Antonio
Spagnuolo, Rapinando alfabeti
ed. l’assedio
della poesia, 2001, edizione fuori commercio
Il poeta
è in bilico tra silenzio e suono. Se egli fosse tutto suono non
lo percepiremmo.
Ci accorgiamo
della sua esistenza proprio perché vivono il vuoto, il bianco, le
sillabe che marciscono; così i versi : “Non offro che parole:/ ultimo
paradosso per svegliarti./Rotolando a impazzire/ ho scavato radici/ ed
il soffio volteggia, / sgualcisce la gola dell’incubo.”
Il libro
ruota vertiginosamente intorno ai movimenti del tempo e della sua voracità,
ma da esso non si fa divorare.
Nella costellazione
del grande dominatore si accendono memoria e ricordo, che si tuffano nel
passato come pescatori di perle, “cercando l’ultimo abbandono/ fra le carte
ingiallite/…/ingigantisco le ombre.”
Al tempo
non si sfugge poiché esso gioca con noi, ci solca, ritorna in un
vortice repentino, “resta sospeso un capogiro/ nel quaderno di un’ora”.
“ Il luogo
che fuggivo da tempo/ era il tempo/ che abbatteva sagome/ nelle incerte
minuzie,/ che devastava il mio volto,/ ormai lontano dalla primavera.”,
dal suo flusso emerge l’indistinto, dalla demolizione si salvano schegge.
Sulle rifrazioni
fra passato e presente grava il volto mutato dell’amore, “e comprendo/
che imparerai a baciare anche i fantasmi”.
“Il sapore
è cambiato, e col sapore/ infrangi i cardini del sogno./ La corsa
inganna/ il giorno del ricordo,/ l’ombra dei miei fragili segni,/ nel vortice
di foglie pellegrine” : la parola colma una cavità che, altrimenti,
risuonerebbe troppo vuota, abitata solo dalla caducità. Alla morte
il poeta risponde con una manifestazione del se come deflagrazione, all’insipido
preferisce la vita che scoppia come un petardo ( “esplodo nel mio corpo”,
“lancio ancora parole come un folle”), come un ladro strappa le parole
per sottrarle alla scomparsa, si muove in uno spazio agonale di differenze,
ricorda con il corpo (“quando/ l’immaginaria strada delle ombre/ invade
il fuoco delle mie giunture”), muta i suoi sogni ricreandoli altrove per
toglierli al consueto (“riaccendo la tua pelle in altre luci”).
Minacciata
dal disfacimento, la poesia, come la pittura, deve carpire gli spazi per
sottrarli alla morte: “ma il paesaggio è lo stesso:/ lo stendere
e l’urlare screziato/ per un rapace ultimo tempo”.
Se “illividisce
il ricordo/ ogni tua movenza”, nel setaccio restano diluite tracce, labili
segni, ma paradossalmente, proprio nell’evanescenza si può riincontrare
il tempo, come dono leggero ed involontario: “certo,/ soltanto con i fiori
più fragili/ ondeggia la mia infanzia”.
Nella lotta
contro il tempo molte sono le sconfitte, “ho inventato rovine,/ ritorni
dal silenzio/ ma l’orologio ha massacrato/ ogni mio sogno”, ma nella poesia
di Spagnuolo mai lo scacco è definitivo.
“Rincorro
la tua immagine gazzella” scrive il poeta alludendo al meccanismo del ricordo
che frammenta l’intero, alla corsa per prendere al laccio la figura prima
che impallidisca e si cancelli. Ma il tempo frana alle attese della memoria,
oscilla, sembra sul punto di liquefarsi come l’orologia di Magritte, “ti
ho smarrita/ prima ancora che il tonfo/ rispondesse ai ricordi”, devia
il tempo, perde la strada maestra, volta le spalle “in un furtivo scherzo
delle ore”.
Il nodo
della scrittura è recupero, riappropriazione, risarcimento, la poesia
cura l’impossibilità di tornare indietro. Nel presente il poeta
predatore può solo limitarsi a mettere in iscena il passato, a riprodurlo
su di una ribalta.
Passato
è tornare a casa, nella vecchia casa ed avere la pretesa di trovare
ogni cosa al suo posto. Quella casa è il tempo, così il poeta:
“là dove c’erano glicini o soltanto/ segni di una possibile scomparsa,/
compaiono le ombre delle nostre scansioni, compaiono i giorni del giardino/
che ripete il mio gesto”.
Rendere
il tempo signore dell’eterno e dell’assoluto spaventa il poeta, che vorrebbe
trattenere il corso del fiume, ergere una diga: 2aspetta ancora un poco:/
vorrei fermare il tormento che la storia/ mi ha stretto fra le braccia,/
e bloccare l’orologio festante/ all’angolo di casa.”
Talvolta
i testi possono apparire come nature morte dove si mescolano bottiglie
e stoffe ma in essi il sangue non cessa di scorrere, “basta contare gli
anni,/ scendendo con la rabbia alla rovescia”: la senilità va percorsa
contromano, scivolando a ritroso dal cumulo degli anni, rovesciandone il
corso, “il mio nome strappa meridiane” – scrive il poeta.
Se la vecchiaia
è crepa, incrinatura, tempo e poesia sono ambedue rapaci: “si aggirano
le ore a rosicchiare/ ciò che resta ai taccuini/ la voluttà
di un breve accadimento”.
Nell’affabulare
il tempo è di manica larga, rinvia la fine, la potente erosione
con i suoi orditi bislacchi, slitta differendo la morte. Immerso nel tempo
come nell’aria che respira il poeta soffre su di se i cicli schiodati dal
loro alveo, i ritmi sconnessi, “trattenute alle mani/ sbalzano le stagioni/
intorno agli ultimi lembi”.
Tutto precipita
e si confonde, tutto si riduce ad uno, nella grande e arcana caverna: “quante
braccia nel precipizio segreto,/ inconfondibile,/ della primavera./ Sgusciamo
il tempo,/ qualcosa incatenata nell’angoscia.” Per mitigare le asperità
si deve ricrearlo, premerlo e modellarlo come cera molle.
Mettere
in luce o in ombra fa parte di questo lavoro scultoreo che non ha mai fine;
illuminare, velare, lo sguardo del poeta è regale: “così
plagiamo i giorni/ attraverso artifizi,/ con parole che hanno forma di
mani/ o suoni di metalli./ Tali sono i meandri/ di quel che chiamo oblio:/
mura crollate e zone d’ombra/ nel flutto di una nuova fantasia”.
Alla catena
del tempo strettamente si lega il ricordo.
“Dai luoghi
nulli,/ dove risveglia i ricordi/ semplicemente l’ultima parola,/ che balbetta
il fondo di vertigini,/…/ Da la cenere di colori ancorati/ fra le socchiuse
lenzuola,/ errabonda di immagini sul fondo/ dell’assenza”, covati dai grembi
i ricordi affiorano dopo il buio, le coltri sollevate li restituiscono
liberandoli, come nel “Porto sepolto”, come il muro di una casa, ricoperto
di manifesti, che poi le pioggie dilavano restituendolo a se stesso.
“Azzannare
la nebbia/…/ e dissolvere immagini/ tra la bocca e il cipiglio/ che all’esultanza
del cenno/ urla nel tuo ricordo”, dalla nebbia che si fende, dal secchio
che risale il ricordo ritorna con urlo espressionista.
Impaziente,
non riesce a tacere, vuole farsi largo.
Tutto il
versante maschile e dannato del tempo viene affiancato dall’esaltazione
del femminile, del corpo trionfante: l’eros è una festa, la sua
voce parla da un fondo intimo e denso di allusioni, “è la carezza
ardita/ nascosta fra le coltri immaginate”. Il corpo della donna è
labirinto, vigna, risacca, corolla, “le meraviglie tue ghermite a sera/
preda alle ombre,/ onnipresenti fittissime euforie”.
“Gioielli
indiscreti” i sessi parlano, “l’unica tortura la rosa/ nel mezzo del tuo
ventre/ che ripete il mio nome…”.
In una
misteriosa spirale il poeta mescola le tessere di un mosaico erotico, un
epico disegno tra “infinite vertigini”. Tempo, eros e racconto si congiungono:
“questa stagione torna sulla pelle/ con l’ombra di un racconto”, si fondono
per scacciare l’evanescenza, “la schiuma dei giorni”. Al cospetto del femminile
egli abdica.
E nel va
e vieni del tempo si sporge una scena vechcio-nuova . “i nostri corpi/
annidati fra le dita di ieri,/ nei luoghi sazi ,/ fra le palpebre schiuse,/
mentre il grembo ancora muta/ per il nuovo sipario”, nulla mai scompare
del tutto. Con mano furente l’eros conduce il poeta. Pan è una donna.
Spesso
simile alla lava cromatica o ai deliri non figurativi dell’arte informale,
“Rapinando alfabeti” non si lascia facilmente definire, è mobile,
sfuggente, enigmatico; sfilacciato ai bordi, trova nell’assemblaggio il
suo principio compositivo e nel mondo interiore un dominio attraversato
dal tempo e dall’eros, il mondo esterno è come sfocato e distante.
In questo teatro dell’io la poesia è spesso montaggio visivo, alogico
e scomposto.
Come una
nave che naufraga, lascia nelle acque circostanti casse, relitti, oggetti
disparati che i versi del poeta recuperano, portano a galla, sottratti
all’abbandono.
Per il
poeta la condanna, infatti, è “perdere il passato”.
11 febbraio
2002
Indice
generale
Immagine:
Antonio
Belém,
Phorbéa,
Napoli 1997
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Otto
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