VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
Electronic Center of Arts

Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art


Calamus
Almanacco di poesia


Ermanno Guantini

   
Or con l’avvenuto tardo  lauro
Su quel sofà mai visto
L'auto ci strania vorace
E’ a san pietro in montorio
Dite voi taciturni padri
Il fan di cartoncino bristol
In laude di dama que lauda, comma 4
Della nuova guerra
Di quell’inghippo losco
Il sacco (versione 6.1)
E in cielo quasi di sé sfarinando tracce
Quercianella
Un lamento alle forze di polizia
Globalizza e contesta
Doppio sogno
ricordavi le parole di borges
Arsenio
A volte
Al colloquio
Annunciazione dell'Arcangelo Gabriele a  Zaccaria
Eroe dell' uno
Traduzioni e variazioni
Quattro poesie






Or con l’avvenuto tardo  lauro

or con l’avvenuto tardo  lauro
sguaino il plico e non mi so
valvassore più di tanto.

non credo rideranno le maestrine buone dell’inavvenuto
cambiamento, che le faccette/voto stampigliate in compitini
lasciavano presagire. si era  prossimi geni, allora che avveniva
l’apprensivo trapasso dal bianchennero al colore e
il sorriso coronava la coniugazione a un futuro anteriore
piucchepperfetto.  or con l’avvenuto tardo lauro

impiastricciando il certificato dello stato, la maestra
in carta pecora dirà
e ora chessenefa  dotto’ ?
 

Su quel sofà mai visto

su quel sofà mai visto
prima
che viveva di stoffa dura
come rigidita
da un cartone di vetro
soffiato, in quell’aria rada
da famiglia allargata
di tedio scompigliata
nell’annuale riunione condominiale
riversavo ospite
il sorriso medio da pomeriggio e nell’attesa
dello start fendevano prove
i patròn di schermaglie, da infilzare
al terzo punto prima delle varie.

estraneo a quelle case
sguincio a follonica     ero
compagno tuo dell’occasione.
altri arrivavano, incappavo un sorriso
diviso, mi accovacciavo alla tua posa
composta che interrogava
gli sviluppi del bivacco; annotavo
      avresti riferito a chi di dovere con la calcolatrice svedese?
la certezza d’un tuo dubbio riparavo
a margine, mi sapevo      inconteso.

                  arredo grattato, scialbavo
           alla fiammella della discussione e
      stavo bene davvero eccentrico
  davvero inutile. mi fingevo
attento ma
solo
  ascoltavo all’interno l’incaponirsi
     d’un acquattato libeccio nei meandri
        cubi vuoti del palazzo, ex crema del ‘60
             che sussurrava epocali quei silenzi spessi
                  dopo la grassa stagione degli affitti.

a fianco settembre  ne rideva e un seme scivolava
in sordina; basta ne rifaremo tetto nuovo era
 partita come tarlo la decisione
di tutti, ci si preventivi è ora,
poi
 nell’ordine insinuavano
il commercialista pannelli consigli postille rimandi sbadigli
cadevano a cocci, tutti a riparare il vecchio
tetto
 dalle virtuose promesse. roboava
ora l’androne d’un timore d’inverno scrostato.   solo
un intervento economicissimo di fortuna senza gru abusivo
 avrebbe velato il danno che si fiutava  lieve  temporale.

L'auto ci strania vorace

l'auto ci strania vorace
diluendo il dettato
l'ascolto.

forse sono solo sintomi
che deplori raschiando il dolore
o è il male
che griffa; andiamo tra
corsie che aprono
un trincio distratto: goffi
tra i grumi d'un bosco frontale

si va.
l'auto ci strania veloce
carpendo il dettato

e l'ascolto.
ci s'impaura d'una primavera
tramestata da segnali
imperfetti e rimandi
senza prefissi. ascendiamo

feriti. ci si sfreccia
aprendo forse
di noi

che un fianco. ignudi
di fronte al sandalo aperto
che zoppica sdrucito là
sui prati fradici del lungostrada;
le prostitute abbeverano.

forse sono solo sintomi
mentre la città finge un coma
d'istinto, remota.

noi due variamo
le cadenze, tergendo
la pioggia l'asfalto il vetro,
è frattura breve,
la nostra, arco
minimo inaspriamo
impercettibili. sappiamo
che il giudizio è altro.
è' alto. sappiamo

d'esser oltre i cento, ma
ci s'impone un contegno
di superstiti. via

si va
 

E’ a san pietro in montorio

è a san pietro in montorio
escono  gli sposi
violini
quando lauto un vento
crespa il gianicolo. muta la folla
in disparte.
 

li vedo, ventenni serrarsi sottecchi
fra le dita di sguardi parenti,
ne provo
a salir piano due scale.

il cielo s’inguaia di mucose strie
e timido mi s’accosta
un sudorìparo, sorride
del mio sorriso. mi spiega
le mani del loro amare; non
è cambiato, è diverso forse
oggi, ma forse
tu ne sei il segno; chiosa lui
mentre qualcuno nella folla
rovista la borsetta
a rabberciarsi il trucco.

accade. in fronte al tempietto
mi spiazza una folata ingorda.
solo, nel giorno breve
gli occhi mi si crepano del rimmel.
mi rimprovero
d’esser lì, come ogni giorno
del non coraggio di sfilare
a trastevere dove brulica
la vita in divenire.
tiro i chicchi di riso e me ne vo, senza gran saluti.
 

Dite voi taciturni padri

dite voi, taciturni padri
coturnati da mediani in disuso
non sia  giorno  che depresso sfria
l’oggi
ma un’estate ridarella dove
ricordare di allora
solo ciò che noi piccini appena sappiamo
allora
orifiamma di sketch e molotòv.
scribacchio sole velato sul pentagramma.

 eh però  voi giudici di provata scienza
generazione di eroi mancati appelo
sappiate,  non  siamo i soli, noi
fenestrati in  sordo codice a barre
sappiamo di sfiorire foltifolti, debosciati
nell’arma sottile che è il piacere
                              l’irricordanza.
 

Il fan di cartoncino bristol

mi dico, è lui quello strano?
 ci saluta di lontano, antico
il fan ambientale, col secchio
grasso, scroscia pionieri arbusti
sul pubblico pratino, s’avvvicina torvastro; gli chiedo.
con un piede il tipo sale, medita
sul trespolo, incespica gotica
una predica sul verde
sfiancato, i giovani fannulla
a fatica il deltaplano l’insegue,
sparuta schiamazza la nube. e
gli chiedo di lui
ragazzo, dimmi                        cos’era.

traballa traborda spaesa, m’infischia che
ne sai? era il tempo strambo
dei rastrelli, ‘quarantaquattro. precoci
le rughe alle tazze cocciate.
che ne so, ma perché morirlo poi
è libro di figure, altro             gli dico
che fate, altro che giostre. agli
affetti rimossi si spanna, ai respiri
rimorsi si cruccia, bacucco
dissenna: sferra via i trucioli
le stagioni le ragioni di allora, lo

addita
a esotico scampolo
un vuccumprà . che  senza motivo gratis gli impartisce lezioni d’un trasandato francese oltremare

si frana il cavalletto
da un cielo spaesato.
 

In laude di dama que lauda, comma 4

oh dama tu mi perturbi, mi stagli
con lodi di gomma in avori torniti
su torri tra cirri e tranelli, cara

t'industri a traviarmi d'incensi
e allori tornelli; son storni
i tuoi, di corde che frugliano

le ciprie del mio trullo
di peripateta zoppo: traumi
ch'incasso, vibrando le trèfole

del mio crasso pupurrì. beato
uno spirto m'infondi? o forse
                  vedi solo di me che un trìllo,

un farfuglio di ganzo che
spèrpera il suo rìvolo vero,
quello che il turbigliòn di ruzzate

   affogò in puttanesche stonate.
 

Della nuova guerra

deus fitto cupe barbe sconce
ex  machina invogliava
bolsi putti  a scimmiotti voli
scarburati
in teatro; circumvolavano
il fracasso e la maniera, strabiliando chi
in platea                                                               mangiava  popcorn tranquillo
                                                                             nell’attesa del ciak.

e in quinta, d’alto eruttando le saette
fallace il saladino squinternava
minacce brillanti domopak, si prevedeva
un filo logico
un poco grosso, aggiogato a un polso burbero
 ma avvincente.

                                                                         niente melò, del preambolo
                                                                         si sbrighino le quisquilie….

Di quell’inghippo losco

di quell’inghippo losco
non si seppe altro
che indiscrezioni
mentre masnada la crociera
sviava l’adriatico, lumaca:
così
le mucillagini leccavano lo scafo
attente a non impensierire.

se ne discuteva a ore brocche
di primo mattino
quando la mente era persa
in slow-fox di altre notti. per
il non aver dormito, per
il non aver sognato granchè
si riandava ai falsi miti di progresso.
e si sentiva i boati, a rintocchi
nel mare che ad est
perso distraeva di sé; consueti
i gesti
di risacca e  progresso. disposte

le sdraio alla rinfusa, le illusioni
hanno il senso delle prime ore,
ma sapersi stropicciata
indosso un’attesa,  minacciava
il riordino delle priorità .
nella discussione, al ponte
erano giri accesi soffusi, tacchi
come anziani confusi .

 le gelatine di frutta cadenzavano
aromi esotici
al primo pallido sole.
 

Il sacco (versione 6.1)
 

                  era la fine, davvero

e vanesio il dòmino,    stridulo   incantando
indicando alla sua dama discinta
indicandole nello sconcerto generale
                                   il supporsi intricare
codardo di code: minuscole
rane, in erba sventare,                        indicandole
giubilare ancor folli soldati
in un’adolescenza di rame.

e indicandole ancora fiorite
le lame le donne sfregate, i sogni
scarlatti, senza riguardi le disse sicuro,

di rado vedrai,
mia puttana,
un uomo avanzare in una tregua

nel collasso d’ impèri
avanzare dove discorran fitte le ore

[in trincea
esalavano oli barlumi, i bronzi dei commilitoni
sgranati]. gli slavi serrati ai semafori.

eppure si sappia, fra noi : ore 8.47 alarico già marciava sul celio, che dirne
porta salaria orti sallustiani fori imperiali basilica giulia tempio della pace terme palatine
con paccottiglie souvenir visi
goti bistrattati ruffiani fili
bustieri goffi poliglotti sfaccendati.
ancora marciava alarico
sul celio fra
noi fra
noi

così cadde l’ultima traccia nel vuoto
ridicola la numero nove e il lacchè
  riprese la danza in silenzio
    nell’attesa del brunch.
 

E in cielo quasi di sé sfarinando tracce

 e in cielo quasi di sé sfarinando tracce
sferzi di luce, a scolpire in un rarefare di fremiti
che a poco scemando stagliano immenso
lo scorcio ai silenzi, sbaraglia inatteso uno scroscio; e
                       stremo è

il segnale di una frattura, divampa
il dubbio in navata striscia autunno
immorale
  la parata. così

mutan radici, percorsi s’incrinano
incalzano nòve ragioni, congreghe d’azzardo
sgorgan sospinte da piogge incostanti
ch’accostano a strambo sentire. è

altra la storia; nel contratto
che scorrazzi di turbe, chinchaglie
di neon serran convinti sospinti in
aspri clangori, smidollati all’humus
tra bestie orbe scervellate all’imminenza
d’inatteso collasso,               coli rimmel tu
balli scorretta vaga ai bigonci
dei sessi urgenti, letamanti (tiritere disturbano, frappongono amplessi, sviano effrazioni di sessi)
è poca la
storia: renèe oggi

la madre è grama, s’innalza l’incenso: è fòco d’inchiostri.

foco come abnorme fusse
in cui forgiare eclettico il marchio nuovo,
                                                una   pioggia
arabesca le carni, scardina il marcio, surge
moneta agli scranni. [estasi
divampa barbagli d’inganni, napalm
narcisi piroettan a fiotti
fasci fasulli sui teli nel cartoccio

                                che è
                                odeòn].

quierpopolominutosimpazza?
frotte di teppe fioccan sghimbesci
di risa al fottìo d’impiastri, salire
virare carpiare  folgorati zanni turgidi
clerici. onomatopee
schizzan perplesse com’avant-gard
elastici d’antan, compl
                                 esse                     è stessa la storia
svirgolano l’immota capanna del ciel
che è
autunno immorale.
 

Quercianella

tangemo
quercianella, toponimo arbustivo
incagliati in medio luglio
quand’ ecco nel terzo vagone
sedevi anche tu, scorbutico
ad aspettarti sano tra

scanditi singulti di un bimbo
in terza fila, bigio.
e come azzeccarne il donde?
non v’era alcun chi.

sfocato, dal finestrino
sconti dei tramonti
 un ennesimo
ma non è che anteriore
ciò che si dipana brano di poi?
ascoltane
le modulazioni, inceppati
gli accenni crespe
le riprese; nei chiassi
scomparto vedi
spezzarsi isole nervose
in un mare di cartapesta,
paion capricci, sfriati
al baluginar d’un dio d’ego, le
nubi imberbi
‘sti fili bigi.

non come nella dracena secca
roteava avant’ieri il ragno
e di ellissi si moriva
 e frasi sfatte.

Un lamento alle forze di polizia

credetemi non è voglia di giustizia
ma anelito di grazia  e di vangelo
a proporvi il giusto esempio:
impartite  il castigo  che castighi
il forzare del lavoro nelle celle
lo schianto delle tv contro le grate
l’uso in calibro delle legnate
il rifiuto del sesso galeotto. solo
difendiamo il lavoro, le parcelle, le viuzze
le pensioni gli scontrini, dall’orda serrata
tunisina kosovara. ci spacciano gli stupri
organizzati e chiedono, ominidi impuniti,
le case i mutui agevolati la macchina blindata
il lavoro triplo, doppia cittadinanza; da conigli
si snocciolano raschiano e  frammischiano
tutti uguali come  facce triste da cinesi.
trafficoni cincischiano s’intingolano
si fingono rifugiati unghioni emarginati,
poi detengono le armi e s’intervistano
 in tivvù, coi passamontagni acciottolati:
ci ingozzano di robba strana, lavoran così
attori nati, ‘sti beduini mancati
invertebrati.
 

Globalizza e contesta

ne ribadiamo la necessità
agglobare est tendenza ineludibile,
agglobare perchè input siano
sigillati in sincrone digitatio
in contesti acquieti, proni d’uffici market.
abbomba, i panozzi mcdonaldo son
farciti di chip et scorie ch'aggustano
et cucciano a pronti ritorni. tu
fellow, ritorni a' mmordarli, a bolarli
car  dindan pauci sexterzi,
and if you drunk ccocaccola middle, you
 sfreeze di lazzi e get your cock up, coke
cocamenùnondìrdino...., est tendentia
lo ribadiamo ineludibile, il rosxxxo(red) la
emme (yellow) aggrediente, le bollice sfreeze...et
ridancie le trozze que digitano sincrone
immenù ch'abboli, che skoli stonato.scontri
ni!! inglòba come capro infiammatorio
tra i mille di espana plaza,you interrato
bunkerato nel deliquio del transgenic
accumulo, bòmbati est libertade ! crauto,
attelepatisci- connetti at tele plus in mille
screens, ridondanti your heart team.guarda pur
tu e stona aggorga, trabuzza sbrana ‘cause mome
non c'è (la traufa). sei tendente. sei unique-irricordante.
et affine dinner acciccati autre rouge, accicca
la cancerica Marlba del tuo babbo- che sega! che saga...
 

Doppio sogno

 attratti dalle sette porte, stretti
si calcolava spanne di tendaggi
porpora e  laidi prelati, tra  zanni

arroccarsi, in bui stipiti, per stanze
dove accesa filtrava una metrica
pagana. si calcolavan difese

scudisci su carni e acido il filtrare
calzante d’inganni latrati, nudi
per cosce incastonate, tra  martelli

clavicembali e fra dischiuse labbra
viole; una metrica pagana a tratti
insinuava rintocchi in stanze, scoppi

fragori tra scacchi e freschi intonaci,
tracce in carni preziose; balaustre
barocche, le mosse degli astanti

convenuti.      temevo dunque

   temevo bach. temevo
quando già allora mi era imposto

il taxi non resti fuori della villa
e lei non spezzi la banconota…

ricordavi le parole di borges

ricordavi le parole di borges
che, ritratto in uno scorcio d'arrabal
civettava le tre dita all'orizzonte?

scarniva in tre destini
il futuro d'un libro in versi. appunto,

tre memorabili elementarissimi

accidenti.
che il primo caso n'è l'irricordanza

alle ombre future;

che il secondo è un' idea
totale, ammoniva borges

della figura del poeta,
uno scorcio morale

d'autore, nel mare di spade,
di pochi segni    intrusi
d'indice, nessuno quasi.
 

e quindi il terzo inganno?

a copiarne carponi
te ne scordi il segreto?

o solo un trillo, li avrà partecipi
a un crepuscolo, dei percorsi abituali

i posteri vocati.

Arsenio

solitario, fra catinelle e marmi in crasi
tardoimpero, or segui tu ‘sta polla d’estro,
quando ancora in calidario saturnino,
collaudati a umori effusioni effrazioni
sbirciano, anziani bagnanti, turbati
dal cielo in carta e arsenio. salmastro
indugia all’onda schiva, un ciarpame
di miragli a globi rossi. brilla ancora
il cielo agnosta, smiracola tra mulinelli
così la calca a sdraia, senescente
tra i gracchi di tzigani altoparlanti
a onde mono; sullo specchio d’ acqua
che riflette i prodigi d’un cielo scimitarra.
s'agitano i ricordi in calidario.
i morti non camminano sull’acqua.
non nuotano i ricordi che di rado.

II

è battaglia mentre scroscia nuova vita sulla vita,
mentre divampa linfa nuova allo spartito,
scrivine, perché è incauto passeggero l’estro tuo
che la sera assale; or verga tu, che d’archi è una china
che or in trilli capriccia, ma cheta poi, a perdifiato;
troppo tardi, nervosa la corda del violino
scheggia l’archetto primo. troppo tardi, sbirbona
di strani intenti meteo il cielo, appare improvviso
un destino segnato, una curva col gesso….
non nuotano i ricordi che di rado.
straccia il conato d’acqua, spare
la pioggia. asserena.

s’incaglia così la baruffa in cirri
upper-class.

III.

l’estro è passeggero
incauto, ben sai: nel calidario
tra i bagnanti, settembrina, la fumea
t’intravisa
nel gioco degli incanti, schiara e
tu acciechi dei barbagli che, ratto
mirabola il tramonto. così
in fine d’un prodigio consumato,
d’urto, come crine d’un’ ampolla
rasserena; i vegliardi vibrano
a nuovo mezzobusti,
e in dorso
tu scialacqui le tue rime d’ordinanza;
smemori, incupendo di slancio
laido scagli a nuove guise.

A volte

non ti avrei rivista
che in altra città
in altra luce
in altro inganno.

non torna, esatto
il tempo dei ricordi.

l' ombra fiorisce gondole di creta
nei nostri sogni. a volte
manca a volte, alla forma
dei pensieri indolenti  ritrosi,
gondole distratte, miei
manca
l'accortezza d'una mano
affatto affusolata,
straniera
manca,  che a forzare
vera, provochi in me
smorfia
di portento.

non ti avrei rivista.
 

Al colloquio

erano in tre, puntuti

in giacca sillabata,
al vaniloquio
dissero se credevo
in ciò che sarei pututo
divenire, semplice
in un contesto, dissero
del sapere del saper fare, dissero
affabili, del saper essere, ingenuo
aggredii;            e
dissi che ci sapevo fare
a parole, sì
a parole. credo
mi dissero, ma rimasero in due,      (il padrone distrasse da me, per un suo
voto)
se ero portato al fare oppure

alla ragioneria applicata, dissi
ciò che avrei potuto essere:

uno gnomo da giardino,
in un contesto di fiaba.

Annunciazione dell'Arcangelo Gabriele a  Zaccaria
da un'idea di Gabriele Pepe

"Ed ecco un Angelo del Signore gli apparve ritto alla destra dell'altare dell'incenso
e Zaccaria vedendolo, fu turbato e lo spavento cadde sopra di lui."

  e Zaccaria rimase muto.

" Maggio aggelato
crine di maggio
fronte di genti, allora
smarrirete già

    in annunciazione
    del colto macello.

 Maggio aggiogato
smorfia di gladio,
quando predato
notturno il cielo
                                                stellato

d' immenso,             scivolerà
con tutto l’universo; nel tempio
tra uncini, sorrisi di lama
rugiada: tu già

vedrai di maggio, che un volto
                                   di rimorso..."

"E il popolo intanto stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava che egli indugiasse
così nel Santuario. Infine venuto fuori, non riusciva a parlar loro, e compresero
che aveva avuto una visione nel Santuario; egli però faceva dei segni e rimase muto."

Eroe dell' uno

con lingue puntite
scapole, e sorrisi
tranelli di chi pensa
saper di te

ciò che tu meno vuoi
del prossimo
intuire
e minuetti sconcerti
sconvenienti a confondere
fino         a rendere
te

nolente, carente
protagonista, dardo
all'avventura d'una moviola
che tu vorresti (avresti voluto)

dimessa: il fantoccio gonfiabile
d'amico, seduto
d'infanzia,  divora confidente
il granturco scoppiato, tra i dolby
e ignora

il cinedocumentaristico processo
con toni di sprezzo
acuto al povero,
celebrato, tra le pieghe
dell'istante, ignora. ribalta
la vita a te
a te rincuora:

1.dove parlare del denaro,
2.dove parlare dell'oggetto,
3.dove parlare di sé,
4.dove parlare dell'altra.

e tra 'sti quattro cantoni
distesi come ghiaia sopraffina
scavi un deserto di grana, affatto
eroe di te.

traduzioni e variazioni
di Guglielmo d'Aquitania

Ab la dolchor del temps novel
foillo li bosc e li aucel
chanton chascun en lor lati
segon lo vers del novel chan.....
 

Esercizio I

I
Nello dolce novel tempo
ridono i boschi e gli uccelli
cantan in melodia del loro canto
nòvo: ciò che aneli, ognun si volga.

II
Dal luogo a me più caro, messaggio
non vedo, non messaggero; così cuor
non dorme, né ride, né oso farmi innanzi
io, ancor incerto che sia, il patto così
come lo chiesi. Nostro amore, vedi

III
è del biancospino, il ramo che brina, annotte
in pioggia e gelo, di là da un domani
ove spanda il sole; oltre il ramo,
entro al verde
nella foglia.

IV
Madido, ho ricordo d'un mattino
che tacemmo nostra guerra
in patto e Lei mi fece dono, strana
un anello e fedeltà d'amore..
e ancor un giorno mi lasci Iddio
esserle vassallo ad adescar sua veste!

V
Non odo il canto ostile di chi mi volle
straniero a mia dama, ella
è mio Signore; so come parole sian
vane, in vane formule d'amore
di cui va vantando alcuno: ma noi

noi abbiam, d'amor carne e affilato
                    un pugnale.
 

Quattro poesie

I

cerco il tuo tempo, distratto
ai miei indugi.

in idillio mi scorgi
sfalsato
dissorto alle tue frenesie
di posa e scomposta, quando
in tua rimostranza appaio
flessivo
da speculare irrisolto
sui tuoi falsetti lungamente spiegati
e mai appresi
dai miei pigri palmi smagriti:

ho spanne di senno a svelarti
in estrema tenzone.
e dopo i  congegnati fioretti

t'insegnerei un pretesto (un orizzonte
inclinato da spaesare lievemente)
a importi, ti costruirei
un cavalluccio di barbiere modesto
graffierei a china la clessidra
ruffiana, ma tu

accettata m'abbui profonda

tu fazione, traccia
che scintilla indolente
nell'avvenimento
concentrico.

il tuo tempo ha cadenze di suono
che non arrivo anche segugio.

II.

vedi: la mia saviezza di contabile
t'incute parcelle
che sprezzi
e l'oscuro dei tuoi occhi di dama
schiudono incendi e acume,
ne accartoccio le fila di fuoco
sbuffando artimbanco,

così ferina illusiva mi trascini

commosso: m'esplode un rimorso
d'inattuale emergenza.

ne scrivo. flusso
e screziata dei miei crampi

tu riversi
un profilo di ripide scale
ineguale tu
al mio desiderio di ripido
azzardo. alle danze. alle danze.

III.

coltivarsi
la mia distrazione
di stecche; qui
è il tuo rimprovero
corrosivo.

così la mia barba anacoreta
incurante, così il mio occhio
camuffato. mentre lo stagno

breve risolve ghirlande
le indiscrezioni che i tuoi sassi
impiegati di getto.
 

voltaico
il tempo ha il corso
delle muse brevissime, s'insinua
il dubbio alle corde
stretto e non resta
che un alibi a cavalcioni. ricordi

quale fosse l'affanno? quale
il verde struggente di febbraio
deprime di piogge liberatrici
gli interstizi della morte

giusto trascorsa. ci osserviamo

nelle tue trecento parole commesse
di sbieco e profonde
nel silenzio: il costrutto regolare
di pioppete a losanghe accese e artificiali
(ho sconnessi oggetti imposti nelle tasche
ad inventarci amuleti di ore divertite)
diviene un'estrema variazione

del pomeriggio intaccato dai tralicci
umani.

IV.

tuo eloquio a sbalzi nascondi
la verve al mio sfrecciato cinismo
che oggi sulla carta

gualcito affanno dei pavidi.
sulla carta posso provare
a ordinarti per rubuste parallele
di concetti sequenziali e progressivi:

le mie linee essenti
le tue elusioni da elettra
i miei rimpianti di ragno oleoso
le tue frenesie impigrite in passeggiate
sfiancanti, i miei sarcasmi di greto.
posso tentare.

ma sappiamolo,
è una volubile storta
un minicataclisma a giostrare
i pollini più dolciastri.
 

non il rito, e non bastano
artificieri; il tuo fiore
ne perdo ormai sfocando
i contrasti
distante al tuo umore, arranco
mimo di schiena (viole distinte
dagli spalti a puntarmi)

e digiuno in miopia anch'essa scena.


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