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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Alberto Cicala, Restare senza nomi
di Sandro Montalto


Alberto Cicala, Restare senza nomi, Fermenti, Roma 1997 «Il Segnale», anno XIX n. 56, giugno 2000, p. 61-62

Nel libro di Cicala si registra una sorta di reticenza a nominare, ossia ad assolvere al compito del poeta («Dire non è un piacere»): come una ribellione che porta l’autore a manifestare una sfiducia nel suo strumento, ribellione che si manifesta, capovolgendo la situazione, con un “restare senza nomi”, soprattutto un restare-privo/privarsi dello statuto di poeta che ha qualcosa di Corazzini e ben poco di Palazzeschi: «Perché non hai detto un’altra cosa / invece del mio, inesistente, nome di carta?». E oltre ai dubbi sull’efficienza della parola c’è soprattutto il peso dei Maggiori, la sensazione di ottenere solo, dopo tanto scavare e viaggiare (a scorrere i titoli della raccolta si ha come la traccia di un percorso), una verità che altri hanno già da tempo e più autorevolmente proclamato: «macché segreti», «è tutto almeno una volta / già successo / già passato». Il poeta è nel vuoto dell’ancora-non-detto la cui sostanza gli è ignota, questo nulla invade anche la materia al suo centro tarlandola, insinuando fra le parole alcuni vuoti tipografici dove parole magari basilari non sono state trovate. Ma in fondo, Perché un nome?: «In perdita va ogni cosa, ogni cifra / che abbia un perché, / così non do più nomi / a niente!». 

L’analisi del proprio intimo vira all’ultimo, appena prima di diventare metapoesia, e trova una rappresentazione sul palcoscenico dell’amore. Una storia bruciante che non si accontenta mai della superficie e appare talvolta paludarsi un un’oscillazione di passi fatti e ripresi, ma Cicala sa quasi sempre cambiare rotta al punto giusto (vi sono alcune soluzioni retoriche e tipografiche che stonano, mescolate ad altre necessarie e pregnanti) e - in questo caso - riutilizzare gli amanti-attori per ricordare al lettore-spettatore che il senso della commedia va perdendosi a prescindere dall’efficacia delle battute, e tutto si risolve a scheletro: «Ti ho appena sentito. / Poche parole: (un sì con un no), (poc’altro) / niente non direi, / nient’altro». Una tendenza che giustamente il prefatore Renzo Paris (dopo un paragone francamente azzardato con Catullo e Cummings) nota come schiettamente novecentesca, aggettivo confermato da un tentativo di recuperare una nascosta forma epigrammatica che però non sembra consona all’autore. 

Un vuoto intorno, si è detto. Cicala sente che dietro c’è poco ed il futuro riserva meno ancora, così si vota ad una sorta di “carpe diem ragionato”: «Poco ci resta dietro / meno ancora davanti // godiamoci almeno / questo // preciso momento». 

E tiriamo i fili un’ultima volta: reticenza a dire quindi anche a raccontare, in modo particolare a raccontare una storia d’amore che, come si sa, pur apparendo sempre unica è sempre uguale alle altre, già vista, soprattutto già detta: «E’ meglio sorvolare. / Tanto non sarò né il primo / né / l’ultimo / a dirlo». 


27 maggio 2001


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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