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Recensioni e note critiche
Gianni Caccia: La Vallemme dentro
di Letizia Lanza


Gianni Caccia, La Vallemme dentro, Edizioni Joker, Novi Ligure 2000, pp. 84, £ 20.000

È uscito in marzo, per i tipi della Joker, la nuova silloge narrativa di Gianni Caccia, classicista accreditato (ha tradotto e commentato per la Newton & Compton sia i Dialoghi di Luciano di Samosata, sia il Fedro e La Repubblica di Platone, mentre per la giovane casa editrice di Novi ha prodotto il saggio Il tifo, malattia del corpo e dell'animo nell'antica Grecia, 1997). Nell'ambito della narrativa ha già al suo attivo la raccolta Aperture (1994) e il racconto lungo Il rovescio naturale (1996), oltre a brani inclusi in Storie da Novi (Edizioni Joker, 1994) e La notte (Edizioni Nuove Scritture, Abbiategrasso 1998)

Nella prefazione ai racconti (in parte inediti, altri già pubblicati con qualche variante testuale su La clessidra) che compongono La Vallemme dentro, Alberto Cappi rileva che la scrittura «cede i contorni alla scena ed è quest'ultima che partecipa della narrazione. La scena, non l'atmosfera. Vallemme, emblema simbolico e non solo, diviene allora proprio per il topos sia centro della descriptio sia lieto motivo del narrare».

È senza dubbio piegatura non di poco conto, se «a partire da sé origina tanto il paesaggio che il personaggio». Mentre il paesaggio (nelle parole dell'autore «un'altra Vallemme, improbabile e vera», «una malia facile a tutti, chi avesse occhi per capirla», dove il fiume «si muove attento, esplora con la calma sua propria il tempo propizio, il tempo tanto sperato, quando evaderà dai sassi e tutto ridiventerà suo»), dice ancora Cappi, «si distende dal momento epifanico come eccentrico e si dà quale territorio della nostalgia, del desiderio, dell'immutabile, preso tra la condensazione che potrebbe avere rimandi onirici e lo spostamento accanto alla sorpresa», a loro volta i personaggi «rientrano nella storia a due piani, città e natura, mentre nel medesimo spazio si compie lo slittamento temporale».

In una prosa assolata, densa, rifinita, che ama indulgere a voci preziose, colte o bizzarre («schernebbiava», «latità», «borborigmi», «mescidanza», «bruire», «svergoli», per citare solo alcuni esempi) vengono a delinearsi figure variamente arcane: tra le tante, Mastro Genio, il «vecchio dal nobile abbandono», intento a «riavvolgere il filo della sua memoria diafana» nella capannuccia che trasuda «una povertà pregna di bosco»; l'imbelle Marchese Guido de' Pallini, turpemente deprivato da madre natura dell'addicevole ius primae noctis; il diavolo dal volto di capro che barbaglia alle rocce; l'uomo del fulba, dalla «faccia tonda e buona color del vino» con le «due pupille aguzze di cielo pieno», già inschiodabile «perno» della mitica partita (anzi, della «battaglia, furiosa come mai altre») contesa ai calciatori inglesi («I più forti del mondo, come a tutti constava»: o piuttosto «una compagine di signori allenati a thé e pasticcini, forti e spocchiosi quanto era loro richiesto, contro una squadra diversa di animali»); Bianchino, con la pelle, a dispetto del nome, «brunita e secca da mettere in mostra gli ossi sotto le crepe»; Georghios, dagli «occhi smorti» e capelli con il «colore della spuma», dal «sorriso di sale come il suo corpo»; gli sfuggevoli uomini delle radure, drogati da un «bere di terra e di fuoco, eversivo e maliardo».

Né - presenze tutt'altro che trascurabili - vanno dimenticati gli animali: Minu, il gatto del vecchio Vallemmano, che esibisce «il riso di un apollo di veio nei baffi»; oppure gli altri, rari se non fantastici addirittura: i tonni d'acqua dolce, l'airone cinerino, il fagiano muschiato, il marmandù innamorato della papaverina, le lumache «tenaci».

E si ritrovano coinvolti, gli uni e gli altri, in storie tutte, sia pure differentemente, piacevolissime, sospese a mezzo tra mito e realtà.

Tutto ciò a sostanziare il titolo: il quale già in sé - annota opportunamente Mauro Ferrari nella bandella - «sottolinea il rapporto tra Io e Mondo nel duplice segno dell'apertura ad esso e della speculare introiezione»: là dove il Mondo «diviene sostanza del vissuto di un Io spesso sottinteso e appostato ai margini della narrazione, proprio perché quell’Io vi proietta ricordanze, suggestioni e occasioni di scrittura».

Accade così che la parola si tenda «fra i poli di un iperrealismo sempre improntato alla resa espressionisticamente più efficace e di una sublimazione simbolica (in ultimo mitica) che non di rado approda al surreale»: ne risulta indizio, secondo Ferrari, anche «l'impercettibilmente straniata immediatezza di tanti passaggi all'apparenza colloquiali, volti a segnalare un continuo scarto dall'intento affabulatorio, per concentrarsi sul procedimento stesso attraverso cui il mondo si fa coscienza e scrittura, e tornare infine coscienza - questa volta a livello collettivo o, se si preferisce, universale - nel momento letterario».

Una volta di più, insomma l'artifizio "personale" del ludus (av)viene a trascendersi.

4 luglio 2001
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders