Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Paul Celan e l'inconscio
di Antonio Spagnuolo
 

 

Se in ultima analisi l'inconscio è il luogo della poesia e se la poesia è legata all'inconscio, la libido sarà verità e distruzione, esprimendo la totalità del pensiero, al di là del raziocinio e dell'io cosciente.
Sottraendosi ad ogni norma e ad ogni freno la parola non riconosce il proprio suono, ma sente risuonare se stessa: si produce e si rinnova continuamente travolgendo sia lo stato di veglia, che i processi di elaborazione del sogno.
La poesia coincide con l'Eros ed in esso si identifica per quella forza necessaria ad interrompere il sopraggiungere di Tanatos. Il tentativo diviene allora forza illimitata per uscire dalla condizione umana sopravvissuta alla espressione comune, ed incapace di ristrettezze del prevedibile, del consumabile, dell'indicibilità politica, della mostruosità del genocidio, bensì pronta a codificare l'inesauribile volontà di ri/sistemare le azioni della carne e dello spirito.(1)
Non si dà condizione onirica senza larghe falde d'ansia e magari di angoscia, non si dà regressione agli strati preformali dell'esistenza coscienziale senza perdersi nei labirinti dello sgomento e del valore prelogico della poesia.
Nell'impossibilità di recuperare quella realtà sepolta, ove la miseria linguistica ed emotiva di un protagonista qualunque diviene, nella quotidianità, il motore della vita stessa di un personaggio, sbalzato nella ripetitività con andatura circolare ed atemporale, fino a quando la morte non produca sussulti e smarrimenti tali da incarcerare la poesia, la pagina ritorna in quel tempo apparentemente perduto, per ri/afferrare il leggibile al di fuori della cultura, precisando che la cultura non è un corpo di artefatti o di informazioni, ma una rete di senso, che consente al poeta di comunicare soprattutto in una società come la nostra, satura di disinformazioni sfilacciate e corrose dalla contaminazione dei mass-media.
Celan nella sua intensa sospensione in alcuni moduli ricorrenti, che lo imprigionano nella rivisitazione del ricordo erotico, ripropone quelle tracce simboliche prevalentemente significative di una mancanza, di una assenza, di una brevità, che annunciano e ingigantiscono il desiderio dell'amante, di colei che, pur presente negli attimi dell'amplesso e della passione, non è di nuovo o ancora presente nella rievocazione poetica.

“Già stavamo distesi

nel profondo della macchia, allorché

tu finalmente ti accostasti carponi.

Ma non potemmo unirci a te

attraverso il buio:

regnava

luce coatta”. (2)

Come un percorso circolare, che ogni volta descriva circonferenze più ampie e si diffonda in ondulazioni musicali, così l'aspetto tragico della sua vita si ripresenta nel ritmo poetico delle pagine, riuscendo con magistrale sintonia a cancellare il tono più informe della conversazione, della comunicazione, quello che sfugge ad ogni sonda letteraria, ai limiti della insignificanza, per sfiorare in un abbraccio fuggitivo tutti i colori che coinvolgono il sogno, seducendo Tanatos verso quella realtà sepolta, compatta ed essenziale nella sua brevità temporale. Qui gioca la parola dirompente nella prepotenza dell'Eros:

“Attinti con il mestolo della cenere

dal trogolo dell'Essere,

saponosi, al

secondo

tentativo, l'uno

sull'altro,

e ora inspiegabilmente rimpinzati,

di molto

fuori di noi e già - a che scopo?-

scomposti,

poi (al terzo

tentativo?)

soffiati

dietro il corno, dinanzi

al rudere di lacrime

ancora in piedi

una, due, tre volte,

dallo spaiato,

scisso e gemmante,

sventolante polmone.” (3)

Il respiro, l'affanno della battaglia amorosa, qui simbolicamente si presenta, in maniera vittoriosa e sfacciata, come un polmone sventolante, qualcosa che assomigli alla bandiera, ben piantata al vento, testimone di quei tentativi materializzatisi dalla cenere al rudere delle lacrime, dalle scissioni asincroniche del sesso spaiato alla finale soluzione scomposta. Densità estetica della dimensione verbale capace di restituire attraverso la poesia la realtà che ci circonda.

“Una parola, per cui volentieri

perdetti te:

la parola

mai-più.

Era,

e talvolta anche tu l'hai saputo,

era

una libertà.

Noi nuotammo.

Ricordi che io cantai?

Cantai con l'albero cigliato, con il timone.

Ricordi che nuotasti?

Giacevi aperta dinanzi a me,

mi giacevi, tu giacevi

dinanzi la mia in-

calzante anima.

Io nuotai per entrambi. Non nuotai.

Nuotò l'albero cigliato.

Veramente nuotò? Era tutto attorno

un acquitrino. Era lo stagno infinito.

Nero ed infinito, e pendeva

così

divallando sul mondo.

Ricordi che io cantai ?

Questa-

oh questa deriva.

Mai-più. Divallando sul mondo.

Non cantai. Aperta tu giacevi

dinanzi all'anima mia in viaggio.”(4)

Aperta, aperta tu giacevi, profondo crepaccio, scendendo dall'empireo verso il mondo, in un palese capovolgimento del non-detto ove la trasgressione non è necessariamente peccaminosa, ma assoluta disperazione del non-riconoscersi. Ove il dubbio dei mai-più risuona nel solco assoluto delle assenze, purificate dal lavacro che deborda, ma nel contempo impaurito alla presenza di un acquitrino, stagno infinito dal quale difficilmente l'anima sarà capace di riprendere il viaggio.

Ancora il destino allucinato e trasposto cerca il poeta, nel momentostesso in cui il poeta va incontro al destino, quando il pensiero sembra schematizzare la realizzazione degli incubi e delle tristi previsioni, o quando la pagina si colora di sanguinose testimonianze oniriche, per spingere la vicenda verso la elaborazione mitica. Il richiamo della morte diventa imperioso, quasi da offrire un punto di riferimento materializzantesi nel ricordo della madre, morta violentemente in un giorno imprecisato.

“Cotto come oro, un tacere

fra carbonizzate

mani.

Figura di sorella

grande, grigia, prossima

come tutto ciò ch'è perduto:

Tutti i nomi, tutti quelli

che insieme

arsero. Quanta

cenere da benedire. Quanta

terra conquistata

al di sopra

di leggeri

anelli d'anima,

così leggeri.

Grande. Grigia. Senza

scorie.

Tu, a quel tempo,

Tu, con il pallido germoglio

intaccato dai denti.

Tu, nel vino a fiotti.

(Non è vero, anche noi

dimise quell'orologio?

Bene, come la tua parola

qui trascorse nella notte. Bene)

Cotto come oro. Un tacere

fra carbonizzate, carbonizzate

mani.

Dita, esili siccome fumo. Come corone,

corone d'aria attorno –

Grande. Grigia. Senza

tracce.

Regale.”(5)

Celan scrive i suoi versi come se il potere onirico avvolgesse le pagine in un cerchio che lo costringa ad accorciare i tempi, quel tempo che prima o poi ci avvicina alla fine della esistenza terrena, e contro il quale o dentro il quale noi scaviamo nei meandri dell'ordine simbolico, nel tentativo, quasi sempre impossibile, di liberarci dell'atto finale. Anche se la storia è perduta, andata in frantumi, spesso le sfaccettature attraverso le quali la poesia scintilla viva ed imperiosa, cercando di adeguarsi alle dimensioni impersonali della materia ed all'essenza casuale ed imperiosa del corpo, diventano la forza necessaria per districarsi dalla solitudine e dalla distimia, così da rompere la fiaba contro l'improvvida sensazione che qualcuno prema, d'un tratto, il ferro arroventato sulla pelle, penetrando sino alle midolla, ricercando quella risposta che nessuna indagine scientifica riesce a trovare.

Il corpo del poeta fu ritrovato, da un anonimo pescatore, incagliato in una chiusa della Senna, una decina di chilometri a valle del ponte Mirabeau di Parigi, nel maggio del 1970.


Note:

(1)da pretesto in "Antonio Spagnuolo: Dietro il restauro - ed. Ripostes - 1993
(2)in Paul Celan: Poesie - ed. Mondadori 1998 - pagg. 1480 - L. 85.00O - pag. 931
(3)ivi - pag. 925
(4)ivi - pag. 393
Indice generale

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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Emilio Piccolo e/o Antonio Spagnuolo