
Io non saprei dire come
Si
allontanò
da me il messaggio
Affettuoso,
il fantasma
desiderato
e bello.
E nemmeno
conosco il nome
Dei venti
che ne dispersero
L'odore
per la pianura.
Ho cercato
una traccia per giorni
E non ho
trovato nulla, chiedendo
A me stesso
e ai passanti impazienti
Se fu
autentico
il dolore, e grande
O breve
come il sorso
D'acqua
di un bicchiere,
Sufficiente
ad innaffiare
I fiori
del giardino
Della tua
casa.
II
Non ti ho
insegnato
Forse a
mentire
Soprattutto
a te stesso?
Sii tuo
alleato, immaginati
Cavalcatore
di tutte le glorie
Più
infantili, delle fantasie
Più
furiose, inseguito
Da un
esercito
di trombe
Dorate,
che celebrino
A tutta
forza le tue lodi
Da un tempo
infinito.
Sognati
senza vergogna
Un Napoleone,
sebbene tu sia
Imbottegato
tra i libri di conti
Le parcelle
e i registri
E sbeffeggia
le Parche.
Non affannarti
a fissare
Ogni ridicolo
ricordo,
Che punteggi
la tua
Dimenticabile
esistenza,
Compilando
diari e fogliacci
Di carta
che saggiamente
Nessuno
verrà mai a sbirciare.
La vita
non va ricordata,
Piuttosto
dimenticata
Accuratamente
e in ogni dettaglio.
Questo
ti consiglia
Il pensiero
incoronato dei saggi
Barbuti,
quando alla sera
Lasciano
marcire i ricordi
Più
amari e più vaghi,
Attorno
al braciere,
E godono
piuttosto
L'amichevole
luce
Dello stupido
sonno,
Il gradito
carcere
Delle
palpebre
immemori.
Non rimuginare
per ore
Sugli impegni
irrisolti:
Parcheggia
piuttosto
La mente
in luoghi
A te ignoti,
finora.
Taglia
l'erba e le siepi
Che ti
impediscono il volo
Sopra il
tetto e i comignoli,
Gioca con
le mani
Nell'aria,
mostra
Orgoglioso
e impunito
Il tuo
ultimo acquisto
Quando
al mattino, attraversando
Il mercato,
incontri gli amici,
Offri il
tuo sguardo sereno
All'eterna
invidia dei venti
E racconta
i tuoi desideri
Più
sciocchi e più vergognosi
A ogni
albero che crebbe
Fecondato
di pioggia
Nell'ampia
di messi pianura del Nord.
Poi, non
dimenticarti di me:
Portami
un cappotto
E scarpe
di buona tomaia
E un cappello
di lana
D'Inghilterra,
e stracci
Tra i
più
raffinati che trovi
E augurami
la buona notte.
Io che
ogni notte dormo
Sugli
interminabili
Marciapiedi
della città,
Accarezzato
dalla luce dei lampioni,
Sotto il
portone della tua casa.
29 luglio
2001
IV
Non vi è
nulla di peggio
Che un
pomeriggio buttato
Tra il
fango e la sabbia
Tra la
timidezza e l'arroganza
del
disinganno
e del compiacimento.
Così
passeggiavo sui marciapiedi,
Seguivo
solitario
Le orme
dei poveri nella neve,
Affaccendato
in una città lontana
Dispersa
oltre le montagne,
Tra uomini
e paesi sconosciuti,
Meditando
sui loro nasi arrossati,
Le pareti
calde e vestite di barbaro legno
E gli
avventori
ai tavolini accanto.
Quando sei
solo e circondato da gente
Che nulla
sa di Roberto o Lorenzo
Spesso
riassapori i peggiori ricordi,
Li centellini
contraendo i muscoli
Tesi tra
mascella e mandibola
E ti vesti
di loro, della loro tristezza
E del loro
disfacimento come di una maschera
Che ti
dia un tono, un senso,
Una parte.
Di solito non fumi
Ma puoi
usare anche lo sfumacchiare di sigarette
Arroganti
come segretarie straniere
Che parlino
pettegole un inglese perfetto
Alla
reception.
Così
puoi scopriti ospite nuovo a te stesso.
E possono
essere strani i messaggi della memoria.
Alcuni
calano improvvisi e neri come la notte,
Poi ti
scaldano come un mantello
Steso da
un passante pietoso sulle tue spalle.
Ricordai
allora una notte
Che credevo
dimenticata per sempre.
Essa mi
lanciò una freccia acuta sulla schiena,
Scese
silenziosa
e rapida come un Apollo.
Trasalendo
lasciai le usate faccende,
E le
questioni
e le barbare guerre,
Ed ogni
altra carta,
Che mi
occupava in quel paese lontano,
E mi fermai.
Fermai il
corso eterno delle cose
E pensai
a te, e a quell'altro
Me stesso,
e vidi le ombre di voi due,
Te e me
stesso, giovani innocenti
Ma coperti
di sangue come scampati a un massacro,
Venuti
a discorrere con me,
Intorno
al mio cuore.
Signore,
io ti chiedo aiuto e perdono!
Quale
tristezza
non incontrai nei loro visi!
La faccia
di lei soprattutto,
Era piena
di lagrime e di riso amaro,
Tra i suoi
occhi si piegava l'abbandono.
Come vorrei
dirla tutta, quella immagine,
E amaramente
piangerla, ma non lo saprei.
E io, che
ero lì, che ero presente e vivo,
E non ombra,
mi rimproverai,
E rimproverai
quell'ombra passata
Quel me
stesso che non seppe amarla.
Che importava
se ancora poco ti conoscevo?
Che
importavano
i mille e mille
Altri
ostacoli
e le giustificazioni?
Avrei dovuto
semplicemente amarti,
E sottrarre
al caso, ai molteplici calcoli
E premure
e stanchezze,
L'amore.
Io non sapevo
più dove eravamo.
Mi pareva
di percorrere il ponte
Di una
nave in tempesta, e temevo
L'ingannevole
amico che, inevitabile come il destino,
Mi avrebbe
offerto effimero appoggio
Per poi
gettarmi fuoribordo.
Raccolsi
allora da terra le mie cose
E abbracciai
l'ombra di lei passata
E la mia,
che misteriosamente piangeva
Di noi
tre astanti la più ignorante
Delle
circostanze
di quello strano incontro,
L'unica
che non aveva bevuto sangue e latte e miele.
Mi allungai,
ma il mio braccio
Si perse
nell'aria grave e morta
Come un
grande uccello accecato.
Come un
commerciante dubbioso
Tra due
decisioni,
Ancora
oggi mi chiedo
Chi di
loro due, chi di noi,
Meritasse
più consolazione.
Poiché
io non conoscevo quale fosse
Il maggior
dolore: se non essere
Amati,
o non amare.
V
Poesie
giapponesi, ovvero messaggi al telefonino
Ti ho incontrato
attraversando il ponte dei sogni,
Ma dall'altra
parte del fiume appassivano i gigli.
La luna
pallida d'agosto illumina
Tutti gli
angoli della mia casa,
Ma io non
sono che un cieco che cammina
Tastando
la tavola, le sedie, i muri.
Sullo schermo
si agitano le ombre colorate e i suoni pettegoli,
Ma tace
la tua voce all'altro capo del telefono, stasera.
Perfino
se tu fossi un maligno genio
O qualsiasi
altra creatura infernale,
Io sceglierei
di essere un'anima dannata,
Che
preferisca
volarti intorno eternamente,
Piuttosto
che oltrepassare le porte del cielo.
Uscito di
casa, la luna è una boccia nel fioco azzurro
Della sera,
che mi ricorda i vicoli solitari
Dove tu
la contemplavi in mia compagnia
Promettendomi
di popolare la mia casa.
Dal sentiero
delle montagne,
Vedo le
luci brillare in fondo alla valle.
Esse sono
i miei anni solitari,
Durante
i quali non ho mai rimpianto di averti amato.
I miei passi
che scendono i sentieri
Sono rapidi
come gli anni, i pensieri, gli amori.
Il sole
illumina le piante del mio giardino.
Perché
invidiare Mercurio:
Il pianeta
che più da vicino lo gode?
Ogni minuto
che passa
Di questa
mia tenue
E piccola
vita
Si nutre
della consolazione
Che un
giorno ti amai
Davanti
alla porta della tua casa
Hai posato
vasi di ortensie.
Il vicino
ti incontra che li innaffi
Nel
pianerottolo,
osservandoti
Mentre
scende le scale.
Perché
mi hai chiamato Sole del tuo giorno
Se già
coloravi di rosso i raggi
Che ti
regalavo? Era il tramonto,
E io non
lo sapevo.
Traduzione
(dall’inglese):
Perfino
una felicità lunga una intera vita
Non è
altro che una tazza di sake;
Un'intera
esistenza di quarantanove anni è già svanita in un sogno;
Io non
so cosa sia la vita, né la morte.
Anno dopo
anno, nient'altro che un'ombra.
Ma ora
mi lascio alle spalle i Superi e gli Inferi
E mi godo
la luce della Luna che sorge,
Libero
dalle nuvole degli affetti terreni.
Uesugi Kenshin
(1530-1578), daimio (grande feudatario giapponese).
VI
Se un dio
del passato
Mi apparisse
improvviso
Dal profondo
del fuoco,
O dai reami
del tempo,
O dall’ombra
di Dio,
E mi
proponesse
di affidare
Ogni mio
più caro ricordo
E tutte
le cose che ho nella mente
E quelle
che ho faticosamente imparato
In anni
di studio affaticato e costante
Alla
dimenticanza,
per in cambio ottenere
Illimitata
e brunita bellezza, fascino
Assoluto,
oscura e zingaresca superbia,
Statuaria
improntitudine, nobiltà senza vergogna,
Odore
irresistibile,
splendidi occhi
Di cavallo
e pelle luminosa,
E un mento
privo di umiltà,
E una voce
sonora e mai macchiata
Da esitazioni
e incrinature,
Ebbene,
io non esiterei un solo istante.
VI
Sono morti
da tempo
tutti i
poeti che hanno popolato di musica
I miei
anni migliori. Non mi rimane
Che imparare
a cantare.
VII
Ti ho comprato
questi fiori
Perché
ti amo.
Amore mi
morde il fianco
Come un
cane rabbioso,
E io
goffamente
imbarazzato
Mi tampono
la ferita
Con la
mano tutto il giorno.
Il fioraio,
il ragazzo
Del negozio
e la donna
Delle pulizie
mi guardano
Stupiti,
domandandosi
Dubbiosi
se sia scelta più saggia
Compatirmi
o invidiarmi.
E dalla
strada mi indicano
E mi
osservano
i passanti
E il loro
sguardo fino a me
Danza tra
i fiori e le ginestre
Attraverso
le vetrine
E gli addobbi
di Natale.
Essi mi
indicano
Ai loro
figlioletti
Che tengono
per mano
E raccontano
loro
Commossi
e inteneriti
Cosa sia
e cosa
Debbano
attendersi
Di buono
e di cattivo
Da ogni
tenero affetto
Da ogni
futuro amore.
La camicia
bianca
Che
stamattina
mi hai comprato
Arrossisce
di sangue
Ogni giorno
cha passa,
Ma il tenero
giornalaio
Il compratore
di notizie
E l’amico
incontrato
Per caso
all’angolo
Della strada
tante volte
Attraversata
Si
complimentano
felici
E innocenti
E non
intimoriti
Dal sangue
che si espande
Sui bianchi
e stirati lini.
Così
i cani, compagni
Dell’uomo
e della donna
Abbaiano
a me
Che sono
innamorato,
E mi salutano
i fruscii
Delle foglie
del Platano
Lungo la
riva del fiume
Che scorre
placido al limitare
Della
città
degli uomini.
IX
Quando il
tuo cuore ti chiama
E tu non
sai cosa rispondere,
Allora
ricordati di me
E non
dimenticarmi
Io che
ti insegnai nel passato
Che sono
quindici gli anni
Che è
giusto assegnare
Ai sogni
migliori,
Mentre
i primi e gli ultimi
Dieci giorni
che attorniano
La luna
sono il tempo
Che invece
riserverai
Diligente
ed astuto
Ai deliri
e alle fantasie
Più
sfrenate.