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in Alias, supplemento del Manifesto, dicembre 1999. Ho conosciuto Giovanna
Frene al Tartan’s Pub di Padova: un posto dove si può trovare
un panino buonissimo – con un perfetto rapporto qualità/prezzo –
tra l’una e le due di notte. Allora tenevo dei corsi a Treviso, il martedì,
tornavo da Treviso all’una di notte, morivo di fame e non avevo voglia
di farmi da mangiare. Ergo, andavo al Tartan. Per fatti suoi, Giovanna
Frene passava talvolta di là, il martedì, verso l’una di
notte. La Sandra Bortolazzo (altra nottambula) me la presentò, e
vualà. Questo avveniva due o tre anni fa. Ora Giovanna ha fatto
un libro di poesie che si intitola Immagine di voce (Antonio Facchin Editore,
Roma). A me è piaciuto molto. Non mi faccio scrupoli a recensire
il libro di poesie di un’amica perché, si sa, in Italia la circolazione
della poesia è ultrasotterranea. L’ottanta per cento dei libri di
poesia che ci sono, puoi averli soltanto se chi li ha fatti te li regala
(o te li vende, che sarebbe più giusto). Poi quella con Giovanna
è un’amicizia tutta interna alla scrittura (non è una diminuzione:
è una specificazione) e quindi la cosa è meno inopportuna. Parecchie di queste poesie,
non le capisco tanto. Però sono sicuro che sono belle. Voglio dire,
che percepire la bellezza di una cosa e capire una cosa sono, almeno per
il mio cervello, due faccende ben distinte. Ce n’è alcune, ad esempio,
che parlano di persone morte: di corpi di persone morte (familiari, parenti).
Una s’intitola Descrizione, e racconta ciò che si fa a un morto
per prepararlo al suo futuro destino. “Gli pongono le mani attorno al sesso
a ogiva/per prima cosa mentre è ancora seminudo./Ha gli occhi spalancati
e non prova vergogna./(…)/Per seconda cosa mentre è ancora disteso/gli
puliscono il corpo con una spugna morbida/sostenendo chi la schiena chi
le braccia perché non si affatichi./(…)/Per terza cosa volevo dire/
ora che sono vestito che non riesco a parlare/con
questa benda attorno alla testa e non posso/vedere con le palpebre così
abbassate/(…)”. Leggendo questo mi sono venute in mente molte cose: a.
che non è facile guardare in questo modo un corpo morto, specie
se è il corpo di una persona amata o di un familiare, cioè
di una persona con la quale si condivide proprio il corpo; b. che ancora
e ancora, eternamente, una delle cose che la poesia fa è mettersi
davanti ai tabù, e affrontarli coi suoi mezzi specifici; c. che
questa voce che qui parla somiglia alla voce di Antonio Porta: al modo
che aveva Antonio Porta di dire cose, cose e cose (io devo moltissimo ad
Antonio Porta: i suoi libri mi hanno cambiato la vita). Ma Giovanna possiede molte
voci. La prima cosa che si nota, sfogliando il libro, è che c’è
una varietà di soluzioni visive. Testi dispersi nella pagina e testi
compressissimi, vuoti e pieni, versi lunghi e versi corti, interlinea variabili
e così via. Questo dà un po’ un’impressione di caos. D’altra
parte, se crediamo al titolo, queste parole non sono solo voce ma anche
immagine, così che ha senso guardare le pagine ancora prima di mettersi
a leggerle. Ma poiché citare un’impaginazione è difficile,
continuo a citare dei versi. “Dentro, esiste un momento in cui della morte/non
si ha sentore. È appena al principio: prima assenza/del dolore.
Poi, senza transizione,/l’immortalità si sfascia su se stessa/comprime
la carne, l’addossa alla parola/si cerca la sola cosa che non esiste/si
attende senza amore che finisca questa lunga/apparenza (…)”. Sono rimasto
esterrefatto, leggendo “l’immortalità si sfasci su se stessa”. Lo
so che non bisognerebbe innamorarsi dei singoli versi o delle singole immagini
(ma è un’immagine, questa? O è qualcosa più intellettuale?),
ma non si può passare oltre. Provate a guardare, vi prego, questa
immortalità che si sfascia su se stessa, comprime la carne. (Fate
una verifica: pensate: la mia immortalità, comprime la mia carne). Una cosa notevole di queste
poesie è che somiglino a Giovanna. Io le leggo, le guardo, e mi
sembra di sentire e vedere lei: la sua voce, i suoi movimenti della testa
e delle mani, la postura particolare della sua testa – una certa rigidità
–, il suo modo di girare le frasi nella conversazione, di fare la punteggiatura
con interiezioni o con le dita. C’è una cosa che quando succede
è miracolosa: quando una persona riesce a produrre un oggetto perfettamente
letterario che, nel contempo, sembra un brano di conversazione, una sbobinatura.
A Giovanna questo succede, ogni tanto, con più o meno forza, non
sempre, ma accidenti!, lei è una di quelle persone alle quali questa
cosa ogni tanto succede, e questo non è uno scherzo. Queste persone
vanno sorvegliate, mi pare. 10 gennaio
2001
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