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Camillo
Pennati, nato a Milano nel 1931, nella poesia italiana novecentesca ha
sempre seguito un percorso autonomo, defilato dalle correnti e dalle mode,
nettamente in controtendenza, anche se ricco di prove importanti, sugellato
da tre raccolte pubblicate nella collezione di poesia Einaudi e una per
lo Specchio di Mondadori.
Il
primo dato emergente dalla lettura dei suoi testi, della sua opera, è
quello di una ricerca, personalissima, si diceva, ma costellata dalla costante
di una evoluzione verso una rarefazione del discorso; la sua poetica e
il suo stile hanno subito, nel tempo sempre, attraverso un lavoro di approfondimento,
un processo di perfezionamento, pur permanendo in lui la costante
di un fare poesia particolarissimo, che non è caratterizzata da
fasi differenti, da mutamenti nella sostanza, anche se il registro espressivo
è stato sempre in evoluzione verso un tono più alto.
Il
dato che, appunto, si vuole mettere in luce, il fondamento che si ripete
di volta in volta nei suoi testi, è la natura, o meglio il rapporto
del poeta, dell’io lirico, a volte anche idilliaco con il paesaggio esteriore
che lo circonda; del resto questo si evince facilmente da alcuni dei suoi
titoli, Erosagonie (1973), Sotteso blu (1983) L’iridato pasaggio (1985),
Gabbiano e altri versi (1990) e La distanza inseparabile (1998). C’è
un testo in Sotteso blu che esprime chiaramente quanto si diceva e fa trapelare,
negli stessi versi, quella che potrebbe definirsi una dichiarazione di
poetica: leggiamo nella sezione intitolata non a caso La bellezza sensibile,
il
componimento L’identica natura:-“/Mi scorgo in volto l’intero scorrere
del tempo/ traverso gli anni della mia presenza in queste forme/ che vanno
tramutandosi al pari di animali e piante/ là dove è esterna
la parvenza ché appena addentro/ l’identica natura si smarrisce
in un elucubrare/ insano nel raziocinante dove diviene mito/ il vuoto che
ci stacca dalla fonte e ci separa/ una paura che si colma di preziose astrazioni/
in cui la mente salpa il suo terrore con mostruosi, mentre la vita attorno
si ricompie in mutamenti…/. Qui s’incontra, immerso nelfluire
di un tempo non precisato, il simultaneo accadere della condizione umana
nel suo divenire, quella dell’io poetante, con quella degli altri elementi
naturali, le piante e gli animali: non è una crescita o un mutamento
che avviene solo, al di fuori, nell’involucro fisico, ma anche e soprattutto
interiormente: si cerca inoltre quella sintonia, sempre nell’animo di chi
scrive, con quellafonte della
mente nel suo proiettarsi verso la possibilità di un armonia con
il paesaggio, con l’etimo nascosto dell’alterità, non solo umana,
ma anche vegetale e animale, tutto questo per giungere ad un senso più
profondo della vita, pur nel limite irreversibile della sua temporalità.
Lo stesso tema è quello di Erosagonie, testo nel quale si ci augura,
appunto, per il poeta e e per ogni uomo, di raggiungere un essere compiuto,
in questo nostro postmoderno così lacerato, come una freccia che
raggiunga senza sforza il suo bersaglio, superando in ogni modo la cicatrice
del disagio, il senso di solitudine e di inettitudine dei rapporti
umani e con le cose. Quella
di Camillo Pennati è, dunque, una natura, e sottoliniamo che anche
l’uomo è natura, che nel modo più assoluto non è pittura,
ma è una condizione particolarmente avvertita, nei suoi versi luminosi,
che va ben oltre una “poetica dello sguardo”, un lirismo fine a se stesso,
una descrizione tout-court; nel discorso di Pennati, molto spazio viene
lasciato all’intuito dell’uomo che tende a penetrare il senso e
tutte le possibilità di sentirsi creatura,
attraverso però,
anche una cognizione fortemente denotata come psicologica ed espressione
di una filosofia esistenzialistica, per cui,c’è,
da un lato il movimento della natura che il poeta introietta, ma anche
quello del poeta che, dal suo canto, si proietta, molto spesso gioiosamente
negli spazi animati al di fuori di sé, per giungere ad un rapporto
migliore con la vita in tutte le sue manifestazioni, per fare in modo che
sia, / …vita e non esistere nuotando/…
Se già
questi elementi mettono in luce l’originalità della poesia di Pennati,
la stessa sua struttura formale e stilistica, presenta caratteristiche
uniche: il verso è di solito lungo e le composizioni, anche se tutte
generate dallo stesso nucleo ideativo del quale si diceva, comunque mai
ripetitive e scandite sempre in sezioni, architettonicamente funzionali
al significato, nella loro loro stesura sono sempre, o quasi, prive si
segni d’interpunzione, il che dà velocità e musicalità;
il dettato quindi pare fluire in un modo magmatico ma sempre sorvegliato,
in modo che mai si creino ingorghi sintattici o semantici: attraverso illuminazioni
continue, per accumulo, si crea una plastica articolazione, caratterizzata
da un lessico spesso prezioso ma mai arcaicizzante; il ritmo è serrato
e, prendendo in prestito un termine musicale, pare di essere di fronte
all’espressione di una melodia infinita.
L’interpretazione
della poesia di Pennati, mai deve essere meramente, limitatamente, naturalistica,
e la sua matrice più profonda la porta in ogni frase a cercare di
rompere il silenzio espressivo della natura: l’istanza generativa dell’autore,
dunque va sempre ad avvicinarsi verso un punto che l’autore stesso sa che
non potrà essere raggiunto, una distanza inseparabile, dunque,
quella dalla quale prende il titolo la più recente opera del poeta.
Il percorso
di Pennati, di testo in testo va verso la direzione, attraverso un accanimento
verbale, che, nella sua leggerezza presuppone uno sforzo della parola per
dirsi, per esprimere pensieri e concetti: di volta in volta, di libro in
libro attraverso il tempo, nella materia poetica si sottraggono segmenti
narrativi, e lo scarto linguistico diviene sempre più evidente,
nel dipanarsi nel tessuto verbale, di riflessioni filosofiche ed esistenziali,
in una tensione di lucido sogno ad occhi aperti. 14 febbraio
2001
Indice della sezione Indice generale Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |