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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Cesare Oddera, Plasticolandia
di Sandro Montalto


Cesare Oddera, Plasticolandia, Joker, Novi Ligure 1999

«Hebenon», anno V seconda serie n. 5, novembre 1999-aprile 2000,  pp. 71-72

Il miglior modo di iniziare una recensione a questo libro è citare le parole del prefatore Gianni Caccia: «un felice connubio tra avanguardia e beat generation, nel quale l’impiego di artifici verbali, sempre sorvegliato e mai incline a uno sperimentalismo fine a se stesso, si unisce a un’influenza  altrettanto misurata dei miti d’oltreoceano». Oddera, ventiduenne poeta ligure di cui questo libro costituisce l’esordio, costruisce nel suo percorso poetico una sorta di poemetto in 58 episodi o sequenze, che si dipana lungo una sorta di sentiero doppiamente bipartito: la prima bipartizione è quella che porta a distinguere gli episodi di chiarissima ascendenza beat da quelli derivanti dalle suggestioni neoavanguardistiche - con i distinguo che vedremo -, la seconda è quella che suggerisce di distinguere i due “piani di narrazione”, ossia distinguere le poesie che a loro modo illustrano l’evolversi di una vicenda amorosa da quelle che traggono origine dall’osservazione di una certo squallore urbano, che si fa degrado umano. 

Per quanto riguarda le ascendenze beat e sanguinetiane, occorre dire che mentre le prime sono state ben assimilate, in un tessuto linguistico che si avvale di procedimenti decisamente introiettati - e quando non appaiono assimilate ciò è dovuto ad una precisa scelta -, le seconde appaiono ancora molto scoperte. Infatti, come già specificato, i debiti genericamente alla neoavanguardia italiana si riducono nei fatti a debiti nei confronti dell’ultima poesia di Sanguineti: si leggano ad esempio le sezioni 28, 36 («Mi stendi al sole, io: un panno (sintetico) ad asciugare / sdrappeggiando nel vento, / umido dei tuoi amori ansiogeni, / antro sommerso dei miei sentori più oscuri») e in minor misura le 34 e 48, nelle quali il linguaggio ed i temi sono esattamente quelli dell’illustre genovese. Per non parlare di moltissime similitudini terminologiche, una per tutte gli «ipertelefoninizzati» di Oddera che richiamano irresistibilmente gli «itali idioti ipermarkettizzati» del recentissimo Stravaganze sanguinetiano. 

Qualcosa di simile si può dire circa i riferimenti ai colleghi d’oltreoceano. Si vedano le poesie “alla Ginsberg” come la numero 33 («M’accorgo che ci sei, Neal, quando batti il colpo / secco sul mio capo, / nel balbettio dei nostri discorsi sempre ben mixati, / a malapena udibili. [...] / Poi è delirio, / spasmi e vortici, / una tempesta gastrica, solo per ricordare», che richiama nel nome proprio l’Elegia per Neal Cassady: «OK Neal / spirito etereo...») e quelle nello stile più “alla Kerouac” come la 37 («Lo fa apposta, il caro Dick, apposta: / con le sue forsennate elucubrazioni / anti-cattoliche, / anti-metafisiche, / anti-superstiziose, / anti-ognicosa»). 

La sfortunata vicenda amorosa non viene esposta in modo cronologico, ma sta al lettore ricostruirla attraverso i flash(back) che intendono ora rendere partecipe il lettore di un momento felice del rapporto, ora quasi chiedere perdono per la stupidità di un’illusione, ora suggerire un senso di disagio nel constatare come ciò che non è mai stato sia apparso a lungo reale e ben solido. Tutti i rapporti umani sembrano nascere e svilupparsi sotto l’insegna della finzione e della vacua ostentazione («È che siamo tutti così: / fasulli, / acculturati, / colmi di boria e di costumi, / ipertelefoninizzati, in mille linee [...] / specchiai in occhi vigili, sempre pronti a scrutarci, / ipocriti appena, quel che basta per non accorgerci / che non viviamo neppure per noi stessi, se viviamo», p. 45), e la ritrosia ad aprirsi ed il trionfo della superficialità investe anche i rapporti più intimi («Una ruberia, carnagione candida, implode in un buco nero. M’indossa come un abito liso, m’addobba come un finto / albero di Natale. [...] / Mi divora bavosamente, senza assaporarmi», p. 17; «Non c’eravamo scoperti fino all’osso: / rimanevano quelle lenzuola che sapevano di muschio, / a nasconderci le paure e le culture», p. 31). 

Fra una nostalgia ed un rimprovero, l’autore si fa portavoce di coloro che non sanno (e non vogliono) adattarsi a questo mondo di finzione («Ma, vedi, / non mi realizzo con le umane, quotidiane mezze felicità, / questo è il punto, appunto. / Non riesco a plasmarmi», p. 30) e ancora credono nel potere salvifico, vagamente montaliano, della memoria. Ciò in cui l’autore non sembra credere interamente è il potere della parola, che sembra strumento ormai inutile di fronte a tutto il “non detto” soffocato da una atmosfera polimera: «Ne avrei da dirti, se solo trovassi le frasi giuste [...] / E penso che alla fine ne verrebbe fuori / un qualcosa di incomunicabile, / una pastoia romanzata e irromanzabile, sillabe malamente incollate, friabili, / come malintonacati calcinacci che si sgretolano / sotto il peso soffocante delle troppe cose non chiarite», p. 28. La disumanizzazione che secondo l’autore è ineluttabile figlia del degrado urbano e dell’alienazione, alla fine è assimilabile a quella incomunicabilità che pare essere stata in ultima analisi il segno della storia d’amore, vissuta in quella terra di plastica che dà il titolo al volume. La prima poesia del volume appare una sorta di riassuntivo manifesto: «Una finta fitta di dolore, poi la spinta sottocutanea d’un cuore di plastica. / Ciò che so di te: il tuo tetro abbraccio - / allucinazione al vaso cinese. / Vere cose: tutte le cose. / Ma, alle volte, il tuo paradiso artificiale vince. / Mi sono arreso, tanto tempo fa». Il “paradiso artificiale” di Oddera è in realtà funzionale a produrre una nuova creatività poetica come quello di Baudelaire, ma ha in più la sinistra caratteristica di essere subdolo, oltre che imposto. Il dramma non è quindi quello dell’attrazione di opposti e sommi richiami, ma quello del poeta già accerchiato che si dibatte per sopravvivere ad una scelta non sua. La prima poesia è il capo che si annoda saldamente all’altro capo della poesia 58, che chiude la raccolta (a p. 48, in parte già citata): «Irrompiamo, irruenti (in un mordi e fuggi), / e consumiamo. / I prescelti dei nostri manifesti, / sorridenti al modo dei cartelloni pubblicitari: // (antipasti delle nostre inappetenti abboffate esistenziali) // - se vuoi una vita, te ne vendiamo una -». 

Oddera, che pure esibisce una sua eticità lato sensu, non resiste per un attimo a rievocare la scappatoia quasi consueta dello stordimento, con chiaro intento di denuncia ma senza più la forza di opporsi: «Li spendiamo, gli attimi. / Li impegnamo, li affittiamo, li vendiamo / per una manciata di spiccioli, / che ci bastano a malapena / per una birra che ci stordisca, / per un caffè che ci storpori.». In un paio di casi infine ci vengono donate schegge in cui l’autore sembra momentaneamente distrarsi dalle sue tematiche per concentrarsi su una minima sperimentazione: si legga ad esempio la sezione 7 in cui sembra corteggiare il territorio paludoso della fase “prelogica”. Ma la sperimentazione (non parlo qui di sperimentalismo) non è che una delle facce della sua poesia, non il fine. 

Il primo pericolo di un libro simile è quello di cadere in un idealismo decisamente fuori luogo e tempo, nella denuncia contro la città alienante ed i suoi corollari, che ha avuto illustri e capaci precedenti i quali hanno anche pressoché scritto l’ultima parola sull’argomento. Non è diritto del recensore entrare così a fondo nell’humus che genera i testi poetici, ma crediamo importante evidenziare come alcuni temi siano così consunti da mettere a serio rischio l’opera di chi con anche certa buona fede li affronti. Fatte le osservazioni precedenti, comunque, questa opera sembra difendersi piuttosto bene. Il secondo pericolo che evidenzieremo è quello di scadere in uno sterile intellettualismo, o di lasciarsi coinvolgere nel gioco dei significanti: si sa che l’imitazione è un genere per virtuosi. Ma crediamo che l’utilizzo di varie figure retoriche, allitterazioni, anagrammi, rime interne, paretimologie e via dicendo sia in Oddera un procedimento strettamente legato alla poiesi e non il frutto di una ricerca, o il tentativo di costruzione di una autoreferenzialità: si legga il passaggio «Eccolo, il tuo amore oppressivo-oppresso, / offeso da opprimenti oppressioni» in cui tutto è funzionale alla costruzione di una camera d’eco. Certo la poetica di questo autore presenta un rischio anche in tal senso, ma certamente il volume promette in futuro testi in cui significato e significante saranno sempre più strettamente legati. 

27 maggio 2001


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders