La forza, il carattere di marcia disperata che rifiuta la nenia, l’“elegante rudezza” fanno della poesia di Camaioni - che in questi anni si è imposta per il suo valore - un’espressione di grande fascino. Il linguaggio, che si spoglia di ogni orpello superfluo, si slancia fuori dalla pagina ed è gravido di essenze e di soluzioni formali che appaiono necessarie: allitterazioni («a far d’inverni e inferni limbi tiepidi»), raro lessico colto, significative anadiplosi, coppie di sostantivi, rari endecasillabi, rime interne sono parte integrante dell’urgenza espressiva, mentre tutta l’estenuante interrogazione dell’autore è rivolta alla ricerca di Dio ed è attraversata dall’amara consapevolezza dell’oscura fine inesorabile della vita («di certi suoi inchiostri torrenti / tu non puoi risalire / alle fonti // ma seguendone il corso / scoprire le fosche tue foci»), fino alla coscienza del silenzio divino come colonna sonora della storia e del dolore umano. 

Camaioni è l’errante nel doppio senso di colui che vaga/vive sbagliando continuamente lungo il suo percorso, che sa essere complesso e che alla fine comprende essere l’infruttuosa attesa di un’impossibile rivelazione («E’ nell’assenza / la sostanza sua, è nell’attesa / [...] è nel silenzio la sua voce: / eco arcana di goccia / stillata giù dal cielo / in una pozza»; «è l’estasi e il coma, lui: / l’eterno errante - / con sé solo recando eco di grida - / perdutamente vòlto al Suo silenzio»), fino all’asciuttezza estrema che coincide con la chiarezza: «Soffoca, / nel silenzio di dio: / l’io sillaba sprofonda, / sprofonda nel suo blu / sintesi d’ombra».

Urgente, profondo non come una fossa ma come un pozzo da cui sgorga il nero oro della consapevolezza, compagno e non epigono dei suoi maestri, puntuale ed eccessivo ad un tempo, Camaioni merita un’operazione editoriale completa e di più ampia risonanza. 

27 maggio 2001