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Sandro
Montalto, Scribacchino. Poesie 1993-1999, Edizioni Joker, Novi Ligure
(AL) 2000, pp. 64, Lire 20.000
E’
giovanissimo, Sandro Montalto, del ‘78 addirittura, ma ha già capito
molte cose, ha già acquisito e maturato strumenti metrici e stilistici,
oltre che una voce, ben definiti, radicandoli in una tematica ben precisa,
la “storia” di una fede nella parola poetica, intesa come progetto e metafora
dell’esistenza stessa. Come testimonia la raccolta recentemente pubblicata
dalle edizioni Joker Scribacchino. Poesie 1993-1999, intenzioni
e capacità (riconosciutegli, queste ultime, tra l’altro da un critico
eccellente come Mario Pazzaglia) trovano a dispetto dell’età una
convincente dimostrazione di un dettato sapientemente orchestrato tra «svagatezza
febbrile e post-adolescenziale dolenza» (come rileva Rinaldo Caddeo,
acuto prefatore) nell’interrogazione di un “fantasma” (quello dell’io del
poeta svuotato di ogni referenzialità autobiografica), nel teatrino
di una scrittura che fa dell’autoironia l’antidoto al rischio di un’eccessiva
sovraesposizione dell’io al fuoco di un giovanile compromesso lirico con
l’esperienza. Una
poesia che parla sempre di se stessa, dunque, fin dal titolo; una poesia
che si umanizza riflettendo(si) nei propri meccanismi, come metadiscorso
situato nel corpo stesso del testo: è questo che sembra dirci Montalto
fin dal titolo. Come non sorprenderci, allora, di fronte a Scribacchino
per
quel che sa dirci di ironica consapevolezza di una perdita d’aureola ormai
accertata e insieme di fiducia in una funzione essenziale della scrittura,
risolta in pratica che «allude e non conclude» nel suo impegno
di dar corpo a un’idea del mondo nell’atto stesso del suo scadimento e
meccanica ripetitività? Smascheramento della poesia come menzogna
(«E’ il tuo mestiere, ormai: / la menzogna diviene verità»,
si dichiara nel Prologo asintotico), smascheramento che si trasforma
paradossalmente, ironicamente, in celebrazione e riabilitazione del suo
potere comunicativo, umano, testimoniale: tra «fare» e «disfare»,
tra furore avanguardistico e rinunciatarismo neocrepuscolare, il nostro
non ha dubbi, sceglie ciò che rafforza e non ciò che scoraggia
la sua volontà e capacità di dire, sfidando il «sintagmatico
magma» delle cose attraverso una convinta dicibilità, attraverso
una costruzione del testo molto studiata, fondata com’è non solo
su accumulazioni ed elencazioni ma anche su un accorto sistema di coazioni
metriche, foniche e retorico-fonologiche. Gli esempi che si potrebbero
addurre sono innumerevoli, tanto il libro ne è costituzionalmente
tramato; ne basti uno, da Epitaffio per me («Colui che quanto
ha potuto ha dato al mondo / ha abbandonato tutto e tutti: / dall’alba
all’aragosta, / dal barbagianni al busillis, / dal camice al colloide,
/ dal decubito alla disseminazione, / dall’epicentro all’ermellino, / dalla
falange al feudatario, / dal ghiaccio al golf, / dall’Helzapoppin all’humus...»),
in cui senso e suono cooperano, al di là di ogni eco e suggestione
letteraria, alla definizione di una scrittura a funzionamento ludico, che
fa giustizia delle «molteplici verità», dei «significati
perduti», del vuoto e del niente, dei «brandelli» di
vita e di io, di cui l’opera è intessuta. «Intimi
soliloqui criptici / (quasi ventrilòqui)», definisce Montalto
la sua poesia (altrove anche detta «folle cartografia della mia essenza»,
oltre che «autopsia al mio me indeciso») e la sua è
la definizione di un qualcosa che ha stretto contatto, più che col
misticismo, con la fisiologia, con un’esperienza di auscultazione e attraversamento
delle pulsioni più segrete, con l’emergenza di una trama di sintomi
(fisici, linguistici) del profondo in cui prende corpo la “petite mytologie”
di un io dalle «mille facce» sorpreso sul «crinale fra
sogno e realtà» e armato solo del suo riso, di un «terribile
riso che ride di ciò che è infelice» in cui pare riconoscere
l’amara corrosiva lezione del Leopardi più “eroico”, quello convinto
della terribile potenza del riso al punto di affermare che solo «chi
ha coraggio di ridere, è padrone del mondo» (Pensieri LXXVIII). 3 giugno
2001
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