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1.
Questi appunti riguardano due libri di Marco Ceriani usciti nelle edizioni
Flussi a cura di Vincenzo Girelli: Frammenti nel dialetto della Focide
(1997) e Lo scricciolo penitente (2001, con una postfazione di Giovanni
Raboni). A parte una piccola nota di Patrizia Valduga, I Frammenti
furono accompagnati da un opuscolo, stampato dallo stesso editore, di Enrica
Salvaneschi (Focide ovvero: sul paesaggio-pronome, 1999)
e anche da alcune pagine di Giuliano Gramigna, inedite, che ho letto grazie
alla cortesia di Girelli. Dal punto di vista editoriale, i libri sono involucri
perfetti, nel loro accordo tra stampa semiprivata e grazia senza lusso;
parlarne criticamente è più difficile, se si fa a meno di
un piano generale o solo descrittivo (la nota di Raboni agisce in questo
modo: imponendo l’idea – e la divagazione – di
un pensiero poetante che «non dice» ma «significa»,
«come l’oracolo» e «come il dio» del fr. 93 di
Eraclito). Parlarne è difficile anche per l’assoluta mancanza di
appelli al lettore (date, note, epigrafi) all’esterno della poesia, che
di per sé è già abbastanza chiusa.
Il
colophon dello Scricciolo è un piccolo discorso (dell’editore)
su «invisibilità pervicacemente perseguita» e «marginalità
efficace». In realtà, sui «margini» – o su alcune
(ipotetiche) ‘degnità’ dei «margini» – si può
reggere anche il progetto comune della scrittura più alta, e dello
stesso Ceriani: separare (simbolicamente, ma non solo) il dolore dalla
storia; trasformare la storia in valore, cioè in opera che «aggiusta
i suoi suoni / con un’agonia ahimè in sol, un tumore in dorèmi»
(Lo scricciolo, p. 11). Contemporaneamente, chi si getta in una
biologia – più che una psicologia – del nuovo sente che l’esperienza
dei margini assume volentieri il rischio della chiusura/clausura «scontrosa»
(cfr. ancora il colophon). In generale, la critica dovrebbe riconoscere
il rapporto fra intraducibilità e – nell’autocritica di Amelia Rosselli
– «contenutismo»: con il rapporto tra soggetto e materia reale,
che sembrerà anche sur-reale nella forma scritta. Disimpegnarsi
(ad esempio esagerando la trama greca del libro: cfr. Salvaneschi) evita
anche lo choc dell’incontro critico con il senso scritto nel «dotto
enigma / indubbiamente a un inno pari» (Frammenti, p. 10).
Non a caso, Raboni omette il verbo al centro del frammento di Eraclito
(«oúte koúptei»: «non nasconde»):
il non-nascosto è «la verità intuitivamente colta»
(Nietzsche, La filosofia nell’età tragica dei Greci, 9) dal
poeta, il senso da cogliere al momento di leggere. 2.
Formularità, scansione e arcaismo sono già, di per sé,
apparenza e più che apparenza, esattamente nella loro severità
nei confronti dell’uso linguistico, come il francese (?) di Nostradamus
rispetto al francese. Ciò che si legge viene anche mediato dalla
propria adesione personale (corporale) al nuovo: la lingua e la forma di
oggi sono i limiti controllabili in cui fermare la materia o troppo viva
o troppo irrazionale o troppo deformata rispetto alla sua percezione quotidiana
(Gramigna: «Fra tanti elementi di nuova retorica che ho cercato di
indicare emerge il fascino di un resto incomunicato. Tale resto riguarda
anche qualcosa che attiene all’imprudenza, o addirittura all’impudenza.
Ma dico: sennò, per che cosa altro mai i poeti scriverebbero?»).
L’operazione di Ceriani deve essere guardata anche come pratica iperpoetica
all’interno di un percorso iperpoetico, che impegna tutta la vita (e tutto
ciò che è conosciuto nella vita: cfr. l’ostentazione o l’ossessione
antichistica – che non prelude a nulla di visibile, dal punto di vista
del lettore – di entrambi i libri): «Il linguaggio della poesia è
un linguaggio a parte. Sua caratteristica interna e permanente è
la diacronicità. Perciò un poeta è sempre ritardato»
– come nell’aforisma 148 di Umano, troppo umano – «o anticipato
rispetto la circostanza storica e in genere il suo tempo» (Pier Paolo
Pasolini, risposta del 18 marzo 1965, in Saggi sulla politica e sulla
società, Mondadori, Milano 1999, p. 1054). A
titolo di ipotesi sulla «diacronicità». Se la lingua
della Focide è il «vaticinio» (Frammenti, p.
44) della Pizia, la scrittura di Ceriani ha/è il contenuto generale
di un vaticinio privo del riferimento al futuro, e quindi tanto linguisticamente
liberato quanto umanamente impoverito, se non interviene il tempo della
penitenza. L’impressione che il contenuto archeologico sia essenziale ma
non unico è confermata dai riferimenti cristiani e/o francescani
di entrambi i libri: il poeta scambia continuamente i ruoli tra vita, esperienza
e conoscenza, con un effetto insieme onnivoro, enfatico e tragico (cfr.
già la seconda poesia dei Frammenti: il «cipresso in
presagio di sepolcreta», ma poi gli autori – Dürer, Eschilo,
Shakespeare – e i luoghi – Merano, Dobbiaco, Bolzano, Tirolo, Cuma, Delfi).
La cultura è humus – e possibilità di riempire tutto
lo spazio metrico –, non ancora «verità intuitivamente colta». 3.
L’ostacolo critico di ora è la vicinanza: non si può ancora
capire se l’opera di fine/inizio secolo sia una grande opera o (solo) un
grande problema, e quindi (solo) un grande documento, anche negativo. Di
cui descrivere le modalità, semplificandolo per pudore, e non il
contenuto scritto, che forse è ineffabile (sacrale e rituale) dopo
la prima scrittura: nel caso di Ceriani, «la poesia dei frammenti
non è rinarrabile dal suo lettore. Si prenda dunque quel “dialetto
della Focide” come una particolare allusione all’atto di discendere e attingere
al tesoro limbico della mente (limbico, per usare un termine della neurobiologia,
dove si sa tutto e non si sa nulla), preformale – non sarà a caso
che limbico suoni non poi tanto distante da libidico»
(Gramigna). Altre cose possono essere formulate solo come domande per
il futuro: l’autoriduzione dolorosa (e sanguinosa: cfr. gli «emorroissi»
dei Frammenti) è un (nuovo) segno di sublime? O è
sublime il sogno dell’uscita dalla riduzione? Soprattutto, e pensando al
Principio del giorno di De Signoribus: il percorso della (nuova)
altezza è di nuovo allegorico? 4.
Lo Scricciolo è un discorso penitenziale espresso in una
contrazione ‘nostradamica’ e ‘focese’. La figurazione naturale è
scarnificata e vagamente ostile: «interdette / e segaligne e macilente
al confitèmini / terre» (Frammenti, p. 8), «terra
incolta indigentemente detta ghiotta / in una strada acquartierata di Susa
Saba Cana» (p. 20), «una valle inospitale, fredda e severa
nei suoi verdi esosi» (p. 33), «Se nel ceduo ti inselvi / perché
un armistizio di spaccamonti / lascia intatta e visionaria la serpe / nei
chioschi dei rovi» (p. 46): «L’erta che vuole è meno
ripida della china che nuole / come la strada che sale lo è meno
di quella che scende / quando l’aperto sentiero, tu!, tu affronti con suole…»
(Lo scricciolo, p. 9), «E se si spande corno e cenere per
un centuplo di lai / dal vicino lupanare suono d’Angelus nell’aria / tutto
quello che a lei chiedi e che dunque non avrai / è segnato sul registro
di una oscura tenutaria» (p. 13). «Da
parte a parte come la tunica a Cesare / fin nell’ossa il gelo infilzava
le strade / passava il villaggio… // Ma quella chiesa chiamò a genuflettersi
/ nel suo nome i fedeli, uno dei quali, il più stanco, / sulla miseranda
predella abbandonò le due ghette / per sguazzare coi piedi nudi
nel carbone del fango» (p. 23). I rimandi alla cultura sono selezionati
anche per produrre un effetto di sacralità non tradotta in fede
(e quindi in speranza), e a cui rimane solo il progetto autoriduttivo e
ossessivo della penitenza. L’invenzione figurativa è soprattutto
all’interno della mente, per cui il libro naturale è un repertorio
di passaggi interiori, espressi all’esterno con paesaggi, alberi e animali
(la montagna, il melo, la serpe, lo scricciolo, la «sororale rondine»,
ecc.). Questo
rispecchiamento non lirico delle cose in chi parla, e viceversa, è
fortissimo nella poesia a p. 42 dei Frammenti, che abbandona la
solita chiusura: Non
per inedia si salassa la
montagna dalla sua sedia stercoraria
di vermiglia invaria cima
che si decèrebra sotto
la flagellazione della
sommaria neve, de gli
appelli de’ suoi incercati allievi il
corvo che circoncide con stralunata lena il
bulbo della pieve, la lepre col suo sonetto funebre in
lode della cera se
nella muta ricorda
così da presso la bufera acuta
e alle provate stelle riconosce
che il telescopio stupra… Ogni
casa trema e il lume è già riserva e
se qualcuno bussa alla
tua casa, copulantesi col tuo uscio, o urta… Solo
ai vivi al mondo e
a chi custodisce la fiamma per protervia è
dato conoscere fino in fondo che
espressione userà l’inferno! 5. Riprendiamo
la triade operativa immaginata sopra: formularità, scansione e arcaismo
del «dotto enigma». In generale, possono essere anche gli elementi
‘diacronici’ di uno dei progetti irrazionali dello spazio letterario: la
liberazione dal male sfidato sul piano stesso della complessità
organizzata, la crescita e l’interpretazione della pietà e dell’intuito
(insieme agli altri animali-umani e umanizzati), la speranza (e quindi
una forma poetica di antagonismo, che – al limite – è intraducibile
in termini di dottrina politica: cfr. il punto 7 della prefazione di Piergiorgio
Bellocchio ai Saggi sulla politica e sulla società di Pasolini).
Oggi Ceriani sembra lavorare più ad un avvicinamento a tutto questo
che all’espressione di uno status positivo già raggiunto
ed espresso dall’interno. La vitalità non aumenta (cfr. Leopardi,
Zibaldone, 4450): in generale, tutto il grande lavoro poetico di
questi anni – Ceriani incluso – cerca
l’equilibrio (e una salvezza) tra irrazionalità del singolo, irrazionalità
del mondo e irrazionalità ritualizzata della letteratura così
come è arrivata fino a noi; anche per questo non si capisce se siamo
di fronte a un nuovo sublime o a nuovi problemi (e nuovi documenti).
(agosto
2001) 29
agosto 2001
Indice della sezione Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |