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Antonella Doria, Altreacque, Book, Castel Maggiore 1998 «Il Segnale», anno XIX n. 55, novembre-febbraio 2000, pp. 51-52 Caratteristica
più evidente di questa già interessante opera prima è
la «visione dialettica tra il mito e la incantata quotidianità»
(dalla introduzione di Giò Ferri) che si identifica non solo nei
temi, ma anche nel convivere di linguaggio che incarna il mito e linguaggio
“volgare” del dialetto, terrigno ed a volte ironico in modo delicato, appena
accennato e mai esibito. Altro fondamentale indizio di questa bipartizione
(o meglio coesistenza) sono i titoli delle due sezioni: la prima è
Lilith e le altre due sono Legàmi e Luoghi: ecco tornare evidente
la coesistenza dei due temi. Mentre Lilith dichiara «Voglio
arare la miaterra / da feconda Nefèle diseredata
/ dissodarla / farne Palma serico Mantello...» i Legàmi
con la propria terra si fanno stretti e sempre più concreti, fino
alla spazializzazione dei Luoghi («lungi da ogni facile maniera descrittiva
o banalmente paesaggistica», Ferri). C’è
poi la particolarità “tipografica” di questa poesia, che si dibatte
fra pieni e vuoti: accanto a termini derivanti da fusioni di sostantivi
e aggettivi (molto più raramente di due sostantivi) come quello
che dà il titolo alla raccolta («vocalizzazioni chiuse, più
che neologismi composti», Ferri), vi sono pause, silenzi fra una
parola e l’altra a favorire una ininterrotta paratassi. Queste fusioni
poi possono suggerire una poesia che prende parzialmente vita in quella
fase del pensiero in cui ancora non c’è forma di parole ben definita,
ma ricorrono alcune immagini che sono rese con termini quali «immotaluce»
o «sorrisoargento», anche se altri casi rendono manifesto l’uso
intenzionale e talvolta non necessario: «tremoredesiderio»,
«acqueprofonde»... Si tratta comunque di un procedimento diverso
da una predilezione per gli agglomerati e le parole composte già
nell’uso corrente, come quello del recentissimo Luzi di Un mazzo di rose:
«La fine della giornata incombe, / già si abbuia / l’aperta
foltoerbata ripa / lasciata dai rientranti, / annotta / il semideserto
lungofiume», «Mezzogiorno. Giardino. / Occhiofermo, / ...». La poesia
che apre la raccolta, subito dopo la già citata Lilith in limine,
poesia senza titolo, è la più densa di immagini mitiche ed
è la vera poesia-chiave. Si inizia con versi che descrivono la nascita
dalle acque ed esaltano la fertilità, assegnando alle acque quella
funzione materna ed al tempo stesso primordiale che guida tutta la raccolta:
«L’acqua è il mio elemento / Mi suscitò dal flusso
dell’onda il tuo sospiro / di Dèa che lieve increspava l’immotaluce
/ In essa s’immergeva scivolava per dare e avere / vita il tuo sorrisoargento».
Qualche verso dopo l’autrice si immedesima e si fa protagonista, spostando
però l’attenzione su una sorta di condizione di esiliata: «Dalla
primadimora mi hai sospinta / allontanata dalla tua ombratonda / dalla
liquida luce del tuo ventre / verso altreacque altri mondi» (si noti
che la potenza evocativa dell’acqua porta alla fusione, mentre gli altri
mondi appaiono al confronto solo un corollario). Dopo un passaggio intriso
di ricerca e nostalgia omeriche, la poesia si conclude ribadendo «L’acqua
è il mio elemento / Mia primadimora di sogno di vita di poesia». Diversi
testi presentano caratteristiche particolari, come il sesto della prima
sezione dalle pulsioni primitive o il decimo in cui la paratassi è
usata al meglio. Nella sezione Legàmi vi sono due poesie interamente
in dialetto siciliano. Il dialetto è ritenuto una lingua materna
e quindi è qui consuonante al potenziale evocativo dell’acqua (al
di là di troppo semplici ragionamenti marini e isolani, anche se
in Sicilia resiste forse l’unica poesia capace di attingere ai miti senza
cadere in estetismi di maniera), e sono le uniche due che rievocano particolari
esperienze quotidiane che riaffiorano alla memoria: le storie ascoltate
nella culla e le prime esperienze amorose. Esse inoltre rinunciano alla
rarefazione delle pause ed indulgono ad una versificazione quasi cantilenante
come se in questi casi l’autrice ritenesse opportuno abbandonare archetipi
e versi carichi di simboli per favorire un mondo tanto privato da dover
essere sottratto anche alla guida dei miti. Vi sono nella seconda sezione
anche poesie in cui i legami sono stretti con gli oggetti e i gesti quotidiani,
anche se in questi casi gli oggetti sono fortemente caricati di simbologie
ed esistono solo in funzione di esse, o sono il tramite di passaggi di
stato del sentimento: «giunta all’asse prese il ferro / lucido dastiro
rovente / era il suogodimento da sempre / :su e giù sulle pieghe
con rabbia- / -decoro il “focolare” non sappia / quanto queste catene costano
(?) // (domanda-gancio per Cyborg-assassino / dal 2100 giunta ad uccidere
l’Angelo)»; «non so cosa (mi)prende - al / mercato - un po’
di frutta o di / ricotta? olivenere al forno e la lattuga / riccia o cottoparma
e la cipolla? / ma... / qual cosa... già m’impiccia... e non / vorrei...
quasi... andare... / nella bolgia / di mapaligrizia che / massale». Concludiamo
dando un saggio della spazializzazione di Luoghi: «spazî in
angolo di punta / brama filigrana-mente / fila la traccia oscura / di suaragnatela
trama / ... / nuova tela limiti / di mondi in chiuso cerchio / spazia l’angolobianco
/ avvinto di guanciale // - al cader della notte - / mentre la tèrmite
trama...». 27 maggio
2001
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