|
||
Alberto Rizzi, L’armadio cromatico Archivio della memoria, San Bellino (RO) 2000 «Confini», anno V n. 9, febbraio 2001, pp. 122-124 Questo
volume è la terza opera “ufficiale” dopo una nutrita serie di libri
autoprodotti: Rizzi non è un autore inesperto ed anche se a prima
vista la sua scrittura potrebbe sembrare dedita all’abbondanza, al verso
traboccante di parole, alla ricerca (e registrazione) dello stridio dei
lemmi. Ad una lettura più attenta si riscontra che c’è di
più: è sotto lo strato di cose da dire, di sensazioni da
dare e far durare che il controllo dell’autore si manifesta nella sua quasi
costante lucidità. La sperimentazione è accesa ma non scade
nello sperimentalismo, il dettato riproduce il cammino reticolare e complesso
del pensiero ma non si mura in un labirinto di autocompiacimento, la voce
è forte e sa cibarsi di stilemi e formule ma rifiuta ogni autoreferenzialità.
Il canto picchettato dell’autore è polifonico, ricerca persino fonica condotta con salda fede nella testimonianza del significato. Il titolo d’altra parte suggerisce che questo armadio cromatico sia una scatola sonora che emette una melodia appunto “cromatica”, fatta di continui e minimi intervalli: «arrampico gradini / e getto l’occhio al piano / od anche al gambo dell’ortica». Rizzi giunge a confondere il lettore: il cambiamento di registro, paesaggio, stile, tema, persino referente, è vorticoso, repentino, sapientemente furbesco. Si incammina perpetuamente («Non passa giorno / senza ch’io non divenga / nel mio stesso divenire») - il tema del viaggio, sia esso fisico o mentale, è centrale nel libro - e lascia dietro di sé residui di vita e di letteratura per indossare sempre nuove vesti, si dirige là dove nel paesaggio cangiante potrà confondere la vita con la parola, con essa falsificarla ed allo stesso tempo svelarla: «E sono ancora in viaggio // lascio appesi al chiodo mantello / e scarpe / e sassi / [...] E sono ancora in viaggio / de/scrivendo dei cammini / da un giugno già passato oltre / al vaglio di una morte altrui / sicché più fermo sia / il passo-dopo-passo / a ricreare la dolcezza nuova // ecchimosi d’un sempre / in faccia a questo tempo»; «Una fessura s’apre nella piana vasta / pressoché laggiù / dove vedi che mi s’appunta il dito // manoscrive la mia mano nel frattempo / sull’orizzonte che saliscende i colli»; e altrove: «O forse fu il giorno stesso a manomettere i ricordi... // Io d’altronde non cerco altro / che ancora l’imprevvisto d’un incontro»; «mi ripercorro nelle scelte / che manomettono il presente». L’autore crede che sia sufficiente “mettere su carta” il mondo per tradirlo se non traviarlo, accusa questa mistificazione della poesia e per un attimo teme che il suo scrivere sia solo calembour («Chi tiranneggia qui / è il solo vuoto chiosare / di ben regimentati versi»), ma allo stesso tempo è attratto dalla parodia, direi addirittura dalla carnevalizzazione di ciò che compete alla vita. Citazioni letterali e scopertissime («in kelle terre per kelle fini ke le contene»; «s’intravede il sempre caro colle / ch’ermo dell’ultimo orizzonte il guardo esclude») convivono con storpiature prevalentemente ironiche («così colà com’altrui piacque»; «per te donzelletta che vieni da campagna / in sul cantar del gallo») o provocanti («Mi rumino d’immenso»: pur sempre una dichiarazione di poetica da non dimenticare), prestiti più o meno fedeli dal provenzale, dai dialetti e termini desueti («aveami»), assieme a neologismi («cantilenclamano», «i buoi criptomangieveno»), espressioni ai limiti del volgare e dell’invettiva, nonché l’uso di solito stropicciato di lingue straniere contribuiscono con molte altre caratteristiche a tratteggiare l’immagine dell’autore: spezzettata, ai margini di se stessa e del mondo, errante, pensierosa con levità. Ma soprattutto contribuiscono ancora una volta a farci capire come per Rizzi sia fondamentale l’angoscia prodotta dall’idea che non solo il mezzo della scrittura sia irrimediabilmente inadeguato, e che la memoria sia uno strumento ormai inservibile ed infedele («odo il risuonìo effimero d’un non-ricordo»; «Vi è memoria che impera in gioco agro / nel contrapporsi d’occhi alle foto / e con l’immaginar delle vite altrui / pur contrappesi tu lo scorrere del tempo // portano ovunque i passi / oltre una qualsimiri soglia»), ma che il mondo stesso sia intraducibile per l’uomo, e che all’uomo-poeta non resti che burlarsi di ciò che per struttura e non per sua incompetenza non può comprendere, e riempire con la fantasia concretizzata di versi gli spazi che la l’incomprensibilità dell’esistente lascia vuoti. Dobbiamo fare un unico appunto, ed è la necessità di una maggiore selezione nei testi: si sa che una gemma anche splendida è seriamente danneggiata dalla minima incrinatura od ombra, e proprio di gemma qui si tratta. Poesie come Radice, Frammento nonsense e forse anche Cane (ma nessun’altra) creano momenti di vuoto che dispiacciono veramente. Auspichiamo soprattutto la comparsa di una selezionata antologia della poesia fin qui prodotta da Rizzi, sperando che un editore attento si affretti a cogliere questo fiore. Per chiudere estrapoliamo dalla poesia Pianura e golena, giustamente ritenuta dall’attento postfatore Mauro Ferrari la più riuscita della raccolta, un significativo esempio della sfolgorante quanto pregnante vena poetica di Rizzi: «Così pur noi si stava / immobili al passare di corrente antica / noi dappoco / meno che licheni / immobili all’indovinare voce / sopra i cerchi di quel sasso antico».
Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |