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Jorge Luis Borges, Testi prigionieri, Adelphi, Milano 1998 «Hebenon», anno IV seconda serie n. 3, novembre-aprile 1999, pp. 52-54 Nel 1936 Borges aveva già quasi “letto tutti i libri del mondo”, aveva già collaborato a prestigiose riviste e pubblicato tre volumi di poesie, una biografia, cinque volumi di saggi fra i quali i capolavori Discussione e Storia dell’eternità e una raccolta di racconti, Storia universale dell’infamia. Sulla rivista dal tranquillizzante nome di «El Hogar» («Il Focolare»), conservatrice, cattolica e molto letta dalle signore della Buenos Aires “medio-alta”, il giovane Borges (ha 37 anni) inizia in quell’anno a tenere una rubrichetta dedicata a libri e autori stranieri. Una rubrica minima, all’apparenza senza pretese ed un po’ seriosa, ma invece ricca di acume critico, finezza e vis polemica, e già sgocciolante una mai pedante erudizione. Chissà cosa pensavano le signore bonaerensi che leggevano le critiche di quello che sarebbe diventato uno dei più importanti scrittori di tutti i tempi, nonché il simbolo dell’erudizione. Borges, anche se obbligato a stare entro limiti di spazio angusti (come succede per quasi tutti i recensori) dovette avere una grande libertà di espressione (potè parlare di autori spesso innovativi e poco noti in Argentina), ed ambedue questi elementi contribuirono a creare, come si vedrà, i testi imperdibili che qui si ripropongono al lettore. Ora quei testi, pubblicati fra il 16 ottobre 1936 e il 7 luglio 1939 con un singolo intervento del 13 dicembre 1940, sono stati raccolti sotto il bel titolo Testi prigionieri (cura e postfazione di Tommaso Scarano, traduzione di Maia Daverio). Il volume era uscito, postumo, nel 1986, anno in cui i testi furono liberati dall’ingiusta e più che cinquantennale reclusione sulle pagine ormai ingiallite della rivista. La rubrica non ha certo un avvio timido: osserviamo come fu condotta. Si inizia con una biografia di Carl Sandburg, che «senza ricorrere alla metempsicosi [...] - come Walt Whitman, come Mark Twain, come il suo compagno Sherwood Anderson - ha vissuto molti destini, alcuni oltremodo faticosi», e che pubblicò il primo libro nel 1904, ma «impiegherà ancora dieci anni per manifestarsi, nelle Poesie di Chicago. Quasi subito l’America lo riconosce, lo applaude, lo impara a memoria, e lo insulta anche. Poiché la sua poesia non ha rime, gli oppositori dicono che non è poesia. [...] Inutile riaprire la discussione, ancora viva a Buenos Aires benché ormai del tutto superata nel resto del mondo...». Seguono tre recensioni di mezza pagina l’una. La prima è dedicata a L’angelo della finestra d’Occidente di Meyrink, romanzo «più o meno teosofico, [che] non è bello quanto il suo titolo», il cui autore «a poco a poco ha finito per identificarsi con il più ingenuo dei suoi lettori». La seconda è su The achievement of T.S. Eliot di F.O. Matthiessen («non la tenebra, ma i chiarori di Eliot sono l’argomento di questo libro. Equidistante dallo scandalo di alcuni e dall’adorazione un po’ snob e scolastica di altri [...]. Peccato che, dopo avere enunciato un così arduo programma, [l’autore] preferisca non portarlo a compimento») e la terza, molto “borgesiana”, su l’Encyclopédie FranÇaise: «Meno copiosa di una certa enciclopedia cinese che consta di milleseicentoventotto tomi in ottavo di duecento pagine ciascuno, la nuova Encyclopédie FranÇaise [...] non supererà i ventuno volumi». Borges passa a spiegare che sono stati pubblicati i volumi X, XVI e XVII perché «la nuova enciclopedia rifiuta l’ordine (o il disordine) alfabetico, e tenta una classificazione “organica” delle materie», e che anche se i curatori parlano per questo di originalità «dimenticano che questo fu il metodo delle prime enciclopedie, e che la classificazione alfabetica fu, a suo tempo, una novità». Ma Borges sa anche essere garbatamente implacabile. Dobbiamo solo attendere quattro numeri, fino a quel 27 novembre 1936 in cui, commentando il Premio Nobel a Eugene G. O’Neill, attacca così l’Accademia di Svezia: «Il nobile intento essenziale di assegnare premi imparzialmente, senza tenere conto della nazionalità degli autori, si risolve di fatto in un internazionaismo insensato, in una rotazione geografica. [...] Io non so, ad esempio, se nel giro di cent’anni la Repubblica argentina avrà prodotto un autore di importanza mondiale ma so che prima di cent’anni un autore argentino avrà ottenuto il premio Nobel, per mera rotazione di tutti i paesi dell’atlante». Non sappiamo se gli accademici lessero queste osservazioni, ma se lo hanno fatto si direbbe che non le hanno più dimenticate, e tantomeno perdonate. Nei cortocircuiti, nelle impennate, negli accostamenti di aggettivi sta l’anima inquieta di questi testi, e nell’inserire precisamente ogni opera nell’infinito labirinto della letteratura sta la borgesiana genialità del critico («la critica letteraria» - disse proprio Borges - «arricchisce la letteratura»). Eliot è un «inverosimile compatriota dei blues di Saint Louis», mentre Spinoza è il «geometra della divinità». Escono due «industriosi» libri su Rimbaud: «un’assurda convenzione di origine francese ha deciso che in Francia non si producono uomini di genio e che quella laboriosa Repubblica si limita a organizzare e rifinire le materie spirituali che importa». «Il cuore dei buoni lettori di H.G. Wells esulterà di gioia: Olaf Stapledon ha appena pubblicato un altro libro». Il compito di Borges non è affatto facile: erano anni in cui le novità editoriali portavano i nomi di Kipling, Chesterton, Woolf, Eliot, Kafka, Maugham, Hemingway, Valéry, Wells, Joyce e via dicendo. Dividendosi equamente e non facendosi distrarre dalla fama degli autori esaminati, non manca mai di dare un ragguaglio più chiaro possibile: vediamo alcuni esempi. Su James Joyce ed il suo Finnegans Wake: «nel 1922, pubblica l’Ulisse, che può equivalere a un’intera e complessa letteratura che riunisca molti secoli e molte opere; oggi pubblica dei giochi di parole che senza dubbio equivalgono al silenzio più assoluto», ed altrove nota giustamente: «Jules Laforgue e Lewis Carroll hanno praticato questo gioco con migliore fortuna». Poe «fu un inventore prodigioso, ma anche un cattivo esecutore delle proprie invenzioni. Donde il favore che gli fanno i traduttori, per mediocri che siano: la gente attribuisce a loro il disordine e le inutili enfasi della sua prosa. [...] Rimane la sua teoria poetica, alquanto superiore alla pratica. [...] Rimane l’invenzione del genere poliziesco». «L’Iliade, in quasi tutte le traduzioni, è un libro remoto, cerimonioso, un po’ intrattabile. Rouse [nella sua traduzione] ne fa un’opera divertente, semplice, pettegola e piuttosto insignificante. Forse ha ragione». Particolarmente bella la nota su Kafka: «[Il processo e Il castello] presentano un meccanismo del tutto simile a quello degli interminabili paradossi dell’eleate Zenone. [...] Non mi sembra casuale che in entrambi i romanzi manchino i capitoli intermedi: anche nel paradosso di Zenone mancano i punti infiniti che Achille e la tartaruga devono percorrere». I giudizi più “generali” (ma solo apparentemente generalizzanti) non sono da meno, e sono imperdibili. Parlando di Santa Giovanna d’Arco di Victoria Sackville-West così inizia: «Una delle buone consuetudini della letteratura inglese è quella di redigere biografie di Giovanna d’Arco». Oppure: «conosco due tipi di scrittori: l’uomo la cui prima preoccupazione sono i procedimenti verbali, e l’uomo la cui prima preoccupazione sono le passioni e le fatiche dell’uomo. Di solito si denigra il primo tacciandolo di “bizantinismo”, o lo si esalta definendolo “artista puro”. L’altro, più fortunato, riceve gli epiteti elogiativi di “profondo”, “umano”, “profondamente umano” o il lusinghiero vituperio di “barbaro”». O ancora: «La soluzione, nei testi polizieschi mediocri, è di tipo materiale: una porta segreta, una barba posticcia. In quelli buoni, è di tipo psicolgico: una menzogna, un atteggiamento mentale, una superstizione.» Dorothy Sayers «ha scritto le migliori analisi della tecnica del genere poliziesco e i peggiori romanzi polizieschi che si conoscano [...]. Il fatto non mi stupirebbe più di tanto, poiché per una intelligenza caace di analizzare in modo penetrante un effetto estetico ve ne sono dieci - o cento - capaci di produrlo». Recensendo L’Età romantica di Mowat precisa: «I libri come questo incorrono di solito in tre leggerezze, in tre errori. Il primo: intenerirci o intenerirsi con parole, mobili o abiti antiquati. Il secondo: venerare gli uomini di altri secoli perché si sono astenuti da procedimenti estetici di cui non sospettavano neppure l’esistenza [...]. Il terzo, e senza dubbio non l’ultimo: ridurre il passato a una anticipazione del presente e non vedere altro che precursori». Caustiche le opinioni sui filosofi. Dice, parlando di Oswald Spengler, che «mentre ai filosofi inglesi e francesi interessa l’universo in sé, o qualche aspetto dell’universo, quelli tedeschi sono propensi a considerarlo un semplice motivo, una pura causa materiale dei loro enormi edifici dialettici». Recensendo la Guida alla filosofia di Joad nota che «di solito la storia della filosofia rallenta in modo incredibile la speculazione filosofica. Questo rallentamento è inevitabile, se si tiene presente che la filosofia non è altro che la discussione imperfetta (se non il solitario monologo) di alcune centinaia, o migliaia, di uomini perplessi, distanti nel tempo e nel linguaggio». Vi sono infine, qua e là, preziosi abbozzi di idee sulla letteratura in generale: «non è impossibile paragonare tutti i generi letterari al romanzo. Il racconto è un capitolo virtuale, se non un riassunto; la storia è una antica variante del romanzo storico; la favola, la forma rudimentale del romanzo a tesi». Non mancano timidi ma utili ragguagli su Borges stesso: «Mettendo in ordine la mia biblioteca, noto con meraviglia che le opere che ho più riletto e costellato di note manoscritte sono il Dizionario di filosofia di Mauthner, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer e la Storia della guerra mondiale di B.H. Liddell Hart». Oppure: «devo la mia prima nozione del problema dell’infinito a un grande barattolo di biscotti che portò mistero e vertigine nella mai infanzia. Su un lato di quell’oggetto anomalo vi era una scena giapponese; [...] in un angolo di quella immagine ricompariva lo stesso barattolo di biscotti con la stessa figura, e in questa la stessa figura, così (almeno potenzialmente) all’infinito...». E l’Italia come ne esce? L’attenzione di Borges per il nosto Paese non era in quel tempo molto forte (ma si sa come altrove si accenderà il suo interesse): c’è un bel ritratto di Benedetto Croce, incentrato sul terremoto che uccise la sua famiglia: «per sfuggire a una disperazione totale, decise di pensare all’Universo, procedura comune a tutti gli infelici, che a volte funge da balsamo». Ed aggiunge: «Esplorò i metodici labirinti della filosofia. [...] Nel 1899 si accorse, con una sorta di timore simile talora al panico, che i problemi metafisici si stavano organizzando in lui [...]Aveva compiuto trentatrè anni: l’età, secondo i cabalisti, che aveva il primo uomo quando fu creato». Al Futurismo non va bene, quando Borges si accinge ad analizzare l’«ultima insulsaggine» di Marinetti, che «è forse l’esempio più celebre di quella categoria di scrittori che vivono di trovate e che di rado hanno un’idea». Pirandello fa un paio di timide comparse in recensioni ad altri autori. Chiude il libro il saggio Definizione di “germanofilo”, che si somma a giudizi politici sparsi nel libro (una per tutte la recensione a Non fidarti dell’ebreo neppure quando giura dedicata esclusivamente alle illustrazioni), in barba a quegli sperduti ed abbagliati critici che ancora accusano Borges di essere stato insensibile ai problemi politici ed economici internazionali. La bella postfazione di Tommaso Scarano ha fondamentalmente cinque pregi. Il primo è di notare come le particolari biografie sintetiche qui raccolte preludono a molte “biografie in versi” che Borges scriverà più tardi. Noi notiamo anche, a ritroso, che Borges ha attinto a giudizi e citazioni che aveva già incluso nell’ultima sezione di Discussione. Il secondo pregio è fornire utili ragguagli cronologici: ad esempio ci viene ricordato che proprio negli anni Trenta «affonda le sue radici quella “modernità” della concezione borgesiana del testo letterario (riconoscibile soprattutto nei concetti di linguaggio, testo e letteratura come sistemi, e di lettura e scrittura come riscrittura)». Ricordiamo a tale proposito il fondamentale racconto Pierre Menard. Occorre poi notare i rapporti di Borges con la rivista «Sur», che favorì enormemente i suoi rapporti con le letteratura straniere, apertura dei quali abbiamo formidabili tracce nei saggi del 1932 e del 1936. Il terzo merito (facile ma importante) è quello di ricordare a chi di dovere che molti scritti di Borges sono ancora “prigionieri” (su riviste quali «Sur», «Crìtica», «Nosotros» e altre ancora). Borges è stato accusato di essere critico edonista e impressionista: quarto merito è quello di notare che Borges applicava la critica degli scrittori e non la critica dei critici, che se «non dà prova di saper leggere l’opera nella sua totalità è perché di fatto fa molto di più: la legge, sulla scorta di particolari forse anche marginali, nella superiore totalità della letteratura intesa come sistema». Se dobbiamo dire quale sia il più grande merito di Borges, sceglieremmo proprio il suo incarnare l’intertestualità, essenza stessa della lettura e della scrittura. Annota ancora Scarano che «autori e opere letterarie sono sistematicamente ricondotti a “genealogie” entro le quali soltanto è possibile misurarne significato e “valore”, ed entro le quali la lettura si compie in un’ottica che privilegia, su tutti gli altri possibili, i criteri della varianza e della invarianza». Ogni lettura di Borges è sempre un insieme di letture simultanee, nonché una lettura delle precedenti letture ed una lettura (crediamo pressoché sempre involontaria) delle opere presenti e passate del lettore stesso. Cosa altro poteva fare, d’altra parte, consapevole che una seria analisi critica sarebbe stata impossibile in quelle ridottissime colonne? Notiamo, comunque, che Borges stesso lo confessa, nel saggio su Groussac (1929, in Discussione): «Sono un lettore edonista: non ho mai permesso che il mio sentimento del dovere intervenisse in un’abitudine così personale come l’acquisto di libri». Quinto ed ultimo merito è l’aver messo in evidenza che ad una attenta lettura Borges «regala anche due racconti “non scritti”», uno nell’ipotesi del controlibro di Of coure, Vitelli! di Griffiths (il lettore lo troverà a pagina 280) ed un altro nella recensione a Excellent Intentions di Hull (pp. 219-220) (ma c’è qualcosa anche a pagina 317, dove Borges nota che «nessuno ha ancora tentato di scrivere una storia delle forme del romanzo»). Ci accompagna, oltre che il dubbio che in realtà Borges quei racconti li abbia scritti, il dubbio che molti altri ne abbia imprigionati in questi testi, ed altri ancora - ipotesi terroristica - siano qualcuno di questi testi. Mi permetto a questo proposito di suggerire un’altra chiave di lettura, non so se “impressionista” quanto - secondo alcuni - la critica borgesiana qui riunita. Il lettore non enciclopedico potrebbe sentirsi smarrito fra le pagine di un critico che tratta con uguale confidenza Joyce, Eliot o Poe e scrittori cinesi o olandesi a noi pressoché sconosciuti. La sensazione (non certo la chiave giusta) può essere quella di leggere i testi qui raccolti come i famosi riassunti di libri non esistenti che popolano i racconti di Borges (il racconto L’accostamento ad Almotasim fu scambiato per una recensione ai tempi della prima uscita su «Sur» nel 1940), adeguatamente mascherati da libri reali tramite una fitta rete di riferimenti intertestuali ben congegnati. E’ un esperimento che può rivelarsi interessante, chissà se la Biblioteca di Babele contiene anche scaffali speculari ed invisibili. 27 maggio
2001
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