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Not a Refugee, The Plight of the Kosovo Roma(Gypsies) After the 1999 War, di Paul Polansky 2000, Sebastopol, California, Voice of Roma, p. 96, $ 15 Immaginate
di essere uno scrittore ceco simpatizzante per il popolo zingaro e di essere
inviato da un'organizzazione umanitaria in un campo profughi in Kosovo,
per studiare la situazione di questo popolo durante e dopo la guerra della
NATO (1999-2000). Immaginate, inoltre, di avere passato parecchio tempo
insieme ai Rom, di avere raccolto 1.400 pagine di testimonianze e di storie
personali sulla guerra, le discriminazioni, le ritorsioni albanesi a conflitto
terminato. Il risultato di questo vostro lavoro di ricerca sul campo potrebbe
essere una raccolta di poesie lucida, incisiva e coraggiosa come Not a
Refugee. La conoscenza delle problematiche
degli zingari del Kosovo esibita da Polansky in quest'opera è davvero
sorprendente. Impostato su di una pluralità corale di voci, che
si alternano con quella narrante del poeta, il libro costituisce una tra
le più appassionate denunce in versi degli orrori di una guerra
che si è definita "umanitaria", cioè finalizzata all'alleviamento
delle condizioni di un popolo (quello albanese) e che, invece, ha provocato
enormi drammi in termini di violenze, discriminazioni e deportazioni di
massa per un altro popolo, quello Rom. Soltanto che, in quest'ultimo caso,
i media occidentali hanno ipocritamente scelto di tacere, dal momento che
l'etnia in questione viene considerata ufficialmente (e razzisticamente)
come nomade e, quindi, non suscettibile dello statuto di profugo di guerra.
Come osserva Sani Rifati nella prefazione al libro, i Rom del Kosovo si
sono trovati stritolati tra: 1) le discriminazioni incrociate di Serbi
e Albanesi; 2) i bombardamenti della NATO; 3) le discriminazioni e repressioni
degli Stati limitrofi che hanno accolto i profughi Rom; 4) l'indifferenza
sostanziale dell'ONU e delle organizzazioni umanitarie. In particolare,
la repressione della minoranza zingara, accusata di collaborazionismo coi
Serbi, dopo il ritorno degli Albanesi è stata estremamente dura
e spietata: "Sure I am a Gypsy, / but my first language / is Albanian.
/ My name is Albanian. I am a Muslim, / I can pass for white. // But after
I helped / some relatives, / I was burned out. // How was I to know / the
KLA wanted Kosovo / only for themselves?" ("The Butcher", p. 18). La ripresa dei progrom contro
i Rom risulta particolarmente inaccettabile, dal momento che i rapporti
con gli Albanesi prima della guerra erano di ottimo vicinato. I Rom, dall'epoca
di Tito erano, infatti, perfettamente integrati dal punto di vista lavorativo,
abitativo, sociale e dei diritti. In conseguenza della guerra, la loro
condizione è peggiorata enormemente: "We weren't dirty or poor /
until NATO arrived." ("Photos of the Poor", p. 23). La situazione nei campi profughi
è descritta da Polansky con crudo realismo, in un linguaggio scarno
ed essenziale, che non risparmia accuse a organizzazioni internazionali
(come l'UNHCR), all'esercito di liberazione del Kosovo (KLA) e alle truppe
della NATO. Nei campi manca di tutto, dall'acqua alla luce, dai generi
di prima necessità alla sicurezza. Il cinismo delle truppe NATO
o di alcuni operatori di ONG internazionali supera ogni immaginazione e
la gente paga con la vita il prezzo di questa indifferenza generalizzata
verso il proprio dramma: "Our baby died because our doctor / refused to
answer his cell phone. // He had come all the way / from France // waving
the banner of / Medecins du Monde, / but didn't want to leave / his cocktail
party that night." ("Our first death", p. 38). Le storie personali di gypsies
si dipanano sotto lo sguardo attento e solidale del poeta-reporter che
condivide i disagi del campo e fa da intermediario con le organizzazioni:
dal ragazzino che sogna di avere da grande la pelle bianca come il dottore
("On the border") alla donna che partorisce nel campo di fronte all'indifferenza
dei poliziotti ONU; dal dottore Rom Hasani, ingiustamente accusato di essere
un criminale di guerra filo-serbo ("Ibrahim Hasani") al ragazzino Rom ferito
cui si nega un'anti-tetanica nell'ospedale albanese ("University Hospital",
p. 60-61). In un'occasione, Polansky fa da guida nel difficile esodo di
un gruppo zingaro verso la Macedonia, dove le condizioni non saranno migliori,
ma per lo meno scatterà la solidarietà dei fratelli zingari
stanziati in quel paese. Al di là di tutte le privazioni
e sofferenze, la volontà di sopravvivere al genocidio, materiale
e culturale, è ancora forte: attraverso il semplice strumento della
foto ("...all wanted a copy // to see for themselves / that they were //
still alive." "Still Alive", p. 44) o perpetuando le tradizioni come il
Natale ("Remembering Vasilica", p. 46) o la festa di San Giorgio ("Herdeljes",p.
50) gli zingari affermano, nonostante tutto, la loro volontà di
mantenere la loro identità e autonomia culturale. Il destino della
nascita e la pelle scura costituiscono però ancora un motivo sufficiente
per ucciderli e bruciargli la casa, di fronte all'indifferenza universale.
L'orrore nazista viene evocato nelle ultime pagine del libro attraverso
il lugubre simbolo dell'aquila esibito sulla bandiera dell'UCK: "For the
Kosovo Gypsies, it reminds them of the / Nazi flag that hung over Auschwitz.
// The only thing missing is the white / Nazi circle around the black eagle.
// I'm sure it's coming." ("The Albanian Flag", p. 93.) In Kosovo, dove
persino Dio appare un profugo di guerra e l'orrore regna sovrano, ogni
speranza di una umanità coesistente pacificamente nel rispetto della
diversità reciproca, appare fallimentare. Il verdetto di Polansky
sulla civiltà "umanitaria" che esclude gli zingari dal novero delle
minoranze da proteggere è drammaticamente severo, ma ispirato alla
più rigorosa logica: "We have condemned Gypsies to the past / because
we don't want them / to have a future." ("Who killed the Gypsies?", p.
94). Negando questo diritto al futuro
di un altro popolo, probabilmente ci precludiamo anche una prospettiva
di continuare a chiamarci una civiltà degna di tal nome, ma questa
è un'altra storia.
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