Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
Giordano Genghini, Ritorni
di Sandro Montalto


Giordano Genghini, Ritorni, Autoedizione, Monza 1999
«Il Segnale» anno XX n. 60, ottobre 2001, p. 62
 

La poesia di Genghini non ha molti punti in comune con la poesia di questi anni: fugge il minimalismo, riesuma simboli ed analogie seppelliti da anni, elabora una sintassi personale e ricca di invenzioni, e per finire crea all’interno della raccolta una fittissima rete sia intratestuale che intertestuale. 

Già il primo testo del libro chiarisce l’aspetto retorico e fonico: con una frequenza ovviamente oscillante i testi trovano il loro collante in una fitta trama di assonanze, allitterazioni, rime interne e non, ben studiate per porre in rilievo in modo gentile ma forte il soggetto-simbolo: «Sarà forse domani: con un fioco / soffio di mani: un fuoco / di specchi spenti: insieme a me rimani / ancora un poco / in questi specchi della pioggia, strani / specchi degli anni e dei millenni, persi / come in gorghi notturni gli universi / dissolti: e il vuoto inganno degli inganni / ora alla fine riconosce fine / di ripetuta fine: ed il segreto / in me sepolto tra venti e rovine». Sovente queste poesie, come accade già nella seconda, si compongono di una prima parte in cui il poeta nomina ed assegna analogie, in un lento formarsi del panorama e precisarsi dei simboli, e di una seconda parte come svolgimento-esposizione della propria concezione dell’universo. Nel fare ciò la tecnica è quasi sempre quella della “brusca microscopia”: da «lunghe navi luminose», «radure di mari», «immenso molo» (l’universo), a «minuscolo, sul palmo della mano / bianca, insetto di brina: nel mattino / fragile, al volo». E frequentissima è l’immagine dell’universo, della vastità (a volte suggerita dai moti della natura: vento, mareggiate, ma anche esplodere e cadere di stelle, formarsi di arcobaleni), del «vacillare di stelle e pianeti», «arena di infiniti confini». Talvolta questa microscopia si attua all’interno della stessa frase, con un effetto che può essere di avvicinamento: «Astrali azzurri nomi, luci fioche, / petali tenui di rumore: graffi / di gesti, esile traccia». Genghini dà un nome alle cose che non riesce a toccare e che sente lontane, e così facendo cerca di avvicinarle. Tutto questo si svolge in un reticolo di versi quasi sempre fedeli all’endecasillabo e al settenario, musicalissimi ed assoggettati alla sintassi personale di cui scrivevamo. 

Da sottolineare la violenza di molti versi, la generale sensazione di instabilità, il senso di minaccia astratta, magari rafforzata dallo spettro di qualche rituale assurdo ed illogico, di una costante lotta non con la natura ma con i suoi simboli. Insomma un agitarsi forsennato attorno alla morte (scandito da quell’«ancora» ricorrente che è sia durata che reiterazione; e si veda anche la poesia 32, accumulo di apocalittiche situazioni), ora in armonia ora in conflitto con il moto della natura. 

Ma dicevamo dei simboli: oltre ai corpi celesti sono fondamentali il drago (ora feroce, ora d’oro, ora liquido…), la «vetrata / nera, che annienta il suono» e il metallo, metafore della morte che a tratti si assommano. Assieme si consideri una significativa attribuzione dell’aggettivo «nero», «notturno» e simili, a creare una fosca atmosfera di morte ed immobilità, antitesi dei moti celesti e naturali. Vittima la vita, delicata come farfalla: «e in prati d’ali / sottile specchio si fiati scolora / al tocco delle dita». L’unica salvezza sarebbe una risposta, una voce che replichi al nominare-chiamare dell’autore, una «parola / regno di luce»: a conti fatti la vita, che illumina e parla, è calda ed ordinata. Basterebbe una piccola luce, come è scritto nell’ultima poesia: «è notte, e ascolto / le sillabe del cielo: le alte stelle / dove antichi nascemmo».

 
3 dicembre 2001
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders