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Stefano Semeraro, Due inverni 1987-1997, VersodoveTesti, Bologna 1999 «Il Segnale», n.58, febbraio 2001 La poesia che fa da prologo alle tre sezioni del libro rende manifesto lo stato da cui parte la riflessione poetica di Semeraro, ossia uno stato di prostrazione e di rinuncia ad un compito che si scopre non essere stato assolto, la necessità di una parola, di un segno che l’autore non ha saputo cogliere mancando, ciò è suggerito, la sua principale funzione: «Neppure cerco più / di comprendere i miei giorni / come non ho saputo / nel tempo che ci era dato / comprendere i tuoi segni. / A dire il vero vera servirebbe / una parola, estate / stretta fra due inverni». Vi è un senso di fatalità, di oppressione nel tempo e nello spazio, di estrema concentrazione in un compito capace di giustificare una vita o, se mancato, di privarla di ogni senso ed ulteriore scopo. Si avverte anche una riflessione sulla poesia: manca la parola necessaria a descrivere ciò che serviva e ciò che ora quella mancanza rende necessario, e per analogia manca l’estate senza la cui essenza, secondo i versi di Shakespeare dopo riportati, «l’effetto della bellezza sarebbe tolto con la bellezza». L’autore che cerca la parola stretta tra due inverni si trova in un suo inverno, e chiede la complicità del lettore: «Se vorrai potrai / conservare in questo facile / desiderio di me e nelle parole / che hai scelto il gelo / l’ardente gelo e la mia luce / custodita nell’inverno». Nel retroterra di questo libro regna insomma, ancor più che una inadeguatezza, una incompiutezza, forse il senso di aver smarrito qualcosa che la concentrazione sull’intimo a cui l’autore si è dedicato non ha dato gli strumenti per cogliere; tale - una denuncia dell’intimo che è anche esaltazione dell’unica dimensione in cui poter vivere, anche se vistosamente incompleta - sarebbe allora il motivo della presenza di moltissimi caratteri che suggeriscono intimità: andamenti discorsivi, citazioni “private” (la citazione da Kafka tratta da un frammento postumo e dedicata alla bellezza degli occhi dei suoi amici) ed i molti termini che riportano al quotidiano: «bar», «hostess», «gonna con lo spacco», «sottoportico», «autobus»... Semeraro rifiuta chi sostiene che «si riduce tutto ad una folla di neuroni / a filamenti in quantità, interni», non esita in rare occasioni a denunciare la pochezza generale («Li ho sentiti berciare ad una scesa / e poi echeggiando / di natura e salute li ho visti dividersi fuori / nella città») e sente l’esigenza, alla ricerca dell’assoluto, di indagare i momenti e le piccole cose nel momento in cui si dilatano nella mente ed acquistano nuove valenze: egli si sente aperto a tutto e tutto disposto a filtrare attraverso la sua sensibilità, giunge a ritenersi aperto, indifeso in senso addirittura fisico: «E’ aprile e nulla si salva / dalle crudeltà dell’umido / viene la primavera / la terra si vendica / sulla mia pelle soffoca / le radici dei polmoni. / Anche la presenza / del gatto anche il tempo conservato / nei letti gli avverbi / tutto ciò che muta o germoglia / mi fa fremere e gonfiare / neppure la città / mi protegge». I testi sono compatti e molta attenzione è fatta alla loro musicalità, sorretta da parche rime anche interne, reiterazioni ed assonanze, ed addirittura compare in qualche caso, alla fine di una frase parentetica, un “due punti” che è il segno musicale di ritornello: ad esempio «(e: riposare nell’assenza, / lasciarsi inghiottire:)» suggerisce la ripetizione ciclica di tale atteggiamento. Si legga come prova di stile il seguente testo, quasi un frammento di monologo in apnea, con un inizio e una fine puramente convenzionali: «L’acqua che ti sostiene / quando tieni il respiro / e cali come una talpa / liquida nelle sue vene / impara dalla sua voce / fredda dal respiro / che ti appoggia ai fianchi / dal fuoco morbido / che ti brucia fra i capelli». L’autore si identifica con un «pendolo bulgaro» (ossia dalle oscillazioni irregolari, come il ritmo delle danze bulgare del tipo 4+2+3/8 3+3+2/4) che «partiva e ritornava [...] fra scrivere e disfare», una volta tentato dall’una ed una volta dall’altra soluzione, suggerendo automaticamente ed emblematicamente che “scrivere” sia “fare”: Semeraro confida nel potere edificante della parola, capace perlomeno di riprendere ad interrogare, e ne fa indispensabile auto-dono nel magma soffocante/protettivo delle differenze: «Seduto fra le differenze / fra le differenze resto / accampato. [...] / Non serve una strada oggi / è sufficiente la debolezza del tuo corpo / - parola». Qualche pagina più avanti l’aggettivo oscillante, ossia la scelta difficile fra dire e tacere, torna: «Non lo sai ma sei / un angolo del mio tragitto [...] / per guidare la deriva / per decidere il mio oscillante / punto di fuga». Semeraro si concentra sempre più sul corpo, mezzo di ogni nostra minima azione, sotto l’egida fra l’altro di una citazione da Merleau-Ponty: «Ogni tecnica è una tecnica del corpo. Essa raffigura ed amplifica la struttura metafisica della nostra carne». La distanza, temporale, fisica o metaforica, è un altro punto focale della riflessione: quella fra due inverni come abbiamo visto può significare tutto, e ad esempio è quella «che ha messo / fra sé e sé capisci / che non sopporto quelle / mani che non afferrano / né circondano lo sguardo / sprofondato le parole / che si porta dietro come rami / a cancellarsi la vita...»; altrove viene precisato che «fra dirimpettai soltanto / può esistere un discorso», e «va nutrita la distanza», che può essere spazio vitale per un’esistenza, una parola, un simbolo di bellezza. Queste mani che non afferrano, queste «silenziose mani di terra» con la cui cura «i giorni / che abbiamo abitato [...] sapranno / sepellirci» non sono che le antenne di quella struttura fisica che ci dovrebbe rendere il metafisico, ci gettano in faccia la realtà immediata, la limitatezza dell’esperienza umana, ci privano di quell’assoluto al quale aneliamo e - in una poesia dedicata al nume Paul Celan - «dove c’era pensiero le mani ora / toccano per sempre una cosa»: ecco che si svela inutile il tentativo di tenere le «cose [...] lontane con la voce» per rendere «una disperazione / comoda un dolore / abitabile» (quel dolore che unice il corpo e la parola), ed ecco che alla domanda «noi / arbusti, gramigne, erbe da ferrovia / noi che non abbiamo la vocazione / ad essere foreste?» le cose rispondono con la loro ineluttabilità e afonia e ci abbandonano alla nostra ritornante e ritornellante domanda, atroce perché ora se ne intuisce la risposta: «(Tutto qui?:)». 27 maggio
2001
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