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PARLARE O NO DEI BRUTTI LIBRI? appunti per un’ingiuria Versiculos in me narratur scribere Cinna. non scribit, cuius carmina nemo legit. marziale, Epigrammi, III 9 In seguito ad una mia nota di lettura [1] sul libro Sui rotoli del mondo di Ferdinando Grossetti l’autore ha ritenuto opportuno inviarmi una lettera i cui toni ed argomenti - lo si capisce inequivocabilmente, dopo uno spoglio dell’arzigogolato ed ingarbugliato dettato - sono inaccettabili.Riassumo l’epistola a vantaggio dei lettori («Voce dal sen fuggita / più richiamar non vale»: Metastasio, Ipermestra, atto II, scena I). Inizialmente l’autore si chiede da quale «inconosciuto luogo della sconnessura mentale» sia mai sortito io, questo «esemplare di così compiuta ebetudine», questo «sventurato» che «mostra evidenti segni di scompensi psichici» e che dovrebbe essere sanificato, senza permettere che i suoi «frustranei e tragicomici deliri», che dovrebbero muovere a compatimento i lettori, trovino spazio su una rivista. Poi vira, affonda ancora il suo pugnale[2 e si chiede se la mia «insania» non sia dovuta a una «ingenita, pretemporale quanto inguaribile tara di rustica imperizia», e fa notare che in tal caso bisognerebbe immediatamente correre ai ripari. Ecco le sue proposte: innanzitutto bisognerebbe rinchiudermi in un «antro ben blindato» costringendomi «e almeno per trent’anni» a leggere di tutto, «da Lautréamont a Seattle», per cominciare, e poi a ritroso «fino alle origini del récit, in cerca delle sparse omeomerie». Qui converrà farmi allattare «da poppe a un tempo gonfie e generose, così che possa subito distinguere la gnosi dalla opinione». Infine, ed ecco che si intravede un discorso perfino degno di attenzione, cercare di farmi capire che «altri quesiti ormai si pongono e che non più sovviene l’“intelleggibile” della linea in superficie, ove magari dimorano narcisi e palpitano violini, perché da tempo arde il crogiolo dell’Era repente e annichilente, in cui favillano - e volitive - anche le ignite combustioni antiliriche». Fatto tutto questo, si passerà a constatare se io, cioè «l’ignominioso Montalto», abbia ancora voglia di esibirmi «in farneticazioni di scarto e smorfie imbarazzanti, di sicuro scaturite da una divulgata imbecillitas a configurarsi altro». Siamo ormai alla fine del referto epistolare: se tutto ciò non dovesse bastare che il «cretino», cioè sempre io, «paghi il fio con il pubblico ludibrio», faccia ammenda, si flagelli o sparisca. Ma non faccia una di queste cose prima di avere scandito, «ma con repetitio», «le note che alla presente si accludono, queste, sì, afferenti a quell’idea di lettura a lui [al cretino, cioè io] purtroppo per sempre preclusa». L’impressione che la lettera mi fece non fu buona. Nel plico c’erano le accluse note, ossia fotocopie di recensioni favorevoli al libro da me “stroncato”, sulle quali ritornerò in seguito. Quale sia il luogo mentale dal quale sono sortito non lo saprei dire, ma nei miei rari barlumi di lucidità sento che parte dell’accusa è indirizzata alla rivista. Dirò solo che ogni rivista decide di pubblicare ciò che vuole e soprattutto ha tutti i diritti di permettere a un collaboratore di parlare male di un libro (ossia di esercitare il suo intoccabile diritto/dovere di critica) se ritiene importante farlo. Ma di questo parlerò dopo. La seconda accusa è in sostanza un’accusa di ignoranza, la quale in un mix esplosivo con la mia imperizia ed inesperienza sarebbe la causa del mancato entusiasmo di fronte al libro che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto arricchire e forse anche dare finalmente un senso alla mia vita e alla mia attività, e che io ho invece così maldestramente rimosso dal mio evidentemente ristrettissimo panorama. Chi di noi, i lettori sani mi scuseranno la banalità, può non dirsi ignorante? Chiudermi in un antro ben blindato a leggere di tutto come lei suggerisce? Volentieri continuerò a fare una cosa simile, pur con tutte le mie innumerevoli, umane e forse ingenite imperfezioni, ricordandole però che, se anche potessi avere la fortuna di abitare un antro come la stanza della Dickinson dalla quale uscirono parole memorabili, altri potrebbero essersi rinchiusi in un’urna come quella nella quale l’Innominabile dell’omonimo romanzo beckettiano, deforme o informe, è costretto a parlare e vuole assolutamente parlare di sé con monotonia e logorrea («non tacerò mai. Mai»; «M’hanno fatto perdere del tempo, fallire il mio dolore, permettendomi di parlare di loro, quando bisognava parlare solamente di me, per poter tacere»). Ma l’Innominabile suo malgrado ci insegna che bisogna badare agli altri per poter parlare di sé, non bisogna concentrarsi narcisisticamente sulla propria immagine riflessa, anche perché - nel dubbio, ed il dubbio come insegnava anche Leonardo è il padre della conoscenza - come ammonisce Rabelais se vuoi evitare di vedere un cretino devi per prima cosa rompere il tuo specchio. Sulla differenza fra gnosi ed opinione non mi soffermerò, e così sulle poppe, in quanto credo di saperne qualcosina. Ma ecco arrivare l’unica accusa degna di attenzione: la mia ipotetica opposizione alla poesia sperimentale e la mia strenua difesa della poesia lirica, ossia la prova che Grossetti ignora del tutto il mio pensiero ed i miei scritti (certo non così importanti, ma il dovere di documentarsi...). Ad esempio sono perfettamente d’accordo con Raymond Queneau quando in Segni, cifre e lettere dice che «La poesia non si riduce al lirismo [...]. Scandalizzerò solo gli ignoranti e gli sciocchi ricordando che esistono dei generi poetici; e che Victor Hugo, pur essendo un “maestro delle metafore”, come dice Rolland de Renéville, ci ha lasciato convincenti esempi di poesia epica, e di poesia satirica, e di poesia comica, e di poesia didascalica. Sì: di poesia didascalica, genere particolarmente irritante per quelli che si pascono della propria ignoranza o sguazzano nella loro incultura al riparo [...] delle opere incomplete del giovane Isidore Ducasse (si pronuncia conte di Lautréamont facendo scorrere la lingua sul palato: riesce meglio)». Il quale Queneau dice anche, poche pagine prima: «Non c’è dubbio che cercare sia più facile che trovare. Mostrateci un po’ quello che fate. No, no, io cerco; se trovassi, mi addormenterei, ecc. Conosciamo la solfa. Sempre un principio di sterilizzazione, d’impotenza, ma illegittimamente esteso, perché l’arte consiste essenzialmente nel riuscire, nel presentare un’opera riconoscibile come tale». Non so se “non più sovviene l’intelleggibile”, penso sia purtroppo una cosa che nonostante tutti i nostri sforzi riguarda l’opinione e non la gnosi. So però che di Era, certo più adatta al mio contendente in quanto dea secondo Omero orgogliosa, facile ai litigi, ostinata e gelosa, e del suo ardente crogiuolo mi sono spesso interessato. E so anche di avere sufficiente interesse non autocelebrativo per tentare di distinguere la sperimentazione dallo sperimentalismo, la condivisione con i sommi dalla vacua ostentazione di reperti e brandelli bibliografici... Ed eccoci alla più divertente ed a un tempo grave parte della lettera: la flagellazione autopunitiva che dovrei eseguire come punizione per aver parlato male del Nostro. Non è escluso che un giorno di questi decida di espormi veramente al pubblico ludibrio leggendo in pubblico alcuni testi grossettiani fingendo di condividerne l’impostazione, ne terrò informato l’inquisitore. E’ con infinito dolore che rinuncio a commentare tutte le recensioni inviatemi: fare recensioni alle recensioni mi pare qui troppo, e non vorrei polemizzare con critici magari ottimi con i quali in questa occasione non mi trovo d’accordo. Certo però non posso non rilevare che i dati comuni a queste critiche sono la genericità, la confessione di ignoranza di fronte a un libro certamente geniale o il seppellimento del suddetto sotto una slavina di interpretazioni. Non così si critica: missione del critico è decidere se un autore merita un posto nella ipotetica futura storia della letteratura, e quale, e perché. Interpretazione, divagazione, interpolazione sono mire successive. Tuttavia alcuni passi sono molto significativi: 1) «quella del Grossetti è [...] una scrittura che si può leggere distrattamente, senza neppure chiedersi che cosa essa significhi, e che tuttavia riesce a parteciparci il suo ritmo [...] ed a mettere in moto, magari a vuoto, il meccanismo dell’immaginazione»[3]; 2) «Nel tentare di comprendere le liriche [...] di ardua lettura, strutturate e combinate-scombinate nelle forme più imprevedibili, mi prendeva forte il desiderio di mandare gentilmente l’autore a quel... paese. Poi, pensando che, se in fondo aveva “osato” pubblicare questa “trasgressiva” silloge, era pur vero [omnia munda mundis!] che egli riteneva di possedere un messaggio dotato di “senso” da comunicare agli altri [...]. Così, per non fare la figura di quello che “non ha capito niente” (come si suole definire del critico che non apprezza) [...] ho preso la saggia decisione di “meditare” su questi “vàgli e sfàgli”»[4]; 3) «Di fronte a tanta materia, conviene - al primo impatto - leggere senza capire: cercare una musica della difficoltà e abbandonarsi tra gli ostacoli-sfida. Poi - al secondo o terzo impatto - è giusto fermarsi, riflettere, spremersi, capire (se possibile)»[5]; 4) infine condivido in toto la bella recensione di Gianluca Paciucci[6], alla quale senz’altro rimando. Citerò con soddisfazione anche la puntuale e più recente recensione da me rintracciata su «Semicerchio» (XXII, 2000): il libro provoca una «ovvia sazietà» generata dalle «strutture verbali ossessivamente riproposte e coscientemente in bilico fra goffaggine e agudeza»; la profusione di ammiccamenti e l’«ipertrofica sfilata di tutti i Sefirot e i Sefer talmudici, i personaggi della mitologia celtica etc.», la «voglia di allegoria faragginosa e barocca» trovano il loro «comune denominatore nel cielo della tautologia»; occorrerebbe «indagare il bilancio della partita giocata [...] con il reale, che si trova espulso in fondo al libro nei panni di un glossarietto», e si scoprirebbe che «il libro non riesce da solo a consumare fino all’ultimo spicciolo di realtà ed ha bisogno di tali scialbe didascalie, di vestire i nudi panni di un referente esibito con perfino una punta di ingenua civetteria sensazionalistica». Forse provvederò a farmi altro male scandendo con repetitio anche i passi entusiasti di certi pezzi critici, magari ripensando a cosa il vecchio, agitato e tutto concentrato sul proprio ombelico James Joyce, preoccupato per la coincidenza della Guerra con la pubblicazione della sua ultima opera, disse a Jacques Mercanton: «Ma che lasciassero in pace i Cèchi e si occupassero di Finnegans Wake»[7]. Un Joyce ora pietosa vittima delle notti insonni trascorse a riscrivere passi del Finnegans «ancora non abbastanza oscuri». Segnalo infine che mi si manda anche copia del verbale del premio Lorenzo Montano XII edizione dal quale risulta che il volume incriminato è fra quelli su cui «la giuria si è dapprima soffermata», pur non essendo poi entrato in finale. Il premio Montano lo conosco ed apprezzo molto, ma magari un premio - per quanto faccia grande piacere - significasse automaticamente grande valore letterario! Errare è umano anche in caso di premi (ma ha senso qui discutere di una prima “presa in considerazione”?), i quali riguardano pur sempre l’opinione e non la gnosi. Ormai ho iniziato facendo il gioco di Grossetti, e mi tira per la giacca il desiderio di ricambiare gli insulti. Ma occorre fare bene le cose: est modus in rebus (Orazio, Satire, I, 1, 106). Vediamo. Non vorrei arrivare a dire che egli sia un seguace di Alfred Attendu, lo psichiatra francese che nel libro L’embêtement de l’intelligence (1945) sostenne che in ogni sua funzione e attività non necessaria alla vita vegetativa il cervello non è che una fonte di fastidi. Potrei dire che mira a realizzare la più grande bidonata letteraria di fine secolo, ma me lo impedisce il racconto Didling Considered as One of the Exact Sciences (1843) di Edgar Allan Poe nel quale è scritto che i fondamenti su cui poggia la “scienza della bidonata”, oltre a perseveranza, impertinenza, audacia e sogghigno che egli possiede, sono: minuziosità, interesse, perseveranza, ingegnosità e originalità. Avrei potuto sviluppare una recensione in cui analizzavo Sui rotoli del mondo memore del lavoro Le Mystère du Language. Les Sons primitifs et leurs Evolutions (1926) di Charles Callet (ne parla André Blavier nel suo ottimo Les fous littéraires, Henri Veyrier, Paris 1982) secondo il quale tutte le lingue attuali sono il frutto di quattro fonemi primitivi: il “meuglé” (muggito), il “grogné ed R” (grugnito in R), il “grogné en K, Gre, Gny” (grugnito in K, Gre, Gny) e il “sifflé” (fischiato), ipotizzando che fosse un nuovo tentativo di far derivare la lingua postbabelica da grugniti e magari rumori provocati dalla peristalsi. Ma ora basta gridare ed emettere rumori indecenti: non è dei rumori ma dei suoni che la critica deve interessarsi. Grossetti mi chiama «cretino». Ma la considero una definizione piena di tenerezza, ricordando che l’etimologia fa risalire il termine al franco-provenzale “crétin”, ossia “povero cristo”. Chi di noi, alla fin fine, non è - se non un “creten”, in vallese “cristiano” - un povero cristo? Non gli auguro inoltre di avere ragione, almeno alla luce della Prima legge del discorso, secondo la quale «Non bisogna mai discutere con un cretino: gli altri potrebbero non notare la differenza». “Pazzo” è da escludere: negli anni è avvenuto un rovesciamento del pensiero di Lombroso e si è giunti a pensare che, se i genii sono solo dei pazzi, allora i pazzi sono necessariamente dei genii. Troppo facile sarebbe dare all’autore dello “stupido”: non lo faccio pur conoscendo la terza legge della stupidità (Carlo Maria Cipolla, Allegro ma non troppo, Il Mulino, Bologna 1988) secondo la quale «Una persona stupida è una persona che causa un danno a un’altra persona o a un gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita». Idem dicasi per l’appellativo “demente” che potrei attribuirgli, magari ripensando a Rodolfo J. Wilcock che in La sinagoga degli iconoclasti (Adelphi, Milano 1972) narra di «trentasei esseri che, poggiando sulle solide basi della scienza o comunque di una qualche disciplina che si presenta rigorosa, o almeno su una qualche indubitabile intuizione, ne hanno tratto tutte le conseguenze e si sono mossi tranquillamente [...] verso la demenza». “Idiota”? No, non va bene. Troppo illustri i precedenti: l’“idiotologia” è la materia di insegnamento polemicamente attribuita da Voltaire a Leibniz. Ha proprio ragione Dostoevskij quando ne L’idiota (parte II cap. 10) scrive che «la natura è beffarda... Perché, dico io, perché crea gli esseri di elezione, per poi burlarsi di loro?». La ricerca di una giusta collocazione è estenuante. Che mi venga in aiuto Umberto Eco[8] il quale definisce “pensatore di quarta dimensione” un filosofo bizzarro e pseudoscienziato che «pubblica a proprie spese, odiato da tutti, tutti odiando e avendo il mondo in gran dispetto, conscio soltanto di essere il portatore di una verità che gli altri misconoscono»? Ma dove sono - e lo dico da colpevole, ne sono consapevole - i bei tempi degli Ernesto Ragazzoni, poeta che in Le mie invisibilissime pagine[9]afferma che il lavoro dei lavori è il “non scrivere”, il quale esortava: «le idee son fatte per rimanere idee [...]. Lasciatele al loro stato di puro spirito: è il solo modo per gioirne liberamente, il solo che permetta di avere la mente continuamente ventilata» e a quanto pare il solo, aggiungo io, che permetta di non sprecare energie rispondendo violentemente, più o meno caudati di paglia, a chi osa scrivere qualcosa di negativo su di noi, magari passarci un po’ troppo vicino senza avere fatto le dovute abluzioni in un lavacro anestetico. E se provassi a scendere al gradino più basso dell’invettiva? Provare con “asino”, o con “bovino”? Nulla da fare, esagerato il confronto. Il Salmo 73 dice: «Ut jumentum factus sum apud Te», “sono come un giumento davanti a Te, Signore”. San Bernardo commenta affermando che una certa somiglianza con le bestie da soma è consigliabile all’uomo: non quella che consiste nel non capire nulla, ma quella che consiste nell’imitare la loro pazienza» (approfitto dell’occasione per raccomandare a tutti di leggerle fino in fondo, le frasi). Sono sconfinato nel territorio biblico perché mi ha ispirato la citazione in cui l’autore cerca rifugio mettendola a p. 29: «Quia non erit impossibile apud Deum omne verbum» (Luca I 37). Sempre secondo la Bibbia l’asina di Balaam parlò in nome di Dio al profeta che recalcitrava davanti all’ordine divino, e tutto questo porta a pensare che non sia vero il detto secondo cui «raglio d’asino non giunge al cielo», e si può stare tranquilli. G.K. Chesterton compose una poesia in cui si immedesimava in un asino: «Io lacero, bandito della terra, / vecchio testardo, storto e ostinato; / voi m’affamate e colpite e irridete. / Muto, so custodire il mio segreto. / Sciocchi! Io pur l’ebbi l’ora mia solenne, / ebbi un’ora fierissima e dolcissima, / percosse un alto grido le mie orecchie, / e su rami di palma camminavo». Inventandomi ad hoc una fede cristiana auguro anche a Grossetti una sua Domenica delle Palme, ma non siamo qui per dilettarci con le feste comandate né per farci gli auguri. Insomma niente. Le regole del “Politically Correct” mi impediscono insomma di dire cosa penso della persona Grossetti, mi costringerebbero a giri di parole e frasi lunghissime, coinvolgendo diverse specializzazioni mediche, varie ed ineleganti zone del corpo umano... insomma dovrei usare espressioni anche divertenti ma inadatte a ciò che voglio dire in questo intervento. Piuttosto cosa dire del libro, tornando ad esso? Gioco enigmistico non è: manca il rigore, l’intelligenza dei veri enigmisti e ludolinguisti, il profondo significato che scaturisce dalla manipolazione in qualche modo aritmo-geometrica del linguaggio. Gioco enigmatico non è affatto, non è rivoluzione vera, vera eversione: infinita (ed incolmabile) è lontananza di Grossetti e della sua concezione dagli autentici eversori del linguaggio, siano essi Aristofane, Plauto, Catullo, Jacopone, Rabelais, su su fino a Joyce e ad un certo Gadda, a Majakovskij e Chlebnikov. Maledire gli dèi che hanno impedito ai redattori di rifiutare la pubblicazione? No, anche qui troppi precedenti illustri (tratti dal volume Rotten Rejections di Andre Bernard, Pushcart Press) nonostante alcuni giudizi possano calzare: così il lettore di una casa editrice commentò Zuleika Dobson (1911) di Max Beerbhom: «Non credo ci interessi. L’autore è più stimato da se stesso che da chiunque altro e non ha mai raggiunto livelli notevoli nel suo lavoro letterario». Su La fonte sacra (1901) di Henry James: «Dà decisamente sui nervi... Illeggibile». Su La guerra dei mondi (1898) di Herbert G. Wells: «Un incubo senza fine. Non può funzionare. Per carità, non leggete questo libro orribile». Nel famoso aforisma 93 di La gaja scienza Nietzsche fa dire a un personaggio che scrive perché non ha trovato finora altro mezzo per liberarsi dai suoi pensieri, per poi affermare che non sa il perché debba liberarsene: a suo parere deve farlo, e basta. La palude sulla quale Grossetti ha costruito le sue posizioni sarà quella Palude definitiva (Adelphi 1991) dalla quale Giorgio Manganelli ci dice di aver cominciato a scrivere perché incapace di legarsi le scarpe, e quindi inadatto alla vita? Se la letteratura, come figlia della riflessione, prende origine solo e sempre dalla realtà, dalle cose, ecco spiegata questa simil-poesia. Sono a questo punto del mio intervento e non ho ancora deciso un definitivo appellativo da dare all’autore, né uno per il suo libro. Rinuncio, e mi limito a consigliargli (absit iniuria verbo) di fuggire la superbia: ricordi Dante (Purgatorio, XI 88-102): «Di tal superbia qui si paga il fio; [...] Oh vana gloria de l’umane posse! / com’poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l’etati grosse! / [...] Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato». Ricordi la conferma del Petrarca (Trionfo del tempo, 112/114): «Passan vostre grandezze e vostre pompe, / passan le signorie, passano i regni; / ogni cosa mortal Tempo interrompe». Razza suscettibile i poeti, ben lo sapeva Orazio (Epistole, II, 2, 102): «genus irritabile vatum». Cave canem! Ma Grossetti non merita più spazio. Quando la superbia è tanta l’ironia sottile non si addice, lo insegna - uno per tutti - Socrate. Il paragone, però, è ovviamente imperfetto. Chiuderò citandone uno molto più adatto, di cui mi sono ricordato dopo aver letto la lettera: si tratta di una celebre risposta riportata da De Quincey. A un gentiluomo, durante una disputa, venne gettato un bicchiere di vino sul viso. L’aggredito non si scompose e disse all’aggressore: «Questo, signore, è una digressione; attendo il suo argomento». Mi limiterò ora a prendere spunto da questa piccola polemica per sviluppare alcune considerazioni più generali. Quando ho aperto il libro di Grossetti sono stato preso dall’irresistibile desiderio di scagliarlo fuori dalla finestra: desiderio che notoriamente prese anche Vittorio Alfieri quando lesse il Galateo di Della Casa, affermando che un libro che cominciava con la parola «Conciosiacosaché» non aveva diritto di essere letto. A me la ventura di aprire un libro che, dopo una serie di citazioni e la fondamentale avvertenza che fra l’altro il «glossarietto finale [è] compilato regolarmente in ordine alfabetico», così principiava: «...e per le idi del vico le ire / e il limo / a vino imo / arranco / per appurar de visu / i siti / l’ulìgine / ou de la comédie / i nefàri divi x il fio / di scena afèlica denegano / nell’epoptèa / la platea». Mi accadde poi la stessa cosa che capitò ad Alessandro Carrera[10]: mi sono reso conto di essere di fronte ad un Poeta Atroce. Scrive Carrera che «il poeta atroce è il reietto della poesia, è la corte dei miracoli, la Caienna, l’Isola del Diavolo, il freak show della poesia, è l’escrescenza di una galla maligna su un tronco già malato. [...] La poesia inflessibilmente atroce [...] ha un unico vantaggio: che si riconosce subito». Parrebbe quindi facile scansarla, ma in realtà «spinge a farsi leggere tutta. Il lettore vuole sapere se c’è un limite». Insomma anch’io ho deciso di fare il gioco del Poeta Atroce: da lettore scandalizzato ho almeno voluto mettere in guardia gli altri lettori dal Volume Atroce. Purtroppo «il poeta atroce per lo più non sa di essere tale, non conosce la perversa elezione che lo rende raro, non lo capisce nemmeno se gli viene detto in faccia. Il problema è che, dato il timore quasi superstizioso che la sua figura incute, non gli viene detto quasi mai. [...] Sulla poesia atroce dovrebbe pesare la congiura del silenzio. [...] Eppure sarebbe una vigliaccheria. Il poeta atroce, a suo modo, ha un’oscura funzione nel disegno della poesia universale. C’è un secondo principio della termodinamica anche per il linguaggio, una morte lenta e penosa [...]. Il poeta atroce, che crede di essere sempre all’avanguardia, sempre sulla cresta estrema delle nuvole gassose dell’ispirazione, è l’inconsapevole cantore dell’entropia della lingua, il ramazzatore incosciente dei detriti linguistici spenti, la cui energia si è interamente dispersa e non potrà più essere utilizzata. E’ un potente memento mori». Il 26 marzo, lo stesso giorno in cui ricevetti l’infausta epistola, venne pubblicato sul «Corriere della Sera» un intervento di Paolo di Stefano dal titolo L’intellettuale? E’ finito. Ad esso sono seguiti per alcuni giorni interventi di importanti personaggi della cultura. Non riassumo: citerò solo alcuni passi significativi. Dopo un confronto con i vari Fortini, Pasolini, Barthes, Strehler e Sereni, Di Stefano si chiede: «dove si nascondono oggi gli intellettuali? Con chi discutono, con chi litigano, che cos’hanno da consigliare, chi incontrano [...]?». Risponde Franco Ferrarotti (27-3-2000) che l’intellettuale non è finito, anche se occorre ribadire l’esistenza del fenomeno definito MSA, «Mutual Admiration Society»: io recensisco te e tu me, io recensisco me nel giornale su cui scrivo abitualmente, tu parli di me che parlo di te... Rilancia Sebastiano Vassalli (28-3-2000) affermando tra l’altro che no, non c’è più nessuno disposto a litigare per un libro. L’impegno intellettuale, che «è difficile se cerca davvero di corrispondere alle due parole che lo definiscono: “impegno” e “intellettuale”», è anche «controproducente ai fini del quieto vivere e della carriera di chi lo esercita, ed è anche quasi sempre inutile». In questo paese, dice Vassalli, contrariamente a quanto si dice nel poemetto Acerba di Cecco d’Ascoli «tutti cantano “al modo delle rane”: in coro. [...] Ogni dubbio (raro) viene vissuto come una lacerazione schizofrenica». Cito da un articolo di Francesco Erbani[11]: «Più libri si pubblicano, decine e decine ogni giorno, belli e brutti, consistenti ed evanescenti, più scompaiono le recensioni [...]. Fra il 1884 e il 1922 la Rivista storica italiana, periodico fra i più carichi di glorie accademiche, recensiva mediamente 206 libri l’anno. Oggi appena una trentina. [...] Le cause? [...] i direttori delle riviste non hanno più tanta voglia di rischiare. E discutere criticamente di un volume è essenzialmente questo». Insomma non è più possibile fare vere stroncature, ispirate da autentico raccapriccio? O si parla bene di un libro o si cercano vie alternative di protesta, occorrerà fare come Vittorio Imbriani che nel 1865 solo alla fine di uno sterminato articolo dedicato alla confezione di un libro di filosofia hegeliana (bollo postale, corda, carta, colori...) decideva di citarne il titolo, senza aggiungere una parola sui contenuti? O come Borges che come protesta contro un libro dalle tesi antisemite scrisse una recensione interamente dedicata alle illustrazioni, adeguandosi alla notizia che in Germania la critica era stata vietata ai critici, i quali potevano solo descrivere[12]? O come Giuseppe de Robertis che, facendo nel 1914 una recensione al libro I canti del cùculo di Giuseppe Ravegnani scrisse: «l’autore ha messo una sillaba in più nel titolo»? C’è chi si è lamentato della mancanza delle “belle stroncature di una volta”, e dopo le vacche magre sono tornate quelle grasse. Ma si stroncano solo i libri già stroncati da tutti, o quelli che per quanto brutti assicureranno all’autore e allo stroncatore (oh, enigmi!) una discreta notorietà. Insomma qual è il senso della stroncatura? Ha senso farla? Rispondo con Umberto Eco[13]: «Sì, se la stroncatura è rara - e quindi fa un botto - e se si esercita su bersagli importanti (un autore già bravo che ha fatto fiasco, un autore che secondo il critico non ha diritto alla sua fama, il lancio esagerato di un modesto esordiente). A stroncar troppo e tutti si ottiene un solo risultato: che la gente si diverte. Ma si diverte anche se si tirano torte alla panna sul volto di un signore non consenziente». Ho la sensazione che stroncare il libro di grandi autori ed editori serva solo al critico famoso. Il pessimo libro del piccolo editore è invece quasi automaticamente condannato all’oblio (e così il libro bellissimo del piccolo editore) e qui entrano in gioco le riviste letterarie, che esistono per portare alla luce i pochi testi meritevoli. Ma un altro loro compito è non tacere di fronte ai libri così brutti da investire una serie di argomenti e concetti che ogni onest’uomo letterato dovrebbe sentire il bisogno di difendere. Oggi sono graditi solamente, sembra, quelli che come è ben noto nel linguaggio editoriale anglosassone si chiamano “blurb”: testi elogiativi solitamente brevi richiesti ad un noto personaggio che stima l’autore di cui dovrà scrivere (o al quale deve dei favori) destinato ad apparire nelle sovracopertine dei libri fin dalla prima edizione. L’autore ottiene un commento-elogio sperticato da parte di un noto personaggio ed il blurbista (che lavora gratis salvo rare eccezioni) consolida la sua fama siccome hanno questa attività solo personaggi stimatissimi. Inoltre il blurbista è così avvezzo alla pratica dell’elogio generico che non gli è più nemmeno necessario leggere il libro, lo sfoglia. Il risultato? Il critico ha fatto una cosa lecita siccome i lettori dovrebbero sapere benissimo che il blurb è per definizione positivo; l’autore si sente in pace con i residui della sua coscienza perché si è sottoposto ad un pratica secondo lui indispensabile, ineluttabile e tutto sommato innocua; il lettore, per quanto dica di sapere benissimo come vanno le cose, viene spesso imbrogliato. Ma cosa sta succedendo? Blurb espansi diventano articoli e recensioni su rivista. Occorre un generale risveglio per arginare questa soporifera consuetudine, e per fare questo riprendano vita tutti coloro i quali (e sappiamo che non sono pochi) si dedicano alla letteratura, come diceva Dylan Thomas, «non per ambizione o pane, o per superbia o traffico di grazie su palcoscenici eburnei». Leggere poesia (come autori, come lettori, come critici o come redattori) è consegnarsi all’alterità, significa essere invasi in modo consenziente dalla voce altrui. Leggere poesia è una disciplina rigorosa, così come è rigorosa disciplina scriverla e scriverne. Spesso invece si scrive (come autori o come critici) per non leggere: come il Bernardo Soares di Pessoa (Il libro dell’inquietudine), si scrive per non cedere alla tentazione di riflettere.[1]
Questo ambizioso volume di Grossetti (ordinario di storia ed estetica musicale ed autore di diversi studi musicali) è un libro che in modo sospetto si ammanta di cripticità, che nasconde sotto l’ombra di numerose e preziose citazioni il suo tentativo di spacciare per poesia una serie di esercizi che ci sembrano ben poco utili anche sotto un’ottica strettamente di analisi linguistica o di indagine sulla fase prelogica (la dicitura “poesie” non appare, ma l’autopresentazione apre con la frase «Il poeta non è un anacoreta afono... e non ama stare col silenzio en silence», citazione da Sebastiano Ardyas de Arauca). Anche gli altri tentativi “non poetici” sono falliti: vedi ad esempio i calligrammi come Tilt in clessidra, o i testi come Stocastica AAA nei quali scampoli di mesostici vorrebbero forse rievocare - essendo l’autore un esperto di musica quale però non conosciamo e qui non possiamo valutare - John Cage o Iannis Xenakis, che in questo caso proprio non invidio. («Il Segnale», XIX 55, febbraio 2000, p.53) [2]
«il pugnale [...] a volte mi fa pena. Tanta durezza, tanta fede,
tanta impassibile o innocente superbia, e gli anni passano, inutili»
scrive Borges in Evaristo Carriego
[8]
L’industria del genio italico, in: Valerio Riva (a cura di), L’Espresso
1955-85. 30 anni di cultura, Editoriale L’Espresso, Roma 1985
[12]
la si trova nel volume Testi prigionieri (Adelphi, Milano 1998,
p. 122), fondamentale per chiunque voglia dedicarsi alla militanza critica.
Il brano è stato pubblicato in Internet dalla rivista «Poiein» ( www.pignet.it/poiein ). Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |