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Questo
agile quanto approfondito saggio[1]
di Michele Croese, laureato in lettere, diplomato in pianoforte ed organo,
concertista, revisore ed insegnante, parte da una grande suggestione: l’esistenza
di alcune analogie fra l’opera di Bach e quella di Dante, nella fattispecie
soprattutto fra il Sanctus della Messa in si minore di Bach
e i canti del Cielo del Sole nel Paradiso dantesco, messi in relazione
attraverso chiavi di lettura offerte dalla Bibbia e da alcuni testi basilari
della cultura classica e religiosa medioevale (principalmente saranno citati
Institutio oratoria di Quintiliano, De musica di Agostino
e De institutione musica di Boezio), nonché alla luce dei
tratti che li uniscono «sub specie aeternitatis: la sintesi
e la fede»[2].
L’impostazione critica del lavoro, la cui trasparenza e scientificità
hanno molto da insegnare anche a illustri saggisti, deve i suoi passi iniziali
alle istanze di Leo Spitzer, Ernst Robert Curtius, Erich Auerbach ed Claudio
Guillén per quando riguarda i “modelli di sovranazionalità”
(tre condizioni: premesse culturali comuni, casi di autori geneticamente
indipendenti ma con situazioni storico-sociali analoghe, autori geneticamente
indipendenti ma accostabili sulla scorta di principi derivati dalla teoria
dela letteratura); ma il volume si avvale del supporto di non pochi studiosi
e pensatori antichi, moderni e contemporanei, a volte citati con il proposito
di operare una documentata smentita.Il dato
iniziale è che i due Grandi hanno dato vita nei rispettivi campi
ad un’opera mirabile di sintesi di ciò che era stato fino ad allora
raggiunto portando il tutto ad un vertice ed esaurendo le forme espressive
del loro tempo; l’incrollabile fede che li unisce ha portato all’identificazione
delle due parti di opera sulle quali concentrarsi, ambedue «proiezioni
dell’ordine e della volontà divina e – inevitabilmente – di un bisogno
personale e urgentissimo di infinito».
Questa
suggestione, che come l’arte stessa nasce da qualcosa che non può
essere presentato per «categorie esclusivamente razionali»,
è qui svolta con abbondanza e precisione di riferimenti testuali
e musicali, mai compiaciuta nella meticolosità ma precisa e non
semplicistica, e soprattutto non pretende di creare un’equazione (secondo
Mandel’štam e Gould citati in esergo, leggere Dante è «prima
di tutto un lavoro interminabile» e Bach «trascende tutti i
dogmi artistici, tutte le questioni di stile, tutte le sterili e frivole
preoccupazioni dell’estetica»), bensì intende sciogliere almeno
parzialmente un nodo affascinante che incrementi le riflessioni sugli studi
comparati «oltre i confini consueti di una sola arte», insomma
sulla necessità di un operare metastorico e interdisciplinare. Il
primo passo è indagare quanto Bach abbia attinto alla retorica del
suo tempo e quanto Dante alla musica, infilando una degna stoccata a chi
in passato ha conferito dignità e sistemazione teorica alle riserve
sull’ultima cantica dantesca, per poi esplicitare come ambedue gli autori
abbiano intrecciato varie esperienze per giungere ad un personalissimo
rapporto con la divinità ed il proprio tempo: Dante fustigatore
della chiesa di Roma e Bach che nella citata Messa attinge al patrimonio
gregoriano proprio nel Credo, trattandolo per di più «secondo
quello che veniva all’epoca definito lo stylus gravis, e cioè
secondo i principi della polifonia cinquecentesca di Palestrina, genialmente
rivisitata», ossia un ponte gettato al contrario verso il cattolicesimo
in nome di una «spiritualità superiore». Inoltre si
consideri che la Messa è per vari motivi è ineseguibile
durante una liturgia, e che Bach la sistemò quando economicamente
non ne aveva bisogno, essendosi dal 1730 praticamente negato ogni composizione
sacra, facendone così una testimonianza che sfonda la barriera creata
dalla “laicizzazione” spesso operata di composizioni come Arte della
fuga o Offerta musicale. Un’autentica esigenza interiore, così
come fu per quell’immensa opera contrappuntistica qual è il Paradiso,
che accomuna i due autori, ambedue vissuti in situazioni storiche di passaggio,
nonostante siano separati nel tempo da «l’Umanesimo, il Rinascimento,
il Barocco e la Riforma» (ma a monte di ambedue c’era il patrimonio
comune della «letteratura classica greca e latina, la patristica,
la scolastica e naturalmente – e soprattutto – la Bibbia», testi
che in passato erano anche vissuti anziché essere solo, come oggi
avviene, studiati a distanza). Qualcosa di simile fece Beethoven con la
sua Missa Solemnis, secondo un’osservazione di Geiringer[3]
ripresa da Basso[4]
(due studiosi centrali nella presente opera), il quale sottolinea come
in Bach sia evidente la concordantia oppositorum che trascende ogni
questione confessionale e convenzionale. Croese
passa poi a fornire alcuni cenni sulle circostanze della lunga e complessa
composizione della Messa
sottolineando la stretta rispondenza che
vi è in Bach fra testo e musica ben al di là del “mestiere”
che è proprio di ogni buon compositore, il che avviene in modo particolare
nel Sanctus qui preso in esame, analizzato alla ricerca in qualche
modo dei «processi mentali che determinarono la creazione in riferimento
ai significati del testo». Da qui iniziano a snodarsi i possibili
collegamenti fra la cultura dantesca, che si sa essere stata onnivora e
comunque comprendente la musica che era materia del quadrivio, e quella
bachiana, più ristretta al proprio campo ma debitrice agli stessi
testi: si veda ad esempio la lettura del citato testo di Boezio, da Dante
studiato, che estese «le sue estreme propaggini fino ai teorici musicali
tedeschi del XVIII secolo» e che Bach probabilmente lesse. Le prove
che Croese fornisce si basano sull’individuazione di terzine del Paradiso
che rimandano inequivocabilmente a certe definizioni boeziane, ad esempio
la definizione di “consonanza” o la definizione dell’armonia come “dissimilium
concordia”, e che diventano in Bach «la definizione normativa
di contrappunto» determinandone la peculiare “condotta delle parti”
in un brano polifonico (segue una serie di convincenti esempi musicali,
con estratti di partiture). Altre terzine del Paradiso sono individuate
quali applicazione poetica o descrizione ad esempio del “moto obliquo”
(VIII, 16-18) o della forma di polifonia vocale medioevale detta “organo”
(XVII, 43-45). Ciò non deve stupire, se si pensa alla trama della
polifonia come ideale simbolo o realizzazione del «disegno organico
della provvidenza per il futuro di Dante e della sapienza che lo ha concepito»
(vedi anche Par. VI, 124-126); Boezio definisce la musica anche
“scienza delle proporzioni”. Alla prevedibile obiezione che già
Palestrina aveva concepito simili procedure, poi portate alla perfezione
da Bach, Croese risponde che Palestrina era in primo luogo musicista che
si esprimeva in una “lingua” concepita per il proprio tempo mentre all’epoca
di Bach i severi precetti del contrappunto erano già considerati
obsoleti e diventano chiaramente una scelta consapevole e precisa, ed in
secondo luogo che «la sintesi verticale del contrappunto che propone
Bach si fonda sul sistema armonico tonale, quel sistema che ai tempi
di Palestrina si cominciava a codificare, e che dal Seicento in poi sarà
la grammatica del linguaggio musicale fino ai primi del Novecento».
Così Croese soddisfa anche la prima condizione di Guillén
e inaugura un percorso storico a lato di quello metastorico all’inizio
progettato. Nei
capitoli II, 5 e II, 7 l’autore, dopo aver illustrato la cultura di Bach,
argomenta su due interessanti incontri che occorsero al compositore: quello
con Johann Gottfried Walther, musicista, compositore e lessicografo proveniente
da studi di diritto e filosofiache Bach
conobbe a Weimar e dal quale ricevette molte informazioni sulla retorica
musicale, e quello con Johann Mathias Gesner, considerato oggi uno dei
pionieri della filologia classica e rettore a Lipsia della Thomasschule,
della quale Bach assunse l’incarico di Kantor, che riuscì a far
sollevare il compositore da ogni incarico extramusicale consentendogli
di lavorare con maggiore libertà. Gesner fu anche traduttore della
Institutio oratoria di Quintiliano, testo chiave per la musica barocca,
e in un passo del suo commento riservò a Bach un omaggio notevolissimo
che certamente lo spinse a leggere questo trattato. A questi incontri si
aggiunga ovviamente quello del 1747 a Potsdam con Federico II, dedicatario
dell’Offerta musicale, cultore di musica ed autore di quel tema
sul quale chiese a Bach di improvvisare, ottenendone un parziale rifiuto
che Croese legge all’insegna di Quintiliano nel capitolo II, 8. Altra lettura
interessante è quella dell’importanza del numero 14 in Bach: egli
si iscrisse alla prestigiosa Sozietät der Musicalischen Wissenschaften
molto tardi (Telemann, Haendel e altri lo erano da tempo) presentando per
l’ingresso l’Offerta musicale, e risultò essere il quattordicesimo
iscritto; potrebbe non essere un caso, siccome sommando «i numeri
che le lettere del cognome Bach assumono nell’ordine della sequenza alfabetica»
si ottiene 14; secondo alcuni critici poi tale numero ritorna in molte
composizioni, determinando anche il numero di note dei temi. Croese sa
certamente come Bach abbia inserito nelle sue musiche temi o frammenti
di temi corrispondenti al proprio nome (le lettere B, A, C, e H simboleggiano
4 diverse note) secondo un procedimento che molti grandi musicisti poi
ripeteranno; inoltre, nel volume I Bach di Karl Geiringer, altrove
da lui stesso citato, la tavola 31 riproduce il manoscritto dell’ultima
pagina dell’Arte della fuga nella quale una nota autografa del figlio
Carl Philipp Emanuel Bach annota: «a questo punto, dove il nome B.A.C.H.
doveva entrare come controsoggetto della fuga, l’autore è morto».
Ma Croese omette di notare che il numero 14 è importante anche in
Dante, oltre ovviamente al 3: il poeta nacque un 14 maggio (probabilmente)
e morì un 14 settembre (secondo Boccaccio, mentre secondo Giovanni
del Virgilio e Meneghino Mezzani, secondo Petrocchi[5]
più attendibili anche se non è da escludere un’ipotesi intermedia,
il 13), fu esiliato da Firenze con 14 compagni, uno dei quali, ricordato
nella Commedia (Lapo Salterello) ha il nome di 14 lettere, così
come Virgilio Marone, Tommaso D’Aquino, il suo “maestro” Brunetto Latini,
il suo mecenate a Ravenna Guido da Polenta, lo stesso Dante. E poi la Commedia
ha in ogni canto una media di circa 140 versi (per la precisione 142),
per un totale circa di 14000 (per la precisione 14235). Ma non pare consigliabile
proseguire su questa strada, essendo la numerologia una disciplina ambigua
e spesso discutibile, e comunque Croese stesso più avanti cita un
saggio di Curtius che rileva l’importanza numerologica anche nella letteratura. La
Riforma arrivò a considerare la musica “ancilla theologiae”:
è nota la predisposizione di Lutero per la musica, e l’attenzione
di Bach verso molti dei corali da lui raccolti, e il legame fra il testo
e la musica che allora tanto interessava – possiamo dire – creò
il terreno fertile per la “retorica della musica”, campo che Boezio già
in qualche modo anticipava definendo “musicus” colui che è
in grado «non solo di considerare e dominare l’aspetto speculativo
del fenomeno musicale, ma anche chi ha la facoltà di giudicare convenientemente
de poetarum carminibus». Inoltre Agostino aveva giàdefinito
la musica come un aspetto della Verità Divina, non conoscibile nella
sua perfezione e armonia se non attraverso la musica che diviene così
strumento privilegiato, tra l’altro portando Dante a concepire come massima
espressione della gioia dei beati il canto. Si ricordi inoltre come nella
Commedia la monodia sia cosa negativa (probabilmente perché
«nella sua forma di espressione più alta è lirica»,
fin dai greci espressione legata ai sentimenti dell’uomo e quindi alle
cose di questa terra) mentre dal Purgatorio il canto inizia a farsi
corale fino a giungere alla beatitudine e alla polifonia della terza cantica
(si approfondisca comunque il capitolo Sulla musicalità del verso
dantesco). Nel capitolo II, 6 Croese spiega con facili ma efficaci
esempi musicali (dal Magnificat
BWV 243) cosa sia la retorica della
musica, illustrando tra l’altro come là dove il soprano canta “humilitatem”
la melodia a frasi discendenti sembri inchinarsi; o, meglio ancora, come
nella bellissima e complessa parte Fecit potentiam in brachio suo al
punto in cui il testo recita “dispersit superbos” la prima delle
due parole veda un frammentarsi e autentico disperdersi delle parti fino
ad allora compatte in un denso contrappunto, per poi creare un accordo
arrogante e dissonante[6]
raggiunto in prevalenza con un intervallo ascendente, come fosse uno scatto
di superbia. Fermata
l’attenzione sulla retorica musicale si torna a Dante e al suo ingresso
nel Cielo del Sole, la zona alta del Paradiso dove stanno i sapienti sorretti
dalla fede e illuminati dalla grazia. Dante ha in tutta la Commedia
forti impressioni acustiche, ma nel Paradiso la musica
diviene espressione di una sapienza legata alla filosofia, e il canto si
rivela la forma più consona alla natura dei beati. Dante celebra
Boezio per bocca di Tommaso e, in paralleli più strettamente musicali,
fa cantare a Sigieri e Tommaso le lodi a Dio come a voler risolvere «le
dissonanze che in vita li avevano divisi»[7],
similmente a ciò che accade a domenicani e francescani. A poco a
poco la «ghirlanda dei sapienti» si rivela un immenso coro
polifonico fatta di voci individuali e riconoscibili i cui contrasti si
risolvono nella superiore armonia celeste, orchestrata da Dio «che
sempre la sazia» (Par. X, 50). Da qui in poi rinunciamo a
riassumere i percorsi che Croese propone, fra i quali sta lo studio delle
alliterazioni nel Paradiso che rimandano alla cosiddetta circulata
melodia (molto interessante è l’osservazione al capitolo III,
2 secondo la quale Dante non suggerisce tramite la circulata melodia
il tema del cerchio, come canto e simbolo divino, ma tramite l’opposizione
di due accezioni della parola “canto”, indagine che porta alla scoperta
di un preciso rapporto fra il doppio coro bachiano e il rotante coro dantesco).
Piuttosto, torniamo ai cori reali di Bach e al suo Sanctus, «sorta
di “biglietto da visita” o manifesto programmatico della poetica bachiana»:
qui i precetti della retorica musicale vengono applicati alla musica ad
esempio nelle primissime battute, nelle quali suggestivamente Croese riporta
l’identificazione, operata da alcuni critici fra i quali Geiringer, delle
terzine cantate dalle voci femminili come ali angeliche stilizzate (le
sei ali dei serafini) così come fecero gli antichi collegando le
stelle ed ottenendone figure, o più avanti come fece la tradizione
del “carme figurato”[8].
Ma così come Dante opera piegando la lingua alle sue esigenze e
rifiutando regole da seguire pedissequamente, tanto che Auerbach definì
la lingua dantesca un miracolo per chi abbia studiato gli autori precedenti
a lui, anche Bach rifiuta una mera esecuzione delle regole della retorica
musicale, inventando soluzioni originali ed inedite. Contemporaneo
di Bach, con il quale però il musicista non dovrebbe avere avuto
rapporti diretti, è il pensiero di Leibniz, il quale in un passo
(Monadologia § 83) citato da Croese accenna ai “saggi architettonici”
per mezzo dei quali l’artista può tentare di conoscere il sistema
dell’universo e riprodurne parti, osservazione che Otto von Simons[9]
riprende parlando dell’immagine medioevale dell’architetto e descrivendo
Dio come costruttore che crea grazie a scienza architettonica e matematica,
nonché l’architetto medioevale che si accingeva alla costruzione
di una cattedrale come uomo consapevole di stare imitando Dio e costruendo
un modello dell’universo dal suo tempo concepito. Croese parte da qui per
terminare il suo discorso con una dissertazione sulla possibile nascosta
presunzione dell’artista che tenderebbe a voler coincidere con Dio, il
sommo artista-costruttore, ma noi ci permettiamo di rinviare il lettore
anche al saggio Il significato della musica di Marius Schneider[10]
che nei capitoli Il significato della voce e soprattutto Il significato
delle ali sviluppa riflessioni importanti circa un campo vicinissimo
a quanto detto fino ad ora[11],
e che nel capitolo La nascita musicale del simbolo parla dei suoi
studi sul chiostro romanico di Cugat in Catalogna i cui risultati portarono
all’identificazione della sua costruzione e delle sue decorazioni come
successione degli elementi di un canto liturgico. In
conclusione ci si permetta una banalità che, incredibile a dirsi,
è ancora un grande insegnamento, per quanto misconosciuto: nel caso
improbabile in cui ce ne fosse bisogno Bach e Dante dimostrano ancora una
volta di essere classici autentici (forse più vicini all’interpretazione
di classico data da Borges che a quella di Eliot[12]),
ossia opere che hanno sempre molto da insegnarci, che possono sempre supportare
nuove letture, opere sempre attuali in grado di fornire insegnamenti adatti
ad ogni epoca in cui vengono letti o ascoltati, lavori che aspirano alla
perfezione e realizzano l’intelligenza, al di là di ogni concomitante
iniziale spinta dogmatica o ideologica. Essi occupano un posto solo loro,
si ergono sul loro passato e il loro futuro senza appartenere a nessuno
dei due e, come chiosa il saggista, hanno creato opere nelle quali il lettore-ascoltatore
troverà un’esigenza di assoluto ed un assoluto stesso realizzato
poeticamente «che può essere, a seconda dei punti di vista,
analogo o alternativo, ma in ogni caso formalmente perfetto». [6]
una settima diminuita, che da questo periodo in poi (un esempio mirabile
si ha anche nella bachiana Passione secondo Matteo: tre accordi
di settima diminuita in corrispondenza delle tre sillabe di “Barabba” urlato
dalla folla) diverrà in musica espressione privilegiata di momenti
particolarmente drammatici.
[7]
In particolare, qui si tenta, alla luce della "sintesi armonica degli opposti",
una risoluzione plausibile dell'"enigma di Sigieri", che ha attanagliato
generazioni di dantisti. Dopo aver vagliato, in merito, alcune delle più
autorevoli proposte esegetiche, l'autore si ritiene insoddisfatto soprattutto
della recente lettura "positiva" del caso Sigieri proposta dalla Corti,
che spiegherebbe la presenza del filosofo "eretico" nella corona dei sapienti
grazie ad una sua riconciliazione terrena con Tommaso: infatti "se si suppone
la sua [di Sigieri] presenza nel Paradiso dantesco solo in virtù
di una sua tarda conversione al tomismo, si deve trovare una spiegazione
altrettanto plausibile per giustificare la presenza di Gioacchino da Fiore"
nell'altra, analoga, corona di beati. In realtà "l'armonia del Cielo
del Sole non è stata preparata in terra: la sua caratteristica è
quella di essere una delle gioie care e belle del Paradiso, che non si
posson trar del regno: Sigieri e Gioacchino sono l'elemento dissonante
che esalta maggiormente la suprema consonanza della sintesi armonica divina".
[8]
Segnaliamo, nella sterminata bibliografia dedicata al carme figurato, il
saggio di Enrica Salvaneschi intitolato Un carmen figuratum il Lawrence?,
in: «Concertino» I 2, 1 ottobre 1992, pp. 9-12. Cogliamo l’occasione
per segnalare il volume Per un divano letterario: sette serate di comparatistica
(ETS,
Pisa 2001) curato da Salvaneschi e contenente tra l’altro un saggio di
Crose intitolato “Leopardi e Chopin: specchi sembianti.”
[11]
Nel saggio Il canto gregoriano e la voce umana addirittura una breve
analisi è condotta proprio sulla Messa in si minore, sulla
quale il bizzarro giudizio però è negativo, anche se bisogna
riconoscere che non è strettamente musicale: farebbe parte di quella
serie di composizioni splendide ma imbrogliate e piene «degli ostacoli
nati dall’egocentrismo», laddove il canto gregoriano è invece
«un cammino per la comunità».
[12]
Secondo Eliot un classico è il prodotto necessario di un’epoca in
cui la civiltà e la lingua hanno raggiunto il loro apice, in altre
parole un libro scritto in un determinato e rarissimo modo. Secondo Borges
invece un classico è un libro che viene letto in un certo
modo, ossia come se nulla in essi fosse casuale ma tutto fosse determinato,
tutto avesse una precisa giustificazione.
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |