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Izet Sarajlic, Qualcuno ha suonato Multimedia, 2001, p. 190, £. 30.000. Poeta in bilico tra tradizione
e modernità, Sarajlic è considerato da alcuni il più
importante poeta di lingua serbo-croata in questo secolo. La raccolta edita
dalla Multimedia include una scelta di testi, per lo più dai toni
elegiaci ed epigrammatici, compresi tra il 1948 e il 2000, tradotti superbamente
da Raffaella Marzano e Sinan Gudzevic. Sarajlic costituisce un pezzo della
storia letteraria della Bosnia, suo paese natio, infaticabile promotore
culturale e di eventi di poesia, prima col gruppo 54, poi con le "Giornate
poetiche di Sarajevo" negli anni '60. Durante la guerra bosniaca, il poeta
è rimasto intenzionalmente a Sarajevo, per testimoniare con la sua
scrittura uno dei più grandi drammi umani e civili di questo secolo. La poesia di Sarajlic è
caratterizzata da una straordinaria capacità di adesione al vissuto
quotidiano, suo personale come del suo popolo martoriato dalla guerra.
Questa adesione alla realtà quotidiana è per Sarajlic quasi
un imperativo programmatico: "Da qualche tempo / non mi interessa affatto
la poesia. // Quello che mi interessa è la vita. // I luoghi peggiori
nella poesia in verità sono la poesia. // Non appena la vita irrompe
nella poesia, / i versi, anche senza l'intervento dell'autore, / diventano
poesia." ("Da qualche tempo", pag. 113). Leggendo le pagine più
intense di Qualcuno ha suonato, si ha come l'impressione di un materiale
umano ed esistenziale continuamente strabordante le trame di una scrittura
che fatica a contenere e, soprattutto, cristallizzare il flusso magmatico
dell'esperienza. Persone, luoghi, eventi vengono filtrati attraverso un'attitudine
spiccata all'ironia, nutrita da un fecondo rapporto coi classici, quelli
russi e polacchi in primo luogo, ma anche francesi e italiani. Nell'interloquire
con il suo Tolstoj, con il suo Puškin o con il suo Flaubert, Sarajlic
ironizza in una chiave decisamente postmoderna con l'impossibilità
di fare letteratura, oggi, almeno nella maniera tradizionale. Di questa
crisi o impossibilità della letteratura nel mondo contemporaneo,
la guerra costituisce l'emblema più tragico, l'esperienza limite
di non-ritorno. Se, come dice Adorno, dopo Auschwitz, non è più
possibile la letteratura, questa impossibilità diventa l'oggetto
stesso di una scrittura sempre più calata nella frammentazione e
nella mancanza di punti di riferimento. L'umanesimo proprio della tradizione
occidentale appaiono al poeta bosniaco, più che un'evidenza intellettuale
da salvare, una problematica verità morale da riconquistare, giorno
per giorno: "Ma noi sappiamo ovviamente che Dio non esiste… / Benché
da un po’ di tempo anche l'esistenza dell'uomo / sembra sempre / più
incerta." ("Vicolo ateo", p. 86.) Persino la tendenza alla malinconia e
al rimpianto dei giorni andati ("Possibile che la razza umana non capisca
/ che gli anni più felici sono ormai passati?", "Felice Anno Nuovo",
p. 105.) non è mai per Sarajlic vuoto compiacimento passatista,
ma semmai occasione per constatare come le stagioni della vita si rinnovano
continuamente e che la pratica della poesia non riposa mai su stessa, ma
cerca sempre nuove vie: "Solo adesso che la mia testa si è coperta
di brina, / che ho paura che il suono della campana possa essere per me,
/ solo adesso che si allontanano i violini - / so chi è poeta. Poeta
è quello, / quello che sempre ricomincia daccapo." ("Solo adesso",
p. 53). La produzione giovanile di Sarajlic
prende le mosse dai toni espressionisticamente esasperati di un Majakovskji,
col suo lirismo autobiografico deformato dalla "fattografia" degli eventi
minimi quotidiani: "Ho / trentotto anni: / tradisco i miei maestri.// A
trentasei anni / non sono caduto per la Grecia / (…) / Ecco, sto sfogliando
l'enciclopedia: / sono già più vecchio di Lorca. / Sarà
che i franchisti / hanno dimenticato / di uccidermi! // Tradisco i miei
maestri: Vivo." ("Tradisco i miei maestri", p. 43). Col passare degli anni,
la poesia del bosniaco acquista in auto-ironia e il Romanticismo modernista
della prima liriche cede a una consapevolezza insieme più divertita
e più dolorosa di ciò che significa essere scrittore in mezzo
agli orrori del nostro secolo. Unici antidoti contro il male del tempo
che passa e della guerra che accelera la sua opera di distruzione, l'erotismo
e la convivialità. Il primo è una costante dello sguardo
incantato di Sarajlic verso il mondo e le migliori liriche della raccolta
sono quelle indirizzate alla moglie, scomparsa durante l'assedio di Sarajevo.
La convivialità è un tema ricorrente fin dai primi anni,
derivante dalla lirica classica, russa e orientale ("Anche i versi sono
contenti / Quando la gente si incontra", "Qualcuno ha suonato", p. 46),
ma si carica di fronte alla guerra di una tinta tragica di perdita irrimediabile
("In Bosnia / trovare un bicchiere di grappa / è incomparabilmente
più difficile / che trovare la morte." "A Vlado Dijak", p. 141.)
Gli unici a ritornare alla tavola del poeta sono i fantasmi delle persone
care, il fratello Ešo, morto nella Seconda Guerra, le due sorelle traduttrici,
la moglie, gli amici scomparsi prematuramente: "Stanotte in sogno / mi
è venuto Slobodan Markovic / per chiedere perdono alle mie ferite.
// E' stata anche l'unica richiesta di perdono serba / in tutto questo
tempo, // e anche questa solo nel sogno / e da un poeta morto." ("Dopo
essere stato ferito", p. 138.) Di famiglia slava musulmana, Sarajlic ha
sposato una cattolica e ha amici di tutte le etnie: questa sua ricerca
di un approccio interculturale alle relazioni umane è evidente innanzitutto
nel suo orientamento laico, agnostico e cosmopolita. L'utopia di pace che
traluce tra le pagine del libro è soprattutto un'utopia di convivenza
tra i popoli, che artisti e intellettuali sembrano in grado di promuovere
lottando in comune contro la barbarie del nazionalismo: "Due conclusioni
si impongono da sole: / o il mondo sarà ben presto popolato esclusivamente
da emigrati, / o dovrà divenire l'unica patria universale degli
uomini. ("Erranza dei poeti", p. 93)." Nelle poesie, tra
le più commoventi della raccolta, dedicate alla moglie scomparsa,
ritorna il tema della follia sciovinista, contrastata solo dall'amore,
che supera anche la separazione fisica della morte: "Come avremmo potuto
invecchiare magnificamente / tu ed io, / senza questa follia nazionalista
slavomeridionale. (…) Voglio dirti / quando sono più felice in questa
mia infelicità: quando al cimitero mi coglie la pioggia. // Mi piace
da morire / inzupparmi insieme a te!, ("I nostri incontri d'amore al "Leone",
p. 166.)" La voce lirica diventa sempre
più un tenace ma flebile filo di resistenza nel cuore di un universo
dominato dalla cecità della violenza. Terribile testimonianza di
una volontà di sopravvivere, nonostante tutto, anche attraverso
la ricchezza dell'arte e della cultura. Di questa volontà, l'uomo
e il poeta Sarajlic incarna il miracolo e il mistero che si rinnovano continuamente. 16 maggio
2001
Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |