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Nell’autunno scorso, io e Alberto Toni abbiamo avuto vari incontri. In queste nostre discussioni abbiamo parlato, non senza una certa tenacia, del ruolo della poesia in questi anni di rapida e controversa trasformazione. Le nostre posizioni, devo dire, non coincidevano totalmente; eppure Alberto esprimeva le mie stesse tensioni etiche, i miei stessi tormenti. E queste tensioni si potevano riassumere in una domanda: come può la poesia avere un ruolo per le “masse”, per la maggioranza degli uomini? Perché è indubbio: la poesia, oggi, è un codice comunicativo minoritario, emarginato. E noi sappiamo che è inutile scrivere senza un pubblico, senza un uditorio. Alberto Toni è da sempre sensibile al problema del “pubblico”. E questa è già una solida piattaforma da cui iniziare. Io sostengo da un po’ di tempo, una poesia “bassa” e sociale, una poesia facile, colloquiale, “popolare” addirittura, una poesia, in definitiva, corale (nel senso che mi piace se oltre all’”Io” c’è anche il “Tu”, o magari il “Noi”). Bisogna raccontarlo, il nostro mondo, a costo di fare brutta figura con gli Dei, o con le Muse. Perché solo nel proprio tempo c’è la possibilità della salvezza. Chi conosce la poesia di Alberto Toni, conosce bene la sua raffinatezza, l’eleganza, il verso discreto, timido, in punta di piedi. E’ una poesia molto elaborata, la sua, con ascendenze eterogenee: Penna, Dickinson, Rebora, etc. Ma tutto questo non basta: c’è anche la storia, e infatti uno dei suoi libri ha per titolo “Dogali”. Eppure la sua era (parlo al passato perché questo testo inedito lascia presagire nuovi approdi) una battaglia tutta giocata all’interno del “codice letterario” (la letteratura come sistema a sé, come campo autoreferenziale). Un giorno mi telefona, e mi legge “Teatralità dell’atto”. Io capisco che qualcosa è successo. E mi complimento. Capisco che la questione della poesia è soltanto una questione di proiezione mentale. Mi spiego meglio. Di solito i poeti scrivono per gli altri poeti (il pubblico della poesia fatto di poeti), e allora il codice si fa complicato, per addetti ai lavori. Quando invece si è liberi di scrivere quello che si vuole, in modo semplice, umile, allora la poesia diventa popolare, diventa sociale. Con questa poesia Alberto dimostra che il contratto è cambiato: adesso il secondo contraente è la “massa” (è un discorso di potenzialità, ovvio). Non si abbia paura di scrivere come si fanno le altre cose della vita: mangiare e amare, in primis. Ci guadagnano tutti, innanzitutto la poesia, che adesso rischia di scomparire. Voglio citare alcuni versi: “Ma non è un’abiura dal verso, / piuttosto una trafittura ai miei vent’anni perduti”. Ecco, Toni ha capito, e questo anche grazie a discussioni come quelle che abbiamo fatto noi, che in questi tempi così ricchi e molteplici non si può continuare a “fare la letteratura per la letteratura”. Bisogna uscire, aprire gli occhi, le orecchie, e capire, testimoniare, raccontare. Magari qualcuno dirà che siamo caduti troppo in basso. Io dico che si cade in basso solo quando si vola troppo in alto (scrive Alberto: “a costo di perdere il sublime, il vocativo ormai ebbro”). Faccia un inchino a terra, la poesia, racconti ciò che vede. E non faccia la schizzinosa, perché i giovani di oggi sono “pane al pane”. E non dite che noi giovani siamo imbecilli, non sarebbe originale. Questa poesia, che Alberto Toni ha scritto di getto, ha il merito di inserire oggetti e persone della nostra quotidianità. Però siamo ancora agli intenti; infatti questa è una poesia di proponimenti, di abiure e di affermazioni: di poetica tout-court. Si chiude, infatti, così: “Non posso negarmi il piacere della rivoluzione”. Un discorso di partenza niente male. Speriamo che continui in una direzione colloquiale, “fraterna” (per dirla con Cordelli): in una direzione sociale, “bassa”. Perché Alberto Toni ha come pregio maggiore quello di essere una persona umile, un faticatore (una formica, non una cicala). Di sicuro io continuerò a seguirlo con la stessa attenzione di sempre. 20 febbraio 2001 Indice della sezione Indice generale Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |