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Antonio Spagnuolo, Rapinando alfabeti L’Assedio della poesia, Napoli, 2001, pagg. 95 Con
“Rapinando alfabeti”, la tappa più recente e in limine della
sua ormai lunga produzione poetica, Antonio Spagnuolo raggiunge l’esito
estremo di un lavoro sul testo e sul suo senso. Opera di scavo nei meandri
della coscienza, con un chiaro correlativo nella realtà esterna,
che risulta essere, in ogni componimento dell’organica raccolta, un vero
e proprio esercizio di conoscenza, sempre sorretto da una forte coscienza
letteraria e da una costante tensione etica verso la vita e il suo fluire,
riflesso di una poetica che esprime una poesia alta, tale anche
per la sua forte originalità, attraverso un dire e un dirsi,
uno svelarsi che, frutto di una ricerca che dalla vita passa alla poesia
e, viceversa, presenta l’unicità di una voce che si fa sangue, acqua,
grido, spesso illuminazione, sorretta sempre da uno stile rigoroso e unico,
pure
nella grande varietà di accenti e tematiche, che l’autore
propone. E’ nel giusto, dunque, Plinio Perilli, autore di una profondissima
prefazione-saggio al testo, nella quale analizza anche le opere precedenti
del poeta, nelle sue osservazioni e nei suoi richiami, che analizzano acutamente,
in filigrana, lo spazio e il tempo di questa felice poetica: per esempio,
come mette chiaramente in luce lo stesso Perilli, con magistrali riferimenti
all’estetica Rilkiana, uno dei maggiori traguardi raggiunti da Spagnuolo,
tanto più lodevole vista la magmatica incandescenza della materia
che ci presenta, è quello che si potrebbe approssimativamente definire,
un certo distacco da essa: qui Perilli si riferisce a quanto ci dice Rilke
sulla necessità del poeta e dell’artista in generale di non mettere
troppo amore nell’atto creativo, così che, una qualsiasi opera
d’arte posa nascere e delinearsi, fino alla forma finale, senza un’eccessiva
soggettività del suo autore, pur senza essere del tutto impersonale.
Il titolo del testo, del resto, “Rapinando alfabeti”, pare essere esso
stesso programmatico delle intenzioni dell’autore: il poeta sente su di
sé la forza dirompente della parola, fin nella sua unità
minima, la lettera singola, cellula aggregativa del discorso e, allora,
preso dal momento creativo, deve trovare la giusta maniera del dirsi e,
per non essere spiazzato, deve, appunto, rapinare alfabeti, trovare
tra le infinite possibilità espressive della lingua un approdo testuale,
creare qualcosa ex-novo, un tessuto che superi lo spazio e il tempo,
che si incaselli senza sforzo, tra detto e non detto.
Notevole
elemento, nella cifra di Spagnuolo, una forte dose di fisicità,
che discende sia dall’icasticità di ogni singolo sintagma messo
in gioco, pur nella sua leggerezza, sia nel suo confronto continuo con
una corporeità, legata all’io poetico stesso e a quel tu, (si potrebbe
pensare a delle interlocutrici): ma forse proprio qui si scopre una chiave
forte per accedere alla comprensione della raccolta, quando il corpo, nelle
sue parti, descritte sempre con un certo erotismo, una tensione liberatoria,
si fa appunto parola, estremizzata nella traccia indelebile della scrittura:
del resto ciò non è assolutamente estraneo alla professione
di medico dell’autore, nel suo essere stabilmente a contatto con l’alterità
al suo stato strutturale, appunto quello fisico; quindi il gioco si dipana
tra sofferenza e gioia che si fanno scrittura, rapinando appunto quegli
alfabeti, che, del resto, il poeta, come tutti, si ritrova nell’esperienza
quotidiana in ogni minima percezione che inevitabilmente si fa vita. Rispetto
ad altre esperienze poetiche dell’autore, qui il discorso pare essere più
chiaro,
pur
rimanendo sempre la matrice prelogica, che però è solo un
punto di partenza, una condizione iniziale: ma si deve badare a non confondere
la chiarezza dell’autore, con una semplificazione del dettato, proteso
a una linearità dell’incanto o tanto meno a un lirismo: c’è
sempre invece un io sofferto, teso a cogliere con una parola carica di
significati, anche aspetti positivi della vita. Molto
interessante, poi, quella capacità di Spagnuolo di riflettere, nello
scrivere, proprio sullo stesso fare poesia elemento che rende sempre
stabile e affascinante, la partita con il lettore; E che è
sempre coerente con il titolo della raccolta:-/ Disseziono parole per vendetta/
confuso tra le crepe del silenzio/ e gioco con le insidie delle labbra.
/ Franano gli inganni su la storia/ che attende, oltre il debutto della
fantasia/… E
qui tutta la forza della tensione creatrice di cui si diceva:…-
“ E… sono un libro inferocito/ sul racconto dei figli ormai impazziti//.
/Ed il mio nome strappa meridiane,/ avvinghiando l’insonnia alle pareti//.
Contro le vele e gli archi/ hai programmi d’angoscia/, pronta a sezionar
le maree//.Seguendo un suo modello,
una sua stabile tensione tra una rigorosa affabilità raziocinante,
metafisica, e un modello più novecentesco, nel senso meno usuale
del termine, cui potrebbe adattarsi la formula simbolistica-ermetica della
poetica
della parola, come ha giustamente affermato Giovanni Roboni, Spagnuolo
elabora continuamente un versificare teso verso il superamento delle gabbie
di un quotidiano, che emerge tra assoluti di lacerazione e di ricomposizioni
dell’esistente, tra messaggi destinati a quel tu
che si diceva,
o, comunque, sempre a se stesso, nell’indagare le possibilità di
un riscatto sotteso unicamente alla possibilità della genesi poetica,
etimo tra ricerca di trasgressione che si fa parola, di scommessa vinta
solo attraverso lo scarto poetico, per progredire verso una forma di vita
e realtà pienamente umana.
22 dicembre
2001 Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |