VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
Electronic Center of Arts

Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art


Calamus
Almanacco di poesia


Luigi Durazzo

   
Artiglio e spore
Frattali
Carceri di terra murata
Sulle ali del tempo
Non Esitare
Sole maestro
Ruderi
Arsura
Gravina
Epistrofe
Antropia entropia
Yulbachar
Epistrofe
Gravina
Precipizi di agavi e ginestre
Naufragio
Hiroshima, racconto d’inverno
Enigma
Messaggi
Rosa dei venti


 

Artiglio e spore

Alle radici dell’albero più amato
ha impresso segni duri il metallo
che affiora da giacimenti oscuri.

La terra offre una tregua
finché c’é tempo
non perderti nel ricercar progetti
se un filo lega Stromboli ed Hiroshima.

Un luccicare d’astri
dentro gli squarci della luna gobba
rinnova una certezza
propone nuovi enigmi.

L’ulivo sui pianori
stringe accanito nella roccia
i resti di un artiglio
su cui passarono gli eccessi.

Mentre spuntano antenne
tra sassi che danno il cambio
all’ombra alle stagioni ai passi
di chi si ostina a ricordare
gettando spore di speranza
tra i fiori dell’oblio.
 

Frattali

L’auspicio di un inizio
un refolo tra i tuoi capelli e i miei
infrange gli occhi spenti
le finestre sprangate
nel vuoto del silenzio verticale.

Delle parole al bando
ho fatto una ghirlanda
e l’ho gettata al mare
in questo navigare contro
mentre si insinua un fiore
nel cavo assolato del sogno
dura il ricordo come un nodo
tra i tuoi capelli e i miei.

Rivedo i sentieri deserti
volti che abbiamo amato
e case immobili
che non riconosciamo più.

Eppure guarda
quel salto del delfino
dalla profondità del tempo ci sussurra
i legami recisi della nostra storia.

Forse ci invita a decifrare i codici
di una tempesta sostenibile
mentre il tuo velo
sfarzo sottile di libellula
capta gli istanti del naufragio
e vibra nel vento frattali d’amore
tra i ginepri ossuti.
 

Carceri di terra murata

Sono i segni del tempo
le minuziose righe che piegano la falesia
un calendario aperto
come le rughe sul volto cupo
di chi si esercita tra queste mura
ad alternare il passo come il lupo
scrutando grappoli di case
cintate di petunie azzurre.

E l’ orrizzonte è un muro calcinato
la sera
quando i profumi trapassano le sbarre
e il mare bussa nelle fondamenta.
 

Sulle ali del tempo

Il gatto è fermo al sole aguzzo
si stringe sul terrazzo
l’angolo di casa
dove regnava il lievito la muffa

e queste mani che modellarono
le guglie, i minareti
ancora imprigionate nell’argilla
vogliono carezzare
la forma della luce, l’anfora
le metamorfosi
dell’ombra proiettata sulla calce.

Presenze antiche e nuove cozzano
il mondo tace, s’aprono dissonanze
dentro le crepe del silenzio
affondano i boati.

D’un tratto una chitarra
arpeggia sui ricordi
tutte le note m’insegnano a volare
sulle ali del tempo.
 

Non Esitare

Non esitare
a costruire un argine
in questo vivere
le dilaganti attese.

Ai nostri piedi il tempo
getta le foglie
d’incomprensibili responsi.

Quando le cose si allontanano
serra le labbra
lascia che il vento
canti il tuo dolore
nulla si perde mai del tutto.
 

Sole maestro

Allenta i nodi
la rissa dei concetti
di là della barriera è l’alto mare

il tempo ruota e ruota l’asse
la macchina celeste
torce le radiche
ed i sentieri ai nostri passi

lascia scorrer se puoi
fragranze di cedro sui torrenti
fiumi di sole tra le cieche imposte

non oltrepassa i limiti la luce
e sia così il tuo sguardo
che brilla come resina
nel salso del Maestrale

sia meridiana l’ago
del pino reclinato sulla cala
dove lo zoccolo del tempo
percuote l’ombra alle radici
e l’anima del seme insonne
che fiuta il muschio nella polvere.
 

Ruderi

Sui colli nei crateri
correvano le vigne
tra gialli di ginestra e zolfo.

Sono rimaste pietre allucinate
a ricordare l’ombra
dei passi arroventati
fuggir la dismisura
l’avanzar del fango
tra resti di colonne
case e templi saccheggiati.

Ordini vecchi e nuovi
intrecciano memorie
ma il tempo è scandito
dal maglio uniforme della storia.

Fibule e affreschi
codici balsamari lapidi
frutteti
e lo scompiglio delle connessioni
rapprese nella lava
rudere anch’essa
che andiamo somigliando.
 

Arsura

Qui tra i canneti e il mare
continua ad agitarsi il soffio
d’una speranza srotolata al vento.

Tra le contorte radiche
avanza la natura
nell’alito di un bacio senza meta
che spira sulla brace del ricordo.

Non questo mare
ti dico l’innocenza
le onde i colori d’un impulso
vibrato su tendini di seta
a custodire il nucleo di un principio
che viaggia nell’eternità.

Mentre vedo precipitare i ghiacci
e nei crepacci tetri l’aborto della terra
s’affaccia alla memoria il pozzo
aperto al ticchettio del cielo
il tetto di una casa
legata all’affannoso zinco
dei secchi grondanti nell’arsura
torna il respiro fermo
nel gioco interminabile del tempo.
 

Gravina

Arabesco spuntato dal vento
burrone di pietra e conchiglie
fugge l’ombra
calvalca ostinata sui muri
color della cenere il giorno
poi la notte ventagli di luna
scandisci sui fuochi rupestri
trascinando all’amore
le labbra increspate
nel grido assetato del tufo
che invoca le lacrime al cielo
ed intreccia i destini
le porose pareti
a un passaggio di nuvole rare
stillando il sudor dei millenni
ed infine la pioggia
che ingronda l’intaglio del sasso
nelle vuote cisterne
dove ancora risuonano gli echi
le mani
il lavoro costante nel tempo
della rossa gravina
sospesa su un esile fiume
che arranca verso il mare.
 

Epistrofe

Dovremmo ritrovare il cielo
il movimento della terra
e le radici
la vecchia casa che passando
scoprimmo con stupore
tra fichi d’India rose e lecci.

Nell’angolo consunto al sibilo del mare
scoprimmo la profondità del tempo
si strinsero le nostre menti
sparse come quel fiore rotto
sui ciottoli d’argilla nella polvere.

Dal fondo della nostra storia
protubera come alito di muschio
su un focolare spento la memoria.

Dalle foreste che spiantammo
fin dentro ai nostri desideri
non apprendemmo mai
responsi di un ritorno.

La luce inanellava ancora gli astri
senza parlare ci perdemmo come foglie
nell’aria carica di sale
l’odore del Ponente fa impazzire
quando sprigiona i sogni.

Poi ritrovammo strati di vernice
sull’innocente nuda pietra
la geometria del panico sui volti
intenti ad ordinare il mondo
che adesso esorta a ricordare.

Antropia entropia

L’arpa dei sogni ripasserà le dita
sulle logge bruciate
e ci sarà ancora nella nostra memoria
il voltar pagina ostinato
ai bordi di un cratere
che imbosca il buio dell’apparenza.

Chi farà il conto
di quel ch’è andato perso
non era lo stato più probabile
questo grigio tepore d’indistinto.
Cosa rimane dietro lo scarrocciar di luci
che squarciano la notte?

Su questa terra illuminata a giorno
vorticano le idee
tra ormoni e adrenalina fissi al vuoto
verso monotonie più stabili
migrano le parole
e il senso della differenza.

Senza più nostalgia vibrano i ponti
gli occhi sospesi sugli sbarramenti
soltanto folli
solo apparenti anch’essi
come i tramonti sospirati
già stretti tra le pieghe del millennio.

Con la freccia del tempo nel cuore
continuano a viaggiare le illusioni
dipinte in queste rive 
dove gli sguardi inorriditi
vagano ripetendo
qui mira e qui ti specchia
secol superbo e sciocco.

Stridono i rettili sgusciando 
dai corpi policordi dei santùri
naufragati nei deserti d’Oriente

e in altri continenti

arsenali invisibili, distanti
sagome arrugginite sfondano i miraggi
mentre rifulgono le stelle
sullo squamoso corpo dell’estate.

Sulle creste di luce
anche i nostri travagli
sono spuma soffiata dal vento.

S’aprono metamorfosi imminenti
prospettive inattese risalgono dal magma
sotteso a commessure a ricuciti blocchi.

Sbarra alle prefiche le porte
spalanca i timpani
alle sirene spetta il canto antico
ad esse i desideri tornano immortali
come un mare in tempesta
che alza le braccia al cielo
e inforca sulla rotta
l’astratto seguitare.

Yulbachar

Come la spola del telaio le dita dei tuoi figli
tieni serrate al filo del tappeto Yulbachar
sempre più rare sono le case con un tetto
le corde del rebab e la saggezza del vasaio
sono disperse nell’argilla dei fragili mattoni.
Vanno verso l’ignoto i carri carichi di corpi
Yulbachar non fermarti
spalanca le pupille non addormentarti
strofinati la pelle con la sabbia o col ghiaccio
dura a morire questa stagione priva di colori.

Di là delle pareti un pò di luce
per un’altra vita 
resisti innalza gli occhi sopra i monti
i demoni del freddo torneranno a scuotere
il rigido pastrano della guerra
e schiariranno le caverne che abitano in noi.

Le valli imperiture
sotto lo sguardo obliquo dei cavalli
che da decenni valicano i passi sanguinando
le gemme gli occhi raggelati gli anni tuoi
non s’apriranno mai finché tu non ritrovi un volto.

D questa parte vedo la tua bellezza ritrarsi
tra le pieghe del burqa su un ruscello
dove torni in segreto la notte Yulbachar
per giocare con gli orfani tra i ciottoli perenni.

Epistrofe 

Dovremmo ritrovare il cielo
il movimento della terra
e le radici
la vecchia casa che passando
scoprimmo con stupore
tra fichi d’India rose e lecci.

Nell’angolo consunto al sibilo del mare
scoprimmo la profondità del tempo
si strinsero le nostre menti
sparse come quel fiore rotto
sui ciottoli di argilla nella polvere.

Dal fondo della nostra storia
protubera come alito di muschio
su un focolare spento la memoria.

Dalle foreste che spiantammo
fin dentro ai nostri aneliti
non apprendemmo mai
responsi di un ritorno.

La luce inanellava gli astri
senza parlare ci perdemmo come foglie
nell’aria carica di sale
l’odore del Ponente fa impazzire
quando sprigiona i sogni.

Poi ritrovammo strati di vernice
sull’innocente nuda pietra
la geometria del panico sui volti
intenti ad ordinare il mondo
che adesso esorta a ricordare.

Gravina 

Arabesco spuntato dal vento
burrone di pietra e conchiglie
fugge l’ombra
cavalca ostinata sui muri
color della cenere il giorno
poi la notte ventagli di luna
scandisci sui fuochi rupestri
trascinando all’amore le labbra
increspate nel grido assetato 
che invoca le lacrime al cielo
ed intreccia ai destini
le porose pareti del tufo
a un passaggio di nuvole rare
stillando il sudor dei millenni
ed infine la pioggia
che ingronda l’intaglio del sasso
nelle vuote cisterne
dove suonano gli echi
e di nuovo le mani
il lavoro costante del tempo
nella rossa gravina
sospesa su un esile fiume
che arranca ostinato verso il mare.

Precipizi di agavi e ginestre 

I
Dei nostri luoghi antichi
resta soltanto un altro scorrere del tempo
nel lento sussurrare di una lingua scissa 
che intreccia luce ed ombra
sul nostro proseguire.

Nel verbo del silenzio
l’inizio  è la profezia di un seme
che spinge verso l’utopia
e ciò che non è ancora
entra nel sogno ad occhi aperti.

Mentre vedo l’esilio di popoli e culture
forme di vita asserragliate in cellule lontane
eppure mai così vicine al tracotante ingegno
che ora pervade gli argini
e fa sfiorir l’incanto di tutte le facciate.

Nella putredine d’asfaslto rotolano i sogni
sospinti dalla Tramontana
lì dove i precipizi orlati di agavi e ginestre
attesero le brezze 
che il fiato dell’estate alzava sui terrazzi.

II
Vi lasciammo messaggi e  promesse
le voci che adesso s’infrangono 
sopra i rigidi ammassi di lava
urlando albemarine e cicli
ad un dio  assorbito a clonare
ninfe cristalli pitechi e cerberi
nella brama di cifre e di codici.

Tra stelle luminose pietre e tempo
saprà la mente ritrovare il nesso
l’arco teso nel corpo di un amore
che la ragione va smarrendo.

Sono stravolti gli occhi
nell’arida foresta dei concetti
mentre la furia delle sparizioni
avanza come tarlo tra i vestiti
sbiadisce immagini corrode i libri
aperti alle remote tracce incise nel basalto.

Gli stormi del tramonto
planano sulle scogliere di novembre
piombate in fretta ad arginare i golfi
dai monti che sapevano di vento
mentre si espandono tra fossili e catrame
le maree dei frammenti di guerre lontane.

III
E della condizione umana l’eco è la speranza
che si trasforma in musica e sventaglia note
ma l’orizzonte è ancora il vuoto delle mani
corrugate a intrecciare senza posa 
i ghetti e le barriere della solitudine 
con le galassie giunte fino al canto
tripudio delle metamorfosi
strozzato come l’arte di avanzare
sopra sentieri a scacchi tra i muri di confine
e le bocche di fuoco serrate nei crateri.

C’erano porti e biblioteche
su questi litorali abbandonati
sento ansimare Sisifo
in un lontano scalpitio di sandali
blocchi impossibili nell’afasia dei volti
si adagiano sui fondi solforosi
dove pulsano gravide caldere
e i corpi nudi vogliono librarsi
sopra il crudo profumo di un agrume.

Insieme agli uragani spariranno
le guglie d’annerito marmo le aquile possenti
l’acciaio protervo e  le chimere
inartigliate al vuoto di un mistero
dove s’incrocia il demone al possesso.

IV
Ho acceso un fuoco rami di risulta
nell’angolo imbiancato di una stanza
prigione e  rimedio contro il freddo
sopra traversano gli uccelli
e schiere d’ali ragioni inafferrabili
passano ad agitare nuvole d’autunno
che scuotono negli occhi i desideri.

La discrepanza sta nelle parole
che non osammo pronunciare
per noi parlano gli alberi
i segni ancora freschi nella roccia
l’uscio consunto tra le mani
sul rossoterra di una soglia
rimasta a fronteggiare l’esodo
e le burrasche che non comprendiamo.

V
Ritornano irrisolti dai satelliti
gli antichi quesiti di una nuova scienza
che involucra celeste spazzatura
sulle città inondate di relitti
dove proliferano enigmi senza corpo
trite discordie di istinti e conoscenze.

Tra queste secche ciò che è nuovo insabbia 
e va spegnendo il credito col tempo
mentre titanici artifici solcano senza prora
l’immensità di mari sconosciuti.

Non valgono un naufragio
le fortune segnate sulla mappa di un atollo
e le polene inalberano il seno
per un istante   per amore
c’informano che l’etere è in tempesta.

Dov’è che troveremo approdo
l’istante vivo della luce il fiore
la rosa nel turbinio dei venti 
che commutava i flussi della vita?

Ritorna l’erba tornano i colori
rattoppano  trincee di guerre fratricide
ritornano le rapsodie di cose e di parole
e gli antichi antenati dei sogni
i ricordi svuotati a morte dai ribaltamenti.

VI
Su un promontorio sopra l’Ade
risalgono dal mare 
sorgenti limpide discese da lontano
permeano l’alta cima dei cipressi 
e questo errare alle radici 
disciolte nella cecità del sole
che attraversa le mura
e fende gli occhi senza paraventi
che assetati cercano tra le carte 
il senso che non ha cambiato rotta.

E quell’arsura ci consola
quando la pozza cristallina è sale
sapore della vita disseccato aroma
lasciato sulla sabbia e sulla roccia
che infiamma i cormorani nell’azzurro
dove affondarono le icone di Narciso.

Naufragio

Sul mare sconfinato
dove passarono le braccia
bompressi e sagome di legno
sibila senza posa il vento
aperto è il canto della vita
tra le umide distese.

La mente avanza come il nautilo
avvolta tra i residui del passato
tornano i messaggeri alati
e nel ricordo secco
gli arbusti radicati allo strapiombo.

Spezie profumi incensi
furono rare soste
gli occhi sacrificammo
il nostro olfatto i corpi
erano imprigionati nella meta
ma governammo l’amnesia.

La libertà l’amammo
legati a un albero maestro
l’arte era stretta in un ascolto
che poi non praticammo a lungo.

Nell’aria tersa del naufragio
s’innalza una cometa
massa di luce traccia di materia
che in questa notte fonda s’inabissa
tra le corde di una chitarra sommersa.

Hiroshima, racconto d’inverno   

Radioso mattino d’un agosto
è duro ricordare
il corpo d’albero sfibrato
in quel diluvio che mutava il tempo.

Corrono nuovi calendari
qui non racconto né misuro gli anni
forse saranno gli astri a ricordare
se torneranno ad innalzarsi
inni titanici inauditi pesi
dal corpo fecondo del metallo.

Si estingue un secolo accecante
mentre dai resti di un’apocalisse 
Prometeo torna ad aggirarsi
tra le fratture della nostra mente.

Scatola nera delle progressioni
lasciata nel cuore di un atollo
tra le orbite immote del pesce
lo sguardo tondo custodisce intatto
l’inizio del  naufragio
ma l’onda lunga non la intravediamo.

Arti cortecce sagome brandelli
tutti i graffiti
sulle pareti prive di sostegno
la seta delle chiome le pupille
convertite in calore
tripudio di una fisica marziale
nel cielo attonito che sogna incontri
e ricadute di fiocchi immacolati.

Nella chiuisa abetaia 
scorgo tra i rami inastricabili
la luce viva di una stella
sospesa come un grillo del silenzio
invoca a ricondurre i paradigmi 
al verbo dell’inizio.

Saprà placare gli occhi la natura
aggiogati da false metamorfosi
vedo laggiù gli aironi
sbucare da costanti azimutali.

Vengono a rammentarci
la storia inenarrabile
di questa glaciazione in corso
mentre sugli ostinati fiumi
controcorrente migrano i salmoni.

Nel rosa del tramonto
scivolano sinfonie senza spartiti
e i desideri scoccano le corde
sulla tua pelle e sulla mia
quegli anni continuano a bruciare
ma mai ne discutemmo a lungo.

Enigma

L’enigma graffia le parole
le labbra sognano la pioggia
gli occhi
lo sguardo sull’intera vita.

Il meccanismo delle parti
si fa artiglio
divora la trinità del tempo
nel rovescio di fuoco e ferro
sei tu la Sfinge
rimasta a mezza via.

I sillogismi sono fermi
i trionfi dello spazio danzano
mentre perdura il battito del tempo
la viva macchina del mondo
risveglia la poesia.

E dalle impronte sulla luna
segni scrittura al limite del corpo
ancor più luminose appaiono le tracce
di mani nell’argilla che si perdono
nel vento della storia.

Messaggi

Non ti invito a guardare
il tempo lungo
la ghiaia che si modella
nel ritmo infaticabile del mare
frantumi di balocchi alla battigia
o i sospiri che doppiavano il capo
adesso avvolti in pugni di catrame.

Tra i labirinti d’aria guarda
smarrite virano le rondini
nell’etere asfissiante delle antenne
svolazza la miseria
proiettata sulle fitte metropoli
in sintonia con i rovesci
di tutte le parabole.

Rosa dei venti 

I
Vivono in noi non muoiono
profumi d’alga d’Africa e d’Oriente
sapore di radici
salsedine limone dattero
ed il rombar dei mari d’indaco
nell’occhio azzurro del deserto
orbite narici arcate
quel disperato sguardo d’innocenza
i cieli di purezza sole ed ombra
serbammo nei millenni.

Vivono in noi sentieri che si snodano
lungo le mura della pace
al passo delle carovane
di seta e di strumenti a corda
danzano gli entusiasmi
tra i tetti delle case bianche
nelle radure spiantate dal possesso.

II
E sulle squame dell’Egeo ventoso
danza l’oceano stringe in pugno
l’ardita tracotanza dei teoremi
ruggine annoda bitte gomene
burrasche sciolte tra i capelli al vento
che accendono trombe marine
leggere come corpi di odalisca
intorno ai pozzi disseccati
di questo mondo della sera.

E’ impressa con il sale la saggezza
tra le rughe del tempo e della terra
insieme al fiume scorrono gli intagli
tra le gravine e i picchi d’Aspromonte
non regge un paradosso di mattoni vuoti
l’architettura delle nostre cattedrali
nella storia snervante di un disagio
vive l’immagine del mondo.

III
Se un albero residuo è la natura
candela fioca luce d’incurante magma
scaglia lucente serpe che s’immerge
nel corpo ancora caldo dei vulcani.
natura sono i miei pensieri                             -
acqua lumaca foglia al vento
rugiada e fuoco sparsi nelle arterie.

S’incrinano sui volti queste icone
scolorano le maschere inaudite 
quando il metallo perde il suo potere.

Passato è il tempo
degli anatemi sulle nostre teste
questo stesso naufragio sembra già passato
mentre perdura il flusso dell’eternità
nel soffio adamantino sopra i precipizi
apre le braccia dimezzate una speranza
und ich verstehe sie nicht!

IV
O Iperione
dall’alto dell’isola di Tino
tutt’intero coglievi un segreto del mondo
eins zu sein mit allem was lebt
felice dimenticanza di se stessi
nel suo corpo verbale la poesia
folgorava la vita immortale
che gridasti alla rosa dei venti.

Parole di sapienza antica 
andavano a smarrirsi nelle nostre scuole
wäre ich nie in euren Schulen gegangen!

V
E nella relatività del tempo
spaccammo gli atomi
dov’è che si era aperto quel processo?
Ettore Majorana ci corrisponde ancora
principi d’indeterminazione
nel vuoto certo di una sparizione
l’arco dell’incombenza tesa
a ricordarci le connessioni che ci sfuggono
nell’era dei ribaltamenti.

Cascate di energia trascorrono nel mare
e un indiviso abbraccio ci sussurra
essere uno con il tutto.

Ci naufragava tra le mani quella luce
e sulle nostre spiagge 
si sfilacciava l’ odissea dei secoli.
Fuori del tempo proiettammo i corpi 
i monasteri  le montagne sacre 
per una mancia di lussuria
foreste e conoscenze vanno alla deriva
e nuovi sguardi senza più confini
sulle rovine coltivano fortune
in un passar di mutile stagioni.

VI
Ci sarà un’altra estate
coi prodigi del tempo torneranno
correnti terse dentro i desideri
gli arsi bambù le canne d’organo gli ottoni
e una poesia di voci alzate
muraglia contro le muraglie 
del dilagante oblio.

Non chieder dove il filo
dipana il labirinto dei sentieri
son sfaccettate come prismi le parole
noi vi giriamo intorno
in cerca di un colore ch’è già altrove
queste stesse ferite che portiamo
viaggiano sull’ala del gabbiano
nell’aria che sa d’alba e di tramonto.


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