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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Fabio Vallieri, Come ruggine
di Sandro Montalto


Fabio Vallieri, Come ruggine, Book, Castel Maggiore (BO) 1997 «Il Segnale», anno XIX n. 56, giugno 2000, pp. 56-58

Quella di Vallieri è una poesia che abita la lentezza e corteggia l’immobilità. La sua lentezza non è però pigrizia intellettuale o orgoglioso antidoto alla velocità delle cose che è in aumento, né la lentezza che egli corteggia e alla quale forse tende è inamovibilità o rifugio adiabatico. La sua lentezza è quella di chi si muove più rispettoso che circospetto, nel segno del rispetto per le cose e con il chiaro intento di non voler perdere nulla esibendosi in una corsa nella quale il vincitore non vince che la solitudine. Per questo dico che corteggia l’immobilità: il punto ultimo sembrerebbe l’immobilità del poeta che pieno d’amore per le cose sta a contemplarle, annullando la sua azione ma non la sua percezione né smorzando le sue corde, immobile perché un suo gesto non corrompa la purezza. Un traguardo ipotetico, precisiamo, una conclusione “limite” alla quale però l’autore come vedremo non sembra voler giungere. 

Lo sguardo di Vallieri è pieno di interrogazione, è lo sguardo di chi ha già posto la domanda e resta in attesa fissando gli occhi di chi conosce la verità. Interrogazione silenziosa ma profonda, che anche se con grazia non sembrerebbe però accettare una risposta elusiva. Infatti dai minimi movimenti magari involontari l’ansia traspare, ed inevitabilmente quella cosa fra le cose che è il poeta si smaschera nei suoi tremori. Ma questo non è un male, perché se egli trema è perché non rinuncia a porsi di fronte al dolore e a porre altre domande, non rinuncia a provare il peso e la durezza del reale, il fardello dell’Io: «Non mi è dato sapere / d’essere vivo né / so per certo / se io muoia tra i vivi, / davvero, / ignorando lo spasmo / accentuato del cuore». 

Versi di grande maturità per un giovane esordiente (nato a Ferrara nel 1971), già dotato di un linguaggio proprio che aderisce ai Grandi senza mai prendere a prestito: i non pochi echi dei Maggiori (anche nella loro talora manifesta presenza) sono meno importanti e invalidanti di come spesso accade, perché queste poesie manifestano un controllo dei mezzi notevole, un equilibrio fra il semplice-naturale e il complesso-analitico che penso vada al di là di un “mestiere” ben appreso. Mestiere che si manifesta ad esempio nella sapiente suddivisione del libro in tre sezioni dai titoli emblematici: L’urgenza di una voce, Da spigoli, spiragli e Nei rifugi prossimi che tracciano un percorso inconfondibile in fase ascendente. Si parte da una confessione di disorientamento («Io sono dove s’apre / desueto l’orizzonte chino / del girasole, / dove sfugge al suolo / l’onda pieghevole del suono. / Nulla più giace tacito e uguale, / solo la morte che rabbocca / anditi e stanze vuote / d’oggi / che mi è acerbo / anche solo il pensare») denunciando la mancanza di ideali e riferimenti mentre la morte è l’unica certezza che si impone come rimedio per quanto ancora doloroso. La debolezza che ne deriva si riflette sulla considerazione di sé e della propria identità («Non mi è dato di sapere / d’essere vivo né / so per certo / se io muoia tra i vivi...») mentre la vita viene percepita come uno «stivarsi represso, ostinato / tutto un estraniarsi affabile / un soffocato osservarsi attorno», uno spettro subdolo nel suo essere “affabile”, al quale occorre sfuggire: «più mi slancio e / fuggire mi è facile» ma «poi non corro molto lontano»; e la morte è ancora e sempre l’unica alternativa, che ancora si vorrebbe rifiutare. Ecco quindi lo scarto di cui sopra: siamo tra vita e morte, in uno spazio incredibilmente angusto e fra pareti fragilissime, ed occorre muoversi con una lentezza quasi esasperante («Prendi fiato. Respira») nel tentativo di oggettivare e porre rimedio alla «miope visuale»: forse qualcosa ci è sfuggito, forse c’è «altro che ci lega, ci addomestica; / qualunque accenno superfluo / smistato altrove». A che aggrapparsi dunque, ora che la voragine fra realtà e idea appare sempre più larga e anche la giovinezza ha perso la sua stereotipa garanzia di gioia e di capacità di vivere l’irreale («un’alba roca / grigio mattino smagliato»)? Nella seconda sezione - che l’autore osserva da “spiragli” - il tema diventa l’amore, che mai Vallieri ritiene immune da quanto prima espresso: un risolversi sereno è impossibile nonostante la capacità della donna di donare un poco di pace. Però questo amore dona un ulteriore approfondimento allo sguardo del poeta, e contribuisce alla sua crescita e all’avanzamento in questo coerentissimo cammino. Qui un’altra cosa fra le cose come è la donna diventa l’Eletta ed il poeta, cosa come sopra detto smascherata e discostata, si riscatta osservandola con tutto l’amore di cui è capace, e fissando nei versi quanto questa Cosa maiuscola esprime. L’amore non è facile, risulta chiaro: occorre spostarsi con movimenti sempre più brevi, lenti, minimi, ed i gesti di Vallieri che contempla la cosa amata non diventano in modo stucchevole versi dedicati alla contemplazione dell’amore. Sono poesie d’amore autentiche, come è sempre più raro leggerne, che dicono tutto quanto sentono necessario ma non traboccano, né - pur definite e definitive - impediscono a chi legge di personalizzare e fare propri i versi. Riportiamo integralmente la poesia a p.31: «Nasce dal ventre / lo stacco armonioso / sull’incavo della pelle mentre / osservo il picco dei tuoi / lineamenti lambire bagliori, / calchi esangui di cenere / i dipinti / tra i capelli sciolti / così come li hai pettinati / in precedenza chiedendomi / di percorrere adagio / insolite pianure. / Ogni varietà di umori / quasi dovuti». 

La terza sezione è quella del desiderio di una fuga («Lontano vorrei essere / e non avere occhi, ferite / di sangue evaso, radente») e della ricerca di un rifugio («Dai corridoi raddensi / di penombre gli archivi del sole / distano troppe porte a venire») che comunque ci viene assegnato sovente a nostro discapito «fanno ancora paura i rifugi? / come se a scegliersi lapidi / fossero i morti per frane o / cedimenti improvvisi del suolo». Siamo infine alla desolazione: «le nostre case le nostre / forse sfiorate» non sono che «pallide impronte del clima / come ruggine che crolla / cede ai metalli alle leghe», ogni certezza dal passato è svanita ed il futuro è carico di angoscia in quanto definibile come incertezza: «Ed io non so cos’aspettarmi». Un ultimo segnale, un ultimo lamento viene dalla comclusione della raccolta: «e poi quanto quanto ancora / possiamo aspettarci d’aspettare / pretendere, spremere di noi / o altro non facciamo». 

Non mancano nel libro quelle che si potrebbero definire “cadute di tono”, ma sembra che esse siano sempre da accreditare a precisi intenti, nonché a una sotterranea tendenza dell’autore a creare “pause nel silenzio”, in un dettato che sta fra le righe. Inoltre il dettato non rifiuta immagini forti, non è schiavo di una fraintesa delicatezza: «questa fretta sporca di sentimenti», «la tosse incancrenita dei polmoni». A suggello, «Come vorremmo cullare / l’idea di un Chagall / lieve / fra le abitudini sboccate, / le piaghe ancora / aperte». Dedito al controllo Vallieri rifiuta gli sbocchi sentimentali così come non crede alla portata gnoseologica del descrittivismo né tantomeno all’incisività di nuove e trabordanti astuzie tipografiche: è nel potere insito nella singola parola che egli crede, nel periodare come architettura che regge solo se le singole parole sono al posto giusto e ben scelte. E c’è infine anche una fiducia nel linguaggio comune se egli rifiuta di coniare neologismi (forse si trova solo un «metallucente») e non si affida ai gerghi. I pochissimi termini desueti o comunque rari appaiono così necessari e mai si ha nel lettore un senso di maniera o affettazione; al più, Vallieri preferisce scavare il senso tramite una aggettivazione inconsueta di grande effetto: «fretta sporca», «alba roca», «crespo sorriso», «calci esangui». Non mancano certo espedienti ben congeniati (cambi di consonante suolo/suono, i già citati termini obsoleti al posto giusto, passepartout leopardiani come «mi è acerbo / anche solo pensare», quella «giovinezza trita» per “luoghi comuni triti”, l’anadiplosi «in cima a un rosso / rosso aprirsi di ciglia» e quella purtroppo abusata anastrofe «lontano vorrei essere»...), che però non gravano mai, anzi fungono da trampolini. 

Anche il ritmo ha parte importante nel libro: ora funzionale a creare un minimo stagnamento del pensiero, ora in accellerando per raggiungere una (rara) constatazione ironica, i testi di Vallieri catturano l’orecchio, hanno persino insita una certa vocalità. Ed è un ritmo che non fa mai vacillare la levità (o leggerezza in senso leopardiano) dei testi, nonostante l’uso di “a capo” non sempre ortodossi: «Così, lieve da noncuranze / qualche marcatempo di mie / boriose giornate eri / gettata fra fogli inchiostrati, / prose sgozzate dentro al pattume» (p.32). 

Come ruggine resta un libro esemplare quanto a compattezza e profondità, un testo importante come ottimo esordio di un giovane poeta e sicura garanzia per il futuro. 


27 maggio 2001


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders