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dal volume “La poesia italiana verso il nuovo millennio” edizione L’assedio della poesia – 2001 Antonio
Spagnuolo appartiene a quella folta schiera di poeti-medici che hanno arricchito
di non poche novità il panorama della letteratura italiana e straniera
del nostro secolo.
L’arricchimento
non è stato soltanto di carattere linguistico, ma anche umano,
e sin dall’esordio la sua poesia si è mossa in un crogiuolo di situazioni
tra loro contrastanti.
Giovanni
Raboni, scrivendo la prefazione al volume “Graffito controluce”, del 1980,
coglie pienamente le lacerazioni che vivono alla base di un mondo poetico
i cui fermenti vanno in crescendo e dalla “poetica della parola” trasmigrano
nel “difficile equilibrio tra i due estremi del simbolismo e dell’ermetismo
, anzi tra le due serie di estremi, garantendone oltre e al di là
della compattezza formale, l’unità di senso- come oggetto segreto
e profondo, come metafora delle metafore”.
Quello che Mario Pomilio ha chiamato”linguaggio
bianco” non è una resa della parola, ma il coagularsi di un sentimento
che non trova soluzione e si abbandona alla deriva del non essere. E se
la parola non è, pur visibile nel significante, vuol dire che una
crisi l’attanaglia e la rende serva del disfacimento. Eppure non è
il niente a imperare e a dettare legge: Spagnuolo ha dinanzi a sé
la sensazione precisa della morte delle sillabe e sa, però, che
dalle ceneri rinasce il nuovo senso. Bisogna tagliare la testa al mondo,
come ci mostra nel suo meraviglioso libro Canetti, se vogliamo ritrovare
la vita nelle sue pulsazioni, se vogliamo togliere muffa e inerzia
dai segni che fanno la scrittura. Così, e lo ha detto molto bene
Corrado Ruggiero, Spagnuolo va “verso altro luogo” a cercare le nuove dinamiche
dei significati, i nuovi sensi del divenire, perché “Le stanze rinviano
a uno scavo, a un procedere verticale(scendendo da una parte e insieme,
su altro versante salendo)”: Reciti sostanze
Calèmano fuggiamo argille:
Dietro
ogni poesia di Spagnuolo c’è un dramma. Egli vive la realtà
con la curiosità avida di chi vuole squarciarne i segreti, lacerarne
i veli e, nello stesso tempo, con la consapevolezza dell’impossibilità
a poter andare oltre l’apparenza. No,
non è il gioco pirandelliano che lo affascina, quanto lo scontro
tra umano e divino che, negli anni più recenti, troverà approdi
di poesia alti sul fronte della spiritualità, come vedremo con le
venticinque poesie intorno alla Croce. In
“Candida” la crescita, rispetto ai libri precedenti, è evidente:
scatti lirici meglio risolti, maggiore amalgama del linguaggio scientifico
adoperato con il linguaggio di sempre, temi trattati fuori da ogni schema
formale. Spagnuolo giunge al libro della maturità e quella sua persistente
idea della poesia impossibile senza la psicoanalisi qui trova una realizzazione
direi convincente. Mario Pomilio sottolinea “il valore prelogico della
poesia di Spagnuolo, la natura d’un linguaggio che non mira in alcun modo
alla sintassi, ovvero, se si preferisce, rimane al polo opposto dei processi
aggreganti che sono tipici della comune espressività, e invece è
come se perseguisse la scommessa di misurarsi con quanto c’è di
albicante, di preconscio, di aggregato, di informale nella nostra esperienza
mentale. A servirci d’un paradosso, diremmo quasi che qui la parola interviene
a manifestare ciò che sta anteriormente alla parola, il pensato
allo stato ancora amorfo, i materiali prima che si coordinino, i reagenti
insomma della nostra esperienza intima sorpresi allo stato prenatale
e quasi fetale, prima comunque che siano subordinati a quella che per convenienza
chiamiamo la coscienza e invece vagolano ancora al fondo del nostro Es
alla ricerca d’un coagulo”, che non mi sembra riguardi soltanto “Candida”,
ma tutta la produzione poetica di Spagnuolo che, anche quando vaga
per le strade di Parigi, non sa rinunciare alla solitudine, all’angoscia,
allo sguardo disturbato dalle analogie.
Anche
quel che c’è di surreale in Spagnuolo assume una prospettiva insolitamente
reale e drammatica e riesce a darci la sensazione di trovarci costantemente
dentro stanze ermeticamente serrate, senza finestre, senza spiragli, dove
ciò che conta è l’impercettibile sussurro di un insetto,
l’idea del niente a supporto della concretezza che ha voci neutre e sconcertanti.
E’ cero che egli rifiuta “una sintassi vincolante, sul piano del linguaggio
come su quello del senso”, come afferma Asor Rosa, ed è vero che
“si tratta di aggregati linguistici particolarmente sofferti e posti in
uno stato di irreversibilità perenne rispetto alla fluidità
delle ricordanze”, tuttavia non si avverte mai d’essere in balia di approssimazioni,
perché tutto nasce dalla consapevolezza che il disfacimento dell’essere
e della poesia avviene sull’uomo e dentro l’uomo e non in astrazioni linguistiche,
in manuali di grammatica o di retorica.
Ecco,
il dato più certo della poesia di Antonio Spagnuolo è quello
di non disgiungere la parola dalle cose e di amalgamare, sempre, la presenza
fisica dell’essere a quella spirituale.
“Volgendo
le spalle alla manchevolezza presente, l’aspirazione dell’artista si ritrae
sino a raggiungere nel suo inconscio”-sono parole di C.G.Jung- “l’immagine
primordiale che potrà compensare nel modo più efficace l’imperfezione
e la parzialità dello spirito contemporaneo”.
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