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Giordano
Genghini, Ritorni, Autoedizione, Monza 1999
«Il
Segnale» anno XX n. 60, ottobre 2001, p. 62
La
poesia di Genghini non ha molti punti in comune con la poesia di questi
anni: fugge il minimalismo, riesuma simboli ed analogie seppelliti da anni,
elabora una sintassi personale e ricca di invenzioni, e per finire crea
all’interno della raccolta una fittissima rete sia intratestuale che intertestuale. Già
il primo testo del libro chiarisce l’aspetto retorico e fonico: con una
frequenza ovviamente oscillante i testi trovano il loro collante in una
fitta trama di assonanze, allitterazioni, rime interne e non, ben studiate
per porre in rilievo in modo gentile ma forte il soggetto-simbolo: «Sarà
forse domani: con un fioco / soffio di mani: un fuoco / di specchi spenti:
insieme a me rimani / ancora un poco / in questi specchi della pioggia,
strani / specchi degli anni e dei millenni, persi / come in gorghi notturni
gli universi / dissolti: e il vuoto inganno degli inganni / ora alla fine
riconosce fine / di ripetuta fine: ed il segreto / in me sepolto tra venti
e rovine». Sovente queste poesie, come accade già nella seconda,
si compongono di una prima parte in cui il poeta nomina ed assegna analogie,
in un lento formarsi del panorama e precisarsi dei simboli, e di una seconda
parte come svolgimento-esposizione della propria concezione dell’universo.
Nel fare ciò la tecnica è quasi sempre quella della “brusca
microscopia”: da «lunghe navi luminose», «radure di mari»,
«immenso molo» (l’universo), a «minuscolo, sul palmo
della mano / bianca, insetto di brina: nel mattino / fragile, al volo».
E frequentissima è l’immagine dell’universo, della vastità
(a volte suggerita dai moti della natura: vento, mareggiate, ma anche esplodere
e cadere di stelle, formarsi di arcobaleni), del «vacillare di stelle
e pianeti», «arena di infiniti confini». Talvolta questa
microscopia si attua all’interno della stessa frase, con un effetto che
può essere di avvicinamento: «Astrali azzurri nomi, luci fioche,
/ petali tenui di rumore: graffi / di gesti, esile traccia». Genghini
dà un nome alle cose che non riesce a toccare e che sente lontane,
e così facendo cerca di avvicinarle. Tutto questo si svolge in un
reticolo di versi quasi sempre fedeli all’endecasillabo e al settenario,
musicalissimi ed assoggettati alla sintassi personale di cui scrivevamo. Da
sottolineare la violenza di molti versi, la generale sensazione di instabilità,
il senso di minaccia astratta, magari rafforzata dallo spettro di qualche
rituale assurdo ed illogico, di una costante lotta non con la natura ma
con i suoi simboli. Insomma un agitarsi forsennato attorno alla morte (scandito
da quell’«ancora» ricorrente che è sia durata che reiterazione;
e si veda anche la poesia 32, accumulo di apocalittiche situazioni), ora
in armonia ora in conflitto con il moto della natura. Ma dicevamo dei simboli: oltre ai corpi celesti sono fondamentali il drago (ora feroce, ora d’oro, ora liquido…), la «vetrata / nera, che annienta il suono» e il metallo, metafore della morte che a tratti si assommano. Assieme si consideri una significativa attribuzione dell’aggettivo «nero», «notturno» e simili, a creare una fosca atmosfera di morte ed immobilità, antitesi dei moti celesti e naturali. Vittima la vita, delicata come farfalla: «e in prati d’ali / sottile specchio si fiati scolora / al tocco delle dita». L’unica salvezza sarebbe una risposta, una voce che replichi al nominare-chiamare dell’autore, una «parola / regno di luce»: a conti fatti la vita, che illumina e parla, è calda ed ordinata. Basterebbe una piccola luce, come è scritto nell’ultima poesia: «è notte, e ascolto / le sillabe del cielo: le alte stelle / dove antichi nascemmo». 3
dicembre 2001
Indice della sezione Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |