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Lidija Vukcevic, Il velo e altre poesie Via del Vento edizioni, Pistoia 1997 «Il Segnale», anno XVII n. 51, luglio-ottobre 1998, pp. 44-45 Questo libro a cura dello slavista Eridano Bazzarelli fa parte di una collana ma viene offerto in abbonamento come una rivista. E’ ben curato e ricercato nella carta e nella costruzione della copertina ma povero nella rilegatura a punti metallici. Ogni volumetto è numerato come le edizioni di pregio che si pubblicano e regalano in occasioni speciali, ma il prezzo decisamente alla portata di tutte le tasche ne fa un oggetto di facile acquisto: poco più che un omaggio. E’ un libretto, insomma, che per alcuni potrebbe sfigurare se messo accanto a libri pregiati, voluminosi e costosi, mentre per altri rappresenterà senza dubbio un’interessante ed intelligente operazione editoriale, un piccolo gioiello poetico che si fa notare per le parole contenute e non solo per il contenitore. Lidija Vukcevic è nata nel 1954 a Zagabria. Si occupa di lingua e letteratura serba e croata del Novecento, ha pubblicato saggi e volumi di poesia, collabora a diverse riviste e giornali. Le 24 liriche qui presentate sono state scelte dalla stessa autrice e sono state scritte fra il 1992 e il 1996. La poesia dell’autrice è tanto ricca e densa quanto efficace. E’ piena di immagini che rimandano a diverse culture e tendenze, ed è una poesia colta, nonostante la Vukcevic rifiuti di assegnarle ogni carattere erudito. Mescola efficacemente le suggestioni di varie letterature ma, attenta a non far prevalere l’artificio, personalizza ogni cultura affrontata arricchendola con la sua caratteristica sensualità poetica e capacità di donare vita propria alle immagini. Inoltre è ammirevole la capacità di scrivere testi che, pur ricchi di metafore, di sintassi complessa e minuziosamente costruiti, manifestano un senso di totale abbandono all’impeto lirico e rasentano la naturalezza dell’oralità. E’ un dono del canto, questo, che è dato solo a pochi poeti. Naturalmente nella traduzione il senso del ritmo è inevitabilmente perduto, ma la ricchezza del linguaggio è ancora apprezzabile, nonostante l’obiezione di Heinrich Heine: «Ogni poesia tradotta è un chiaro di luna imbalsamato». Il primo dei caratteri fondamentali di questa poesia è la presenza del mito. Tutte le composizioni presentate sembrano avere come sfondo il mare. In questo mare contenitore di leggende (l’Adriatico) ricordi e sogni si rispecchiano e si mescolano a miti ed immagini che suggeriscono un’aura sacrale: un mare «luogo sacro agli dèi, abitato dagli dèi, e non lontano, ahimè, dallo Stige», come ricorda il curatore. Quel mare che a non pochi poeti suggerisce una mitopoiesi: in Italia ne è un esempio Rosita Copioli. Qui la presenza di una cultura mediterranea, intesa nel senso più ampio, si fa sentire in immagini quali “gli oliveti di seta”, il “vento meridionale con cui / Navigava sotto inenarrabili archi saraceni”, “le coste di Sicilia e di Cipro”,“le albe meridionali / Di seta”, il “cador di Bisanzio” ed altre ancora, spesso delicatamente velate. Altro carattere importante di questa poesia è il colore. Certi colori sono ricorrenti ed hanno un posto centrale nei testi; essi sono principalmente e più o meno esplicitamente quelli del mare e della notte: il “guado blu”, “il canto dorato”, il mare che “è dietro le montagne, e rotola la sua nota storia azzurra”, l’“orizzonte-ambra”, il cavallo “con gli occhi / Come le nere stelle”, il “rosso / Mazzo di archi celesti”, le “lettere nere” battute a macchina “sulla pergamena di bianco cielo”, i “cieli argentei”, “l’inchiostro blu”, “il lago di madreperla”, il “gatto nerobruno, di velluto” fino alle “macchie / Di un crepuscolo d’acquerello”, a colui che “colorava i sogni” ed al “rossastro Dio”. E l’autrice mantiene questa intenzione di dare luci particolari alle sue poesie, fino a fantasticare sul “colore della malinconia”. E ai colori intesi come macchie riporta anche la soluzione della punteggiatura: mai più di un punto fermo (quello finale) in ogni poesia: macchie come impressioni momentanee paradossalmente intarsiate, travestite da monoliti poetici, che suggeriscono il flusso del pensiero in una mente onnisciente con il dono della lingua. Leggendo questi testi ci viene in mente Rimbaud, ma anche Gibran: il ricorso all’anafora, che fa di alcune poesie quasi appassionate litanie, mentre un sapore antico, suggerito da papiri e paesaggi perduti nella storia, ci porta all’autore libanese. Ma soluzioni come “un’agile e sazia notte sta per accadere” o “Poni alcune domande incrociate / A Quello lassù su ciò che accade / Dai primi agli ultimi confini / Dietro la schiena del cavaliere devoto”; o le intuizioni trovate per definire la notte senza mai scadere nella retorica (“Cellula di Dio”, “acquario del tempo”, cui vanno “questi versi ereditati / Che rombano di toni sensuali”) rivelano un’esperienza poetica che ha attraversato un panorama vasto nel tempo ed eterogeneo nella sostanza. Slegata dagli eventi e dai paesaggi delle altre, fa da controcanto la bellissima poesia iniziale Inevitabile è la poesia (che sembra proseguire camuffata in Un indubbio sussurrìo) la quale si pone il fatale interrogativo dell’utilità della poesia. Chi scrive a volte si chiede “quante sono le miglia fino / Al sonoro, non cantabile altissimo?” e può capitare di decidere, come qui è stato fatto, di risolverlo dissolvendosi nella pagina. 27 maggio
2001
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