Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Che fine hanno fatto Teresa Fattorini 
e Maria Belardinelli?
di Corrado Ruggiero
 

 

Dove sono finite le Ninfe? Sono, completamente e definitivamente, morte?
O, semplicemente, ci hanno lasciato e se ne sono andate via? E, se sono
solo andate via, dove potrebbero essere andate? Dove potrebbero essersi
rifugiate? E se, poi, fossero né morte né andate in qualche sconosciuto
ultramondo ma continuassero a vivere in mezzo a noi ma mimetizzate in
modo da essere irriconoscibili secondo l'anagrafe tradizionale? Una bella
compagnia di domande che impegnano, in prima persona, la poesia.
E non solo la poesia: se è vero che la poesia è la vita stessa dei nostri
fantasmi quotidiani, libera le nostre forze interiori, ci consente di dissentire
-secondo alcuni- dalla realta quotidiana o di sopportarla, secondo altri.
Realtà che è (o dovrebbe essere) grigia per definizione di fronte allo
splendore colorato dei sogni.
Delle Ninfe, con nome e cognome: direi, Giacomo Leopardi stese con
molta pietà e autocompassione l'atto di morte. Con nome e cognome
perché quando Silvia è chiamata Silvia e Nerina è chiamata Nerina,
allora dubbi non ce ne possono essere. Sono proprio le nostre Ninfe:
quelle che hanno imposto ai poeti fiumi di inchiostro e ne hanno arricchito
il fiume dei sogni. Sogni fatti di inchiostro. Non donne reali trasferite,
con la sublimazione della poesia, nel sogno ma direttamente entità
fantastiche che, tuttavia, una volta sono vissute di una vita di carne
e sangue. Creature che vengono dalla capacità della mente di elaborare
fantasmi più veri della verità, appunto. Di vivere di fantasmi ovvero
di trasferire in fantasmi -la più semplice e immediata operazione linguistica
dell'uomo- il mondo che ci circonda: operazione che la mente fa comunemente.
Non è la Teresa Fattorini, <figlia del cocchiere di casa Leopardi>, a diventare Silvia;
né è la Maria Belardinelli, l'altra giovane recanatese presa a pretesto,
a sublimarsi in Nerina. Al contrario, sono Silvia e Nerina -figure della tradizione
poetica e figure dei sogni degli uomini e di Leopardi- che passano attraverso
la Teresa Fattorini e la Maria Belardinelli e le riscattano. Diventano, in Silvia
e Nerina, altro da quello che sono. I sogni vengono prima della realtà?
Forse, in ogni caso, la fanno!
Se le cose, poetiche, stanno così riportiamo tutto a capo e chiediamoci
perché Giacomo Leopardi ha <voluto> che Silvia e Nerina morissero. Il poeta
di fronte alle sue figure è un dio: può decidere per loro il destino che vuole.
Perché, dunque, Leopardi ha <deciso> un destino di morte per la Silvia del
canto che si intitola proprio dal suo nome e per la Nerina evocata/invocata
ne Le ricordanze? Sarebbe facile rispondere, come di solito si risponde nei
nostri licei (ma, lì, la poesia sta molto male di casa perché sembrano fatte,
le nostre scuole, piuttosto per la chiacchiera sulla poesia che per la poesia),
con il valore simbolico delle due figure: i sogni dell'amore e della giovinezza
che svaniscono quando appare -completamente/definitivamente- la verità
della vita. All'apparir del vero/tu misera cadesti: e non se ne parli più.
Ancor più semplice la risposta se si convocano la Teresa Fattorini, "figlia
del cocchiere di casa Leopardi", e la Maria Belardinelli, l'altra recanatese
morta prematuramente. Leopardi avrebbe preso ispirazione -ce lo dice ogni
diligente manuale scolastico- da questi due eventi per costruire, su quelle
giovanette defunte, i suoi miti. I sogni della giovinezza (e l'amore in modo
particolare! Ma non solo: si pensi al progressivo deperire del corpo e dell'anima!)
che avvizziscono quando si fa avanti la ragione con la sua verità. È, tutto,
talmente vero o talmente banale che l'espressione "Silvia ovvero Teresa
Fattorini figlia del cocchiere di casa Leopardi" è passata nel catalogo dei
luoghi comuni che si ripetono per automatismo linguistico. Vero ma, forse,
non completamente esatto. Vero ma che, forse, si può arricchire d'un'altra
verità, ancora.
Silvia e Nerina erano nomi carissimi a Torquato Tasso. Nomi giunti a Tasso
attraverso una tradizione secolare e passati, attraverso Tasso appunto,
nella lirica arcadica: tra fine Seicento e larghissima parte del Settecento.
Una poesia che, è noto, cantava di ninfe e pastori sullo sfondo di paesaggi
agresti. Fonti, fiumi, fronde, prati, greggi e pastori. La favola di una natura
e del vivere, in quella natura, in semplicità e innocenza: una natura e una
vita dove era lecito tutto ciò che piaceva: s'ei piace, ei lice. Così aveva scritto,
una volta per sempre, Torquato Tasso. Era la favola che ci portiamo nel cuore.
La favola che ci cantiamo e ricantiamo ogni giorno: per contrastare o per
aiutarci a sopportare la vita di ogni giorno. Non la giovinezza e l'amore ma
la favola della giovinezza e dell'amore. Non la natura ma la favola della natura.
A un certo punto però, interviene la ragione (l'apparir del vero) e spazza via
le favole (tu, misera, cadesti). Le favole sono sostituite dall'allargarsi del
regno della ragione e, con essa, della tecnica. L'<età della tecnica> non
prevede le favole delle Ninfe. Altre favole, magari, con altri alfabeti e altre
grammatiche, certo: ma non più quelle delle Ninfe. Le Ninfe devono andar
via per far posto a meno piacevoli presenze. Forse altre "ninfe"? La natura
perde l'aura illusoria che la circonda, si degrada fino a ridursi a quello che è
veramente. Il suo verde si riassume in un'aiuola, un'aiuola che -in più-
è campo d'esercizio per la naturale ferocia degli umani. Non c'è più posto
per le Ninfe.
La poesia stessa cambia pelle e veste. Non si può scrivere poesia come
se le favole di un tempo fossero ancora vive e vegete: ora, una sera
d'inverno, che le favole sono tramontate sul greto di uno spento canale
che scorre dietro il gasometro:

While I was fishing in the dull canal
On a winter evening round behind the gashouse

 Dalla poesia d'immaginazione e fantastica si passa alla poesia sentimentale:
"La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo
secolo, come la vera e semplice […] poesia immaginativa fu unicamente ed
esclusivamente propria de' secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni.
Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria de' nostri
tempi, e non farsi meraviglia, s'ella ora langue come vediamo, e se è così
raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia. Giacché il sentimentale
è fondato e sgorga dalla filosofia, dall'esperienza, dalla cognizione dell'uomo
e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della
poesia l'essere ispirata dal falso. E considerando la poesia in quel senso nel
quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia,
ma piuttosto una filosofia, un'eloquenza, se non quanto è più splendida, più
ornata della filosofia ed eloquenza della prosa. Può anche essere più sublime
e più bella, ma non per altro mezzo che d'illusioni, alle quali non è dubbio che
anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello
che facciano gli stranieri."

Torniamo indietro e chiediamoci, ancora una volta, se Silvia e Nerina erano
veramente e definitivamente morte. In verità, no. Erano solo partite. Erano
andate via e, con loro, i pastori, le sampogne, le greggi, le fonti, i fiumi, le
foreste, le fronde: The nymphs are departed […] left no addresses .
Per ritrovarne l'indirizzo bisogna seguire le tracce dei loro antichi compagni.
Non potevano essere morte. Lo sapeva benissimo lo stesso Leopardi:
perché "le illusioni per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione,
tuttavia restano ancora nel mondo e compongono la massima parte della
nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorché sapute vane.
E perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice
vigorosissima, e, continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta
l'esperienza e certezza acquistata" . La contraddizione è nel cuore stesso
dell'uomo e della sua ragione: pur conoscendo la vanità del tutto, egli la ricerca
-questa vanità- ma, nel ricercarla nell'unione di filosofia e di poesia (una filosofia
che si fa poesia o una poesia che si fa filosofia), l'opera del genio dà all'esistenza
e alla vita "il loro estremo vigore". "Questo significa che <la natura è…
smisuratamente più forte della ragione>: prevale sulla ragione nell'atto stesso
in cui la ragione crede di portarsi al di fuori di essa, smascherando e vanificando
le illusioni che dalla natura necessariamente scaturiscono e nelle quali essa
consiste. La natura che è <smisuratamente più forte> della ragione, è la
<natura assoluta>, la volontà di esistere, che per non essere negazione di
se stessa -per non essere <contraddizione formale>-, evita la verità e produce
le illusioni, nelle quali soltanto può consistere la felicità."
Il problema è -allora- dove cercarle, le ninfe, se sono ancora in giro. E non
è un grosso problema. Anzi è (o era: anche ai tempi di Leopardi, voglio dire)
un problema già risolto. Lo aveva implicitamente già risolto Giovan Battista Vico.
Le Ninfe non hanno abbandonato le selve. Sono le selve ad avere, piuttosto,
cambiato fisionomia: nella <barbarie terza> "[…] gli uomini dovevan menare
la vita nelle selve o nelle città come selve."  Le N/ninfe e i loro compagni,
semidei e pastori di un tempo, vivono -mimetizzati- nelle selve delle città moderne.

The river's tent is broken: the last fingers of leaf
Clutch and sink into the wet bank. The wind
Crosses the brown land, unheard. The nymphs are departed.
Sweet Thames, run softly, till I end my song.
The river bears no empty bottles, sandwich papers,
Silk handkerchiefs, cardboard boxes, cigarette ends
Or other testimony of summer nights. The nimphs are departed.
And their friends, the loitering heirs of city directors,
Departed, have left no addresses.

Londra. Le rive del Tamigi al cader dell'estate. Le ninfe e i loro amici sono rientrati
nella selva urbana. La natura, con i primi freddi, è diventata inospitale: la natura
un tempo ricovero e sfondo amorevole per il poeta e i suoi sogni in versi ("Sweet
Thames, run softly, till I end my song : Dolce Tamigi, scorri lieve, finché non finisca
il mio canto"). Inospitalità che fa da controcanto alla volgarità degli ospiti estivi
che hanno disseminato le tracce del loro passaggio (le testimonianze delle notti
estive) lungo le rive del fiume: fazzoletti di seta, scatole di cartone, cicche di
sigarette o altre testimonianze di notti estive. Non a caso Eliot prende in prestito
da Edmund Spenser l'invocazione al "dolce Tamigi" –l'immagine di un Tamigi
mitico/pastorale- a costituire conforti di fronte agli squallidi scenarî delle mitologie
moderne. Le ninfe sono andate via come figure del mito e come figure dell'epopea
contemporanea. Silvia e Nerina hanno lasciato le fonti e le fronde. Si sono rifugiate
nel labirinto delle città. Sono diventate impiegatucce in squallidi uffici. Il sogno,
riscritto in grigio e nero, ha perduto ogni fascino. Una consapevolezza finissima
e addolorata, questa di Eliot, pronta a cogliere la discesa verso gli inferi delle
Silvie e delle Nerine di un tempo. Perché per ritrovare il sentiero del loro percorso
in discesa e costruire il mito della loro degradata trasfigurazione bisogna fermarsi
in quella stazione -la poesia di Eliot, appunto- in cui la capacità mitopoietica e
non stancamente letteraria della poesia riprende vigore. La cui poesia è strumento
per la costruzione di altri miti al posto di quelli che non parlano più al nostro cuore:
tanto per usare il vocabolario dello stesso Leopardi.

Con l'autunno gli alberi si spogliano, le rive del Tamigi perdono i loro colori e
i gitanti occasionali rientrano nella città: The nimphs are departed e, con loro
(All Lovely Daughters of the Flood), their friends, the loitering heirs of city directors.
Quella parvenza di temp de la nature che sembra sopravvivere attraverso i riti
del moderno <tempo libero>, che trova la sua climax nel rito/mito del week-end,
ri-cede il posto al temp de la société con il suono fesso e falso dei suoi orologi
(With a dead sound on the final stroke of nine : con un suono morto all'ultimo
tocco delle nove), il tempo della <selva urbana> . Li abbiamo già trovati ,

   Unreal City,
Under, the brown fog of a winter dawn,
A crowd flowed over London Bridge, so many,
I had not thought death had undone so many.
Sighs, short and infrequent, were exhaled,
And each man fixed his eyes before his feet.
Flowed up the hill and down King William Street,
To where Saint Mary Woolnoth kept the hours
With a dead sound on the final stroke of nine. ,

e li ritroviamo, dopo la parentesi agreste, con tocco di arcadico controcanto
che rimbalza dal verso di Edmund Spenser incastonato nel devastato
paesaggio fluviale:

Sweet Thames, run softly, till I end my song

ancora a Londra, <i loro amici>, <gli sfaccendati eredi di direttori della City>,
a partire dall'inquietante Priapo.

   Unreal City
Under the brown fog of a winter noon
Mr. Eugenides, the Smyrna merchant
Unshaven, with a pocket full of currants
C.i.f. London: documents at sight,
Asked me in demotic French
To luncheon at the Cannon Street Hotel
Followed by a weekend at the Metropole.
At the violet hour, when the eyes and back
Turn upward from the desk, when the human engine waits
Like a taxi throbbing waiting

E ritroviamo nel buio degli uffici, nel ventre della selva urbana, la nostra
ninfa mimetizzata da stenodattilo, typist:

At the violet hour, the evening hour that strives
Homeward, and brings the sailor home from sea,
The typist home at teatime, clears her breakfast, lights
Her stove, and lays out food in tins.
Out the window perilously spread
Her drying combinations touched by the sun's last rays,
On the divan are piled (at night her bed)
Stockings, slippers, camisoles, and stays.

insidiata e preda di un <moderno> satiro:

[…] the expected guest.
He, the young man carbuncular, arrives,
A small house agent's clerk, with one bold stare,
One of the low on whom assurance sits
As a silk hat on a Bradford millionaire.
The time is now propitious, as he guesses,
The meal is ended, she is bored and tired,
Endeavours to engage her in caresses
Which still are unreproved, if undesired.
Flushed and decided, he assaults at once;
Exploring hands encounter no defence;
His vanity requires no response,
And makes a welcome of indifference.
[…]
Bestows one final patronising kiss,
And gropes his way, finding the stairs unlit…

She turns and looks a moment in the glass,
Hardly aware of her departed lover;
Her brain allows one half-formed thought to pass:
"Well now that's done: and I'm glad it's over".
When lovely woman stoops to folly and
Paces about her room again, alone,
She smooths her hair with automatic hand,
And puts a record on the gramophone.

L'eros -il gioco dell'attrazione e della fuga, dell'accoppiamento e dell'abbandono
pensoso dopo l'amore (il biblico, post coitum omne animal est triste! )- si è
degradato a <combinazioni> poste ad asciugare agli ultimi raggi del sole mentre
sul divano (di notte è il suo letto) sono ammucchiate calze, pantofole, camiciole
e corsetti (stockings, slippers, camisoles, and stays). Il satiro incalzante è un
<giovanotto foruncoloso>, <impiegato d'una piccola agenzia di locazione>,
<uno del popolo a cui la sicumera si addice come il cilindro a un cafone arricchito>
e che, dell'antico e audace semidio, conserva lo <sguardo baldanzoso>
(with one bold stare) per conquistarla. L'antico giaciglio di fronde è ora il divano
(di notte il suo letto). La malinconia dopo l'accoppiamento, un rapido sguardo
nello specchio, un pensiero half-formed che attraversa il cervello (è sorella, la
gemella di Molly nella Dublino di Leopold Bloom?), l'amore un'incombenza
("Well now that's done: and I'm glad it's over : Be', ora è fatta, ho piacere che
è fatta") subita come un triste dovere da compiere, un automatico ravviarsi
dei capelli, un avviare un disco sul grammofono.
Nel disordine urbano, le cose perdono la loro identità e si ammucchiano in un
disordine dove l'epico e il quotidiano, il volgare e l'aulico, il raffinato e il demotico
stanno accanto accanto sullo sfondo di un generale squallore. La storia coincide
con l'antropologia e la coscienza scende agli indefiniti margini profondi dell'inconscio.
La ragione, con la sua <età della tecnica>, si capovolge in disordine e fallimento.
La Storia, in catalogo assurdo. Riusciremo –ognuno di noi- a mettere in ordine
le nostre terre: Shall I at least set my lands in order?

La Londra di Eliot conserva, comunque, una sua epica. I <frammen-ti> con cui
Eliot puntella le sue rovine sono frammenti che giungono ad esiti <alti> anche
quando recupera materiali bassi e bassissimi: proprio per la carica di drammaticità
da cui è investito il loro incondito accostamento e il senso di finis historiae che
comporta. Scampoli di fine stagione: con tutta la malinconia e il dramma che
il finire d'una stagione comporta. Lo stesso <ultimo tocco delle nove>, su cui
la campana di Saint Mary Woolnoth dà un suono morto, rivive con scatto mitico
la tragica <ora nona> della morte di Cristo.

La Milano di Carla Dondi fu Ambrogio si muove nel grigiore urbano setacciato
attraverso la trama del neo-realismo elegiaco de Il posto di Ermanno Olmi: un
grigiore da cui si esclude del tutto ogni residua nota mitica (sopravvive solo un
residuo di stile epico nella prospettiva del narratore "omerico" che racconta,
a nome di tutti, i fatti) e la stessa nota drammatica che, a tratti, sopravvive
si stempera nel contesto piccolo-borghese delle situazioni. Non scatti mitici
o note drammatiche:

Flowed up and down King William Street,
To where Saint Mary Woolnoth kept the hours
With a dead sound on the final stroke of nine.

 Lo squallore quotidiano si conclude in se stesso, nella sua rappresentazione.
Ovvero abbiamo il passaggio -tra Eliot e Pagliarani- da un binario stilistico a
carattere metaforico a uno a carattere metonimico, il passaggio dal riferimento
verticale al riferimento orizzontale, dal richiamo simbolico e mitico al richiamo
contiguo: per cui, se -come notava Roman Jakobson- lo sviluppo discorsivo può
snodarsi lungo due linee sematiche diverse a seconda che segua un processo
metaforico, ossia per similarità, o un processo metonimico, ossia per contiguità
(e, dunque, il processo metaforico avrà prevalenza nelle creazioni poetiche a
tendenza romantica e simbolista, mentre quello metonimico avrà prevalenza
nelle correnti letterarie realiste con la poesia, tendenzialmente, metaforica e

la prosa, tendenzialmente, metonimica) il discendere -in Pagliarani e altri
dell'Avanguardia 63- verso il metonimico è il segnale di direzione di una poesia
che vuole essere prosa.

All'ombra del Duomo, di un fianco del Duomo
i segni colorati dei semafori le polveri idriz elettriche
mobili sulle facciate del vecchio casermone d'angolo
fra l'infelice corso Vittorio Emanuele e Camposanto,
Santa Radegonda, Odeon bar cinema e teatro
un casermone sinistrato che sarà la Rinascente

La ninfa Carla Dondi non ha più memoria della lontananza da cui proviene e coglie
dolorosamente solo la superficie della miseria in cui è caduta:

S'è lavata nel bagno e poi nel letto
s'è accarezzata tutta quella sera.
Non le mancava niente, c'era tutta
come la sera prima - pure con le mani e la bocca
si cerca si tocca si strofina, ha una voglia
di piangere di compatirsi

senza comprendere l'abisso in cui lentamente stava scivolando.

Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciasette primo impiego stenodattilo
all'ombra del Duomo

    Sollecitudine amore, amore ci vuole al lavoro
    sia svelta, sorrida e impari le lingue
    le lingue qui dentro le lingue oggigiorno
    capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED
    qui tutto il mondo…
                         è certo che sarà orgogliosa.

Signorina, noi siamo abbonati
alle Pulizie Generali, due volte
la settimana, ma il signor Praték è molto
esigente -amore al lavoro è amore all'ambiente- così
nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino
sarà sua prima cura la mattina.

UFFICIO A  UFFICIO B  UFFICIO C.

Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno
                  adesso che lavori ne hai diritto molto di più
S'è lavata nel bagno e poi nel letto
s'è accarezzata tutta quella sera.
Non le mancava niente, c'era tutta
come la sera prima - pure con le mani e la bocca
si cerca si tocca si strofina, ha una voglia
di piangere di compatirsi
                          ma senza fantasia
come può immaginare di commuoversi?
Tira il collo all'indietro ed ecco tutto.

Gli stessi "satiri" che la insidiano o potrebbero insidiarla non hanno alcuna
grandezza, anche laida (come quella di Mr. Eugenides) o stravagante (come
quella del giovane pustoloso impiegato di una piccola agenzia di locazione),
ma la timida aggressività dello studente povero al primo approccio amoroso,
l'impacciata arroganza del collega d'ufficio o esibiscono la prosa impolverata
e cantilenante del <catechista>:

Sollecitudine amore, amore ci vuole al lavoro
    sia svelta, sorrida e impari le lingue
    le lingue qui dentro le lingue oggigiorno
    capisce dove si trova?

un <decalogo> che scade immediatamente nella miseria sostanziale di un
miracolo economico fragile e provinciale. Più di facciata che sostanziale:

Signorina, noi siamo abbonati
alle Pulizie Generali, due volte
la settimana, ma il signor Praték è molto
esigente -amore al lavoro è amore all'ambiente- così
nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino
sarà sua prima cura la mattina.

UFFICIO A  UFFICIO B  UFFICIO C.

Un registro perfettamente omologo, nella rassegnata povertà lessicale e
morale, alla soluzione esistenziale e morale che le propone la madre,
quando ritorna a casa dal primo giorno di lavoro:

Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno
                  adesso che lavori ne hai diritto molto di più

Carla Dondi si lava nel bagno, si tocca: quasi per ri-trovarsi, per vedere se è
ancora quella che era quando è uscita al mattino per il suo primo giorno di
lavoro. Vorrebbe piangere ma le manca la percezione della drammaticità
della sua condizione di ninfa decaduta:

ma senza fantasia
come può immaginare di commuoversi?
Tira il collo all'indietro ed ecco tutto.

E, anche quando incoccia nel suo Mr. Eugenides, la sua reazione non è più
quella annoiata e stanca di chi -comunque- pre/sente il tuono lontano del dramma:

She turns and looks a moment in the glass,
Hardly aware of her departed lover;
Her brain allows one half-formed thought to pass:
"Well now that's ddone: and I'm glad it's over".
When lovely woman stoops to folly and
Paces about her room again, alone,
She smooths her hair with automatic hand,
And puts a record on the gramophone

ma quella intimidita dei poveri che cercano, innanzitutto, di non perdere
il posto di lavoro:

       A Praték gli vanno bene anche le donne
e Lidia che era furba lo sapeva
e l'ha passato mica male, il tempo, sullo sgabello della macchina
con le sue cosce grasse
       Ma la moglie coi soldi che è gelosa
vigila sulla serenità delle fanciulle
[…]
[…] Ho paura, mamma Dondi ho paura
c'è un ragno, ho schifo mi fa schifo alla gola
io non ci vado più.
Nell'ufficio B non c'era nessuno
mi guardava con gli occhi acquosi
se tu vedessi come gli fa la vena
ha una vena che si muove sul collo
Signorina signorina mi dice
mamma io non ci poso più stare
è venuto vicino che sentivo
sudare, ha una mano
coperta di peli di sopra
io non ci vado più.
Schifo, ho schifo come se avessi
preso la scossa
                ma sono svelta a scappare
io non ci vado più.
[…]
La vedova signora Dondi
forse si sarà spaventata
ma non ha dato tempo a sua figlia
Non ti ha nemmeno toccata
gli chiederemo scusa
fin che non ne trovi un altro
tu non lascerai l'impiego
bisogna mandare dei fiori
alla signora Praték.

[…]

Domenica con un fascio di fiori
[…]
con un fascio di fiori più pesante
di una sporta di pane e di patate
in visita ai signori Praték.

Ma madama è squisita, dice belli
ai fiori, bravi ai ragazzi, dice che sciocchezze
dice che Aldo è un giovane per bene
che sono proprio divertente

forse dice tra i denti almeno questo
le facesse la guardia l'impiegato.

Autour des neiges, qu'est ce qu'il y a?
Colorati licheni, smisurate
impronte, ombre liocorni
laghi cilestri, nuvole bendate,
risa dell'eco a innumeri convalli
la vita esala fiorissce la morte
solitudine imperio libertà.

Il contro-canto elegiaco di Carla segna il residuo stimolo a riemergere
dell'antica vita ninfale. Ma il ritorno della vita antica fallisce. L'elegia trascorre
in un impasto parodico. Non ci sono altre selve. La selva è questa. A Carla non
rimane che integrarsi. Mettere il rossetto, infilare calze di nylon, dire ai colleghi
a testa alta <buongiorno> con l'aggiunta <a tutti>, quando al mattino ci si
incontra in piazza prima di andarsi a chiudere nel buio del'ufficio.

Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
è diamante sul vetro, svolgimento
concreto d'uomo in storia che resiste
solo vivo scarnendosi al suo tempo
quando ristagna il ritmo e quando investe
lo stesso corpo umano a mutamento.

Ma non basta comprendere per dare
empito al volto e farsene diritto:
non c'è risoluzione nel conflitto
storia esistenza fuori dell'amare
altri, anche se amore importi amare
lacrime, se precipiti in errore
o bruci in folle o guasti nel convitto la vivanda, o sradichi dal fitto
pietà di noi e orgoglio con dolore.

Non c'è riscatto: in alcun senso e per alcuno di noi. Un coro-poltiglia di commenti
chiude il poemetto. "La situazione umana è lasciata aperta al proprio consumo" .

Che fine ha fatto Carla Dondi fu Ambrogio, di anni diciasette, stenodattilo?
Scomparirà "la ragazza Carla", e –per ora- l'abbiamo già persa di vista i questi
ultimissimi tumultuosi decenni. Ricomparirà, comunque, un giorno altrove e
–si presume, se il destino di Silvia e Nerina ci dice ancora qualcosa- sotto altra
veste. Come Silvia e Nerina ricomparirà perché "[…] <la natura è […] smisuratamente
più forte della ragione>: prevale sulla ragione nell'atto stesso in cui la ragione crede
di portarsi al di fuori di essa, smascherando e vanificando le illusioni che dalla natura
necessariamente scaturiscono e nelle quali essa consiste. La natura che è
<smisuratamente più forte> della ragione, è la <natura assoluta>, la volontà
di esistere, che per non essere negazione di se stessa -per non essere
<contraddizione formale>-, evita la verità e produce le illusioni,
nelle quali soltanto può consistere la felicità."


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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