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Luigi
Fontanella, Azul
Archinto,
Milano 2001, pp. 121, £.16000 - € 8.26
Una
«poesia nomade» quella di Luigi Fontanella, come suggerisce
Giuseppe Pontiggia nella nota in quarta di copertina dell’ultima raccolta
del poeta salernitano. E tale non solo per la dislocazione geografica,
fra Mediterraneo e Atlantico, Italia e Stati Uniti (dove Fontanella insegna
alla State University di New York), ma anche per le scelte stilistiche:
Pontiggia parla di «incontro di tradizioni di lingue, fusione di
classicità e avanguardia». Sul tema del viaggio hanno insistito
altri lettori di Fontanella. Così Giulio Ferroni («Verso»,
nn. 7-8, dicembre 1993), che ugualmente considera il viaggio «percorso
della parola che si perde sempre» (come negli Holzwege heideggeriani,
potremmo aggiungere). Così Milo De Angelis (in quarta di copertina
della precedente raccolta di Fontanella intitolata Terra del tempo),
per il quale quello del viaggio è uno dei «motivi fondamentali»
della poesia fontanelliana: un viaggio che non si propone in fondo di esplorare
luoghi nuovi ma di ritornare, per conoscerli meglio, sempre sugli stessi,
di rifarsi da capo all’origine: allora, solo un apparente perdersi, la
cui tensione vettoriale indica invece una meta.
E infatti le «immagini sovrapposte» delle quali parla, fin dal titolo, una poesia «Sono rimaste attaccate / al luogo di partenza, / mentre vago in altro spaziotempo,…» (p. 63). La sovrapposizione delle immagini, nel “vagare” della poesia di Fontanella, nel suo insieme, sta a indicare non una precisa sequenziazione dei ricordi – prima l’Italia, poi l’America – ma, come nella tecnica psicoanalitica della “condensazione”, una fusione in una nuova visione, nella quale l’ultimo reperto iconico diventa cifra del primo e, ovviamente, au contraire (anche in questo senso possiamo intendere l’espressione di Fabio Doplicher, secondo la quale l’America di Fontanella serve a “gigantografare” la sua Italia, il suo Sud: anche qui l’una nell’altra, e a partire dall’altro). Così, strutturalmente, possiamo leggere la persistenza di certe modalità “surrealiste” in questo libro (del surrealismo – italiano, e non solo – Fontanella è stato attento studioso). Un’altra poesia, dal significativo titolo Compresenze (demi-automatiques) “(in aereo)” (pp. 23-24), ne è significativa esemplificazione: in una sorta di realismo onirico, un eccesso di dettaglio serve a straniare la scena; come su uno stesso tavolo, alla maniera dei surrealisti, vengono collocate immagini diverse, e stridenti: un deserto, dei nomadi, il circo, un clown, «supermarket / con tanto di drugstore e apotèche», campesiños, «il nuovo mondo sul vecchio e viceversa / scala mobile su e giù». Lo straniamento che ne sortisce è quello di unmondo nel quale il nuovo Prometeo prigioniero sa appena, se pure vi riesce, muovere la bocca. La sovrapposizione non riguarda solo un movimento convergente nello spazio, ma appunto nel tempo: dico appunto, perché anche il rapporto fra America e Sud Italia non è solo questione geografica, ma riguarda una temporalità screziata di nostalgia. In Straripanza del verde (pp. 43-44) si richiama ad esempio un passato rurale, «ove tutto riecheggia lento / in un a venire antico» e dove si «ripristina il vecchio ordito».Così come fondamentale, e struggente, è il ricordo del padre, dove l’esercizio attuale della memoria si riverbera nel gioco infantile che scandisce le tappe di un itinerario minimo (Vietri, Cava de’ Tirreni, via via fino ad Angri) di colui che sarebbe diventato un assiduo trasvolatore transoceanico: «Sapevo a memoria / le poche stazioncine che separavano / la mia dalla tua cittadella / in quei nostri periodici viaggi in terza…» (p. 74; e c’è qualcosa di crepuscolare in questi desueti diminutivi: cittadella, ora, e, poco oltre, stradella). E con un rammemorare, che individua di nuovo con esattezza luoghi del passato fin dal titolo della composizione, in Villa Celimontana Fontanella scrive: «Non molto è cambiato d’allora / pazzi trilli ancora fendono l’aria / …/ Ma ancora ci vengo / con un misto di rinascita e da ultimo giorno» (p. 51; il riferimento dichiarato dall’Autore stesso è qui Ungaretti, ma non lontana è l’assonanza con un poeta contemporaneo, il Giampiero Neri di Villa Nena, ad esempio). Il viaggio nel passato svela qui il suo significato, che è il significato anche – forse – di questo libro, Azul, nel quale il poeta raccoglie poesie di un settennio, sistemando pure quelle già apparse, con varianti, precedentemente, e che si configura come un libro di formazione da un lato, ma anche – mi si consenta l’espressione – di ri-formazione, di nuova formazione, appunto di rinascita. Ma una rinascita che ha un senso melanconico, come se in questo riemergere dall’humus che ci ha fatto ciò che siamo rimanga sempre il senso irrimediabile d’una perdita. Non si parla infatti, ossimoricamente, di «un misto di rinascita e di ultimo giorno»? Se già la nascita, la prima nascita, contiene in sé la morte (solo ciò che viene alla vita ne può e ne deve poi uscire), anche la rinascita si accompagna, nonostante il nuovo slancio vitale, al senso crepuscolare della sua fine. Ma anche della perdita delle possibilità che via via la vita declina rispetto alla pienezza dell’origine: «Brucia ora lo sguardo / la vita che ritorna / mentre il corpo ripensa / alla persa cera ermafrodita» (p. 18); l’ermafroditismo, come compresenza dei due sessi, non è la completezza dell’individuo, poi destinato, come nel mito narrato da Diotima a Socrate, a rinunciare a una parte di se stesso? E questo dà al viaggiatore Fontanella, che scrive molte delle sue poesie in aereo, o in treno (comunque nel non-luogo, nella extraterritorialità dello spostamento), un senso di inappartenenza (il non avere per nulla un luogo) che si accompagna alla nostalgia (il non avere più un luogo): laddove l’inappartenenza e la nostalgia da dato biografico diventano condizione esistenziale, benché la seconda passi ovviamente, e necessariamente, dal primo: «Pensai che quel giorno / sarei morto di freddo, di noia, / di nostalgia, d’inappartenenza, risucchiato in una folata di ghiaccio-vento, sebbene così preso di te, e forse tu di me» (p. 85). Se prima indicavamo una tensione vettoriale, nell’apparente dispersione, verso il luogo dell’origine, ora possiamo dire che neanche questo si configura come approdo definitivo, come possesso certo, come luogo caldo e avvolgente. Quasi come se, con il Nietzsche di Umano, troppo umano, si dicesse qui che in fondo non conta la meta, ma il viaggiare. L’inappartenenza, come effetto collaterale del viaggio, e sua cifra, trova espressione stilistico-formale nell’inquietudine con cui Fontanella costruisce in modo eterogeneo i suoi libri, non legandosi in modo esclusivo a una modalità specifica, come ha messo in evidenza Giulio Ferroni nella presentazione romana di Azul (ma così anche Pontiggia nella sua nota). A componimenti nei quali Fontanella risente dell’influenza prosodica e discorsivo-narrativa americana (ma, tornando in Italia, anche gozzaniana più che pavesiana) se ne accompagnano altri nei quali si avverte una maggiore contrazione lirica o postsperimentale: «Pozzo d’inganni e di delizie / pensoso abitacolo / casamatta solstizio / aperta sequenza / in te mi ritrovoe disperdo… / … / v i a g g i a r e / viaggiare a tutto campo», nonostante l’esigenza di «volere un solo volere!» (come dire: legarsi finalmente a qualcosa: e l’espressione, nella sua icasticità, e nel contenuto, è in fondo essa stessa nietzscheana). Ma nonostante l’asprezza delle contraddizioni, anche stilisticamente Fontanella tende a stemperare i toni. Nella rievocazione di un viaggio con Matacotta vediamo un bambino che corre recando un giglio in mano e in fronte «l’Ideale in azzurro puro». E l’azzurro, dopo faticosa ricerca, si addolcisce ancora di più nel suono spagnolo di Azul, nel quale pure si trasfigura il fiore azzurro di Novalis, da una cui citazione il libro muove. Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |