|
||
Antonio Spagnuolo, Rapinando alfabeti Ed. l’assedio della poesia, s.i.p. Premessa
Affrontare
la lettura della vasta opera poetica di Antonio Spagnuolo è compito
arduo per la vastità del materiale (una ventina di volumi da Ore
del tempo perduto nel 1953 a Rapinando alfabeti nel 2001, presenze
in molte antologie e riviste), per le continue mutazioni e per l’aggiustamento
ininterrotto al quale l’autore sottopone le sue opere. Inoltre il materiale
critico su di lui è più che notevole, quindi una ennesima
panoramica sarebbe inutile. Nella nostra disamina limiteremo il campo ad
alcune raccolte comprese fra Ingresso bianco (1983) e Rapinando
alfabeti (2001), concentrandoci sul tema del corpo. Anche Massimo Pamio
nel suo approfondito volume su Spagnuolo Ritmi del lontano presente[1],
il più vasto di una serie di volumi che in toto o in parte
parlano di Spagnuolo, lavoro che ovviamente non staremo qui a rifare, limita
il campo iniziando la sua analisi da Poesie 74[2]
evitando di soffermarsi sulle tre precedenti raccolte, e fermandosi ovviamente
a Il tempo scalzato[3].
La scelta del nostro territorio di indagine non significa che altre raccolte
siano solamente materiale preparatorio, ma la trasformazione del dettato
poetico Spagnuolo è forse tale da giustificare questa scelta. Solamente una poetica “in nuce”? Temi e maniereAl
centro di tutta la poesia del nostro autore sta senza dubbio l’uomo. La
profonda fiducia che Spagnuolo ha nei confronti della parola poetica, e
di quella realtà/mondo non coincidente con la nostra realtà
ma ad essa perfettamente aderente, trae palesemente linfa dalla capacità
razionalizzante dell’uomo. Il che, diciamolo subito, non significa freddo
raziocinio, rappresentazione della disumanizzazione e della perdita dei
sentimenti nella società contemporanea ed altre consunte amenità
di questo genere, bensì fiducia nella qualità principale
dell’uomo: la capacità di rifiutare la brutalità ed esercitare
la razionalità mettendola al servizio del bello e dell’amore, e
quindi obbedire fedelmente all’imprescindibile vocazione gnoseologica della
poesia, come vedremo, in modi e forme diverse. Ecco quindi che non vedrei
la poesia di Spagnuolo, nemmeno quando si fa più strettamente tecnica,
come una semplicistica denuncia del vuoto contemporaneo e dei vari effetti-placebo,
e nemmeno come la creazione di un universo in cui custodire le cose belle
da usare nei momenti difficili, bensì come un ininterrotto banco
di prova sul quale sperimentare le innumerevoli combinazioni offerte all’uomo
e tentare di ricondurle sempre al caso-uomo. Piuttosto, lo nota anche Pamio
nel primo capitolo del suo libro, il primo Spagnuolo si concede «una
serie di luoghi comuni – dal mito dell’infanzia, il cui ricordo circonfuso
di tenera felicità fa luce sulla condizione angosciosa del presente,
dalla elencazione di riflessioni e di vaghi pensieri che, stesi
all’imbrunire, richiamano la fugacità della vita, al bestiario
meridionalista»[4],
però proprio questi elementi sono già espressi per essere
messi alla prova in virtù di una concezione più salda di
“tempo” come “istante”. E se l’Io di Poesie 74 è un Io luttuoso
ed intriso di perdita, detta perdita suona non poco come liberazione, come
scrollone. Inoltre la poesia in questa fase sa scavalcare gli ostacoli
ed appellarsi ad una dimensione sì onirica ma sempre ancorata al
reale (niente più che una transitoria scorciatoia, insomma) al solo
scopo di aprirsi: «apertura di un Io malinconico – smembrato dal
Tempo – che esperisce contemporaneamente il presente e il passato, vissuti
per la prima volta insieme in una dimensione palpitante»[5].
La memoria non ha nulla di nostalgico, se così possiamo dire, ma
è composta, secondo le parole di Domenico Rea, da «una serie
di soggetti e pensieri retrodatati, che si trasformeranno in appigli per
continuare a vivere»[6].
Infatti Raffaele Pellecchia[7]
ricorda che Spagnuolo è un medico, ossia un uomo che è a
stretto contatto con la sofferenza, e secondo noi sarebbe persino deontologicamente
scorretto soprattutto per lui cancellare o tacere questa sofferenza, questo
segnale fondamentale e di cui non bisogna vergognarsi, anche in poesia:
è scritto in Poesie 74 che «Mentre il sogno ci inganna
/ di giorno in giorno / quasi a scherno / la realtà / ci rimbalza
nel fondo». Ma il dolore non deve farsi maiuscolo, non deve diventare
bandiera né privilegio perverso: esso deve essere veicolo, indizio
da non accantonare, veicolo per connettere tutte le zone dell’essere senza
lasciare buchi. Spagnuolo
percorre un lungo cammino poetico mai dimenticando cosa gli accade vicino:
ad esempio Pamio parlando di Affinità imperfette[8]
pensa che si possa «imputare al pensiero poetico spagnuolesco uno
spiccato interesse per il motivo che ha dominato le scene della ricerca
letteraria italiana degli anni Settanta, vale a dire il rapporto tra Soggetto
Poetico e Realtà, relazione che l’autore […] mette in crisi, dissolvendo
certezze e forse mettendo in questione i termini stessi di una polemica
non ancora sopita»[9].
Ma nel suo percorrere la poesia di libro in libro il Nostro perfeziona
la primordiale ed incrollabile serie di motivi fondamentali che abbiamo
qui enucleato, e ai quali possiamo aggiungere, esaminando Affinità
imperfette, una vocazione tassonomica ed una volontà di ridisegnare
le cose in preda al caos che emergerà sempre più, caos soprattutto
di oggetti, in questa fase, che nella successiva raccolta I diritti
senza nome[10]
troveranno nei procedimenti anaforici e d’enumerazione il consolidamento
dell’intento tassonomico e nella città il luogo del loro contenimento
certo ma irraggiungibile, luogo del «possesso» svanito nel
«riflesso-anonimo» (ed ennesimo pretesto per la riscoperta/riesame
dell’“altro”, con conseguente indagine sulla memoria ed il tempo: «Io
vorrei conoscere il tuo tempo / raggiunta la sorte che ti risucchia»;
l’espressione «trascorso fotocromogeno d’estate» apre forse
il lungo periodo intriso di quasi sempre naturale linguaggio scientifico
che caratterizzerà i primi anni Ottanta). Affinità imperfette
è una raccolta importante perché Spagnuolo abbandona il tono
lirico e persino sentimentale per una tensione più allucinata ed
un maggior impulso raziocinante, anche se permane qualche selezionatissimo
impulso lirico e a tratti quasi stilnovistico. Il poeta non vede più
oggetti o prede del lirico, non più sentimento da riproporre: vi
sono ora spazi e moti, complessità che si danno come somma di minuzie.
Il rapporto con l’“altro”, e con la “donna” (l’“altra”) in particolare,
si fa repertorio di minuzie e dati, fuga disperata contro il moto centrifugo
e contro il tempo che disperde le cose, e nel contempo si precisa nuovamente
l’importanza dell’“io” proprio nell’istituzionalizzarsi del “tu”: «la
vibrazione delle mie carezze / al tuo profilo». Talvolta il referto
si fa già più sperimentale: «Invisibile tiranno / nella
rivolta di cose-immagini-grida / e narra la sua storia / in vaga forma
che noi portiamo idea, / elusa la realtà di cuore o cranio / in
ferite di terra». Nel risvolto di copertina Domenico Rea scrive che
in questo libro il linguaggio si fa «occasione di sopravvivenza a
testimoniare unicamente i residui messaggi di un Dio», e anche su
questo aspetto torneremo. Tutto
questa parentesi sulla prima produzione di Spagnuolo ci servirà,
intersecandosi con la nostra prospettiva di lettura che ora iniziamo, per
evidenziare la coerenza estrema, in un clima di crescita quasi costante,
della poesia di Spagnuolo. Le trasformazioni del corpo: corpo-poesia, notomizzare, copulare, trasfigurare, ricordare il corpo, rialfabetizzareLe
non poche letture dell’opera di Spagnuolo si sono concentrate di volta
in volta sullo sguardo, sull’effettiva esistenza di un altro o Altro, sul
concetto di tempo, sulla parola come cosa… noi vorremmo qui seguire
l’ultima parte della produzione di questo autore seguendo le evoluzioni
del concetto di corpo, pretesto e/o metafora ma soprattutto autentico corpo
fisico. In
Ingresso bianco[11]
Spagnuolo apre bruscamente una nuova fase poetica, allude immediatamente
alle plurime interpretazioni dell’“ingresso bianco” (ovviamente l’ospedale,
la pagina, l’occhio, la Luce…) e sceglie la parola come elemento basilare
per la costruzione della realtà ma anche come bisturi per fare il
suo ingresso nel corpo dove «il sole / […] sorprende viscere in fuga»,
pur non affidandosi – diciamolo subito –all’autonomia del significante.
L’autore inizia il gioco con un linguaggio duro ed una trama in fitto interscambio
fra senso scritto e senso visivo, anche se quasi subito attenuerà
questo aspetto optando per una più regolare e meno invadente disposizione
dei versi: Pausaammessa per
scissureripetere messaggio-cognizione. […] La
gente che ci guarda vede
soste miete
pneumazioni fronteggia
rimando tratto
– rimborso. Inciampa
tra l’assenza di
sostanza assume
prefisso d’intervento disarma
falchetti avviluppati il
rimbalzo. Senza
perdere un secondo l’autore esorta a badare bene ad ogni particolare, sia
alle rispondenze immediate («Pausa», ed ecco una pausa bianca
nel suono-parola) che ai significati nascosti, e si lancia in una serie
di poesie come scudisciate, né tonali né seriali né
atonali, quanto piuttosto, musicalmente parlando, “materiche” e “concrete”
a dispetto della loro esilità. Sin dalla seconda poesia inizia la
lunga processione di termini medici (mai o quasi mai semplici “termini-feticcio”)
come a suggerire un trattamento anatomico della poesia: «Punto di
schisi / iscrive proporzioni / senza arnesi», c’è un difetto
di saldatura morfogenetico e si crea una divisione perniciosa nel testo,
forse fra senso e suono, forse fra forma e contenuto, forse fra desiderio
del poeta e attuazione possibile («Sceglierai / infedele / scomparti
a perdere»). Talvolta la poesia di questa fase cerca di dare squarci
di pura impressione e di essere eterea nel modo particolare di certe musiche
di Alban Berg («Venivi da pupille arrugginite / registri a sciocchezze
/ conoscevamo anfore»; «scrocia la città / sovrapposta,
/ rigano gemme / ad arrossare») e si carica certamente di significati
sfuggenti (leggendo certa densissima poesia ci vogliono talvolta atti di
fiducia, purché siano temporanei), ma pare che tutto sia riconducibile
alla detta concezione medica del testo: «ma non trovi uscita dalla
carne». Interessante sarebbe capire se certe neoformazioni generate
per fusione («rullavolubile», «girospecchiere»,
«monteruscello», «erbatempo»…) siano una sorta
di azione sinergica terapeutica o piuttosto una sorta di prodotto di un
DNA impazzito. La
figura dell’“altro”, o “altra”, interviene più timidamente («mi
accompagni / al rituale alterno»), ed alimenta la distinzione fra
memoria (nitida: «riporto amplessi lunghi / come al tempo che rubammo…»)
e realtà (confusa nella sua totalità, imprendibile; vedi
la poesia numero 8). L’“altra” sa scatenare brevi momenti anche ludici
(«piena di labbra / modifichi aspettando / l’inganno d’una lettera»;
per una poesia intrisa di eros, un eros qui quasi riemerso, si veda la
poesia numero 25) ma serve però agire con il bisturi in una mano
e il martello che «a dismisura / lavora fracassando» dall’altra,
un agire paradossale che fracassi uno specchio che già restituisce
figure quasi cubiste, spezzettate, smontate e rimontate con sfasatura («Stambecco
/ gambe e tacchi / Piscina / glutei rimpiazzati / per scalare l’argento
/ piccoli quarti») così a ricostruire un io-sincope (tratteggio) a
stringergli la gola metastasi! Scambi la
palpazione teofillina lo
sguardo io-accenno… forse
m’infoscano semafunzioni Un
agire cui è delegata una «mano suicida // congeniale al nostro
tempo», anche, ma nel quale la memoria sarà sempre sfondo
da rispettare: «per non perdere il gusto / di memoria / sottopieghe
d’attesa». Unico ponte, piano piano sa farsi strada, come rivalutata
ancora una volta, l’“altra” cui sono dedicate splendide parti addirittura
liriche e brani in cui è chiara la sua funzione di portatrice di
informazioni: (da
27) Mentre
il tuo corpo promette
sfumature per
un risvolto di copertina affiora
dal tuo viso una notizia. (da
29) Sinfonie messaggio
della strada fuggiamo
dimensioni […] pulsione
scardinata lamenti ed
il tuo prezzo di notizie che
non volevo spendere. Da
qui l’apoteosi: fra eruzioni di eros («tu sfrangiavi coperte / fallico
odore») si precisa la funzione del corpo come unico possibile ed
affidabile veicolo (ed unica metafora della poesia efficace): «stesso
congegno del concerto / un corpo a corpo / per cambiare punto di vista».
Nelle ultime poesie si fa più chiara anche l’intenzione di “donare”
alla poesia i difetti dell’uomo per avvicinarla a sé e l’importanza
di un continuo afflusso di informazioni: Spaccacielo bruscando l’ischemia è
un passaggio chiaro nel creare la fessura bianca della spaccatura ed alludere
all’«ischemia» avvenuta nel tessuto delle parole, e si noti
la scelta del termine «ischemia» a significare il mancato arrivo
di informazioni-ossigeno, di sangue che «inchiostra verbi».
Inutile dire che la pulsione etica dell’autore porta al netto rifiuto di
tutto ciò che è falso e costruto, della finzione voluta o
subita dell’urlare «l’evento / impagliato» e della teatralità
di «un arazzo [che] trasforma / l’inconsistenza di un fondale».
Viene attuata una prassi della distillazione e dell’immersione delle parole
in un vuoto teso a creare quel vuoto cosmico che genera freddo, condizione
che Spagnuolo come suo solito subito combatte – essendosi messo in condizione
di doverlo fare, questa volta – con un impulso etico ed erotico. Un vuoto-bianco
apparentemente buono ma in realtà abbagliante, crudele, beckettiano:
ricordiamo le condizioni estremamente angosciose vissute da certi personaggi
immersi in una luce accecante e crudele delle ultime prose di Beckett. «Svestita
arruffi / quattro mura / (retaggio di canzoni) // riapro matte voglie /
seduto a macinare / steroidi»: questi versi da Ingresso bianco
introducono alla nuova metafora della casa scelta per la venuta alla
luce della successiva e vicinissima (nei tempi e nei modi) raccolta Le
stanze[12].
Scrive Dante Maffia in un suo bel saggio[13]:
«Dall’ingresso bianco, quello che secondo Dino Campana conduce
nella imparzialità della follia e si contrappone al rutilare dei
colori così disperanti e disperati, si arriva alle stanze».
Fra le differenze notiamo la comparsa di una certa ironia e autoironia
(«carbonizzata reciti»; «forse l’assurdo soggetto / invenduto
/ sconnette!») e la preponderanza del colloquio con un “tu” ben più
presente ed il ritorno di un linguaggio ed una costruzione leggermente
più lirici: Ritrovarmi
l’ironia ghiaccia
del viaggio non
consola implàntolo innanzi
la malinconia sconfina le
tue fastella una volta a
cesure Si
confermano però anche alcune metafore dunque importanti: «regole
d’ossa / trascino mezza tacca / dispensa schisi d’intervento»
(corsivo nostro). La malinconia si fa dunque elemento sempre più
palpabile (si ricordi l’«Io malinconico – smembrato dal Tempo»
sopra citato), come già notò Giò Ferri più
tardi a proposito di Il tempo scalzato, «non come topos
della poesia di ogni tempo, bensì come esplicita provocazione,
cosciente volente». Spagnuolo è da Ferri accomunato a quei
poeti che «fanno della poesia […] solo quando rinunciano a piangere
(o anche a discutere) sulla Cosa perduta e si attrezzano invece – stilisticamente,
meglio formalmente, a creare l’Oggetto, quale “costanza spaziotemporale
verificata da una proposizione enunciata da un soggetto padrone del suo
dire”»[14]. L’esigenza
di notomizzare, di affrontare anatomicamente la poesia, che si addensa
in situazioni di compenetrazione fra il mondo e il poeta in una situazione
di tensione a tratti paradossalmente metafisica, e le cose tutte si fa
ora un’esigenza di affrontare le cose geometricamente, una nuova intenzione
di possedere le cose possedendole loro parti e stando al di qua dell’angusto
limite gnoseologico concesso al poeta: Tua
razione pulsavi cieco
vestibolo a
creazione procedi
simbolo: angolo
retto hai
sbuffato proporzioni indulgi
nel vetro capofitto a
stanza-occasione goccia
stupefatta le
parti de/componi il
campo è lacerato e
ancora: muro
riguardo / stretto l’angolo il
bordone a sbalzi o fras-giungo
ricordi Ma
se del limite viene preso atto, ad esso non ci si rassegna: con un bel
distico Spagnuolo ricorda che «chiamammo ultima regola / la briglia»
e nello scivolare dal lirico quasi montaliano alla forza, nello stacco
violento con l’ultimo verso, di continuare in una sola quartina, evidenzia
l’esistenza di nuove possibilità e la necessità di proseguire:
«addicevi agosto / al tuo meriggio / tutti amici perduti / entrano
in campo alternative». Dunque Spagnuolo si muove accorto e tenace
nello spazio concesso, fiducioso nella sua scelta di indagine vede «certezze
negli spigoli» mentre «Sottocoltre qualcosa ripeto» e,
bandendo ancora una volta ogni finzione («Userò il coltello!
/ alle finzioni / inoculerò gavotte»), affronta l’incerto
reale, la nebbiosità e confusione della complessità: A
picchi torna
il passaggio isòtropo fonde
muto il giorno specchio dietro
il non senso confonde
le striature. La
parola-cosa (le «gestoparole») si fa mattoncino e cellula,
lo spazio fra parola e parola acquista vitale importanza e talvolta un
verso crea un microcosmo di assoluta tensione o una parola si fa perno
insospettabile: il prefatore Corrado Ruggero concentra giustamente la sua
attenzione sul verso «prasventa rosa calandra», evidenziando
l’accostamento fra l’inesistente e terribilmente sibilante «prasventa»,
la trita rosa e la calandra che ci trasporta «nel ferroso universo
[…] delle automobili», e sulla parola «atròpica»
da Spagnuolo derivata dall’atropina usata in oculistica e ricavata dalla
belladonna ma che richiama anche la farfalla gozzaniana, Atropo che recideva
i fili delle vite umane e la parola “apotropaica”. In effetti proprio «sul
filo di questa lama di rasoio» (Ruggero[15])
si gioca tutta la poesia di Spagnuolo considerata minuziosamente, e tutte
queste interpretazioni sembrano proprio convivere nella poesia in cui tale
termine è utilizzato. Ma una poesia ricca dal punto di vista della
terminologia che manchi di un progetto globale sarebbe povera cosa, anche
se molto più ricca della maggiorparte della poesia circolante. Non
così Spagnuolo, che mette in atto una colossale macchina di avvicinamento
alla parola-vita che ancora non si è arrestata. La
metafora architettonica dell’esistere, comunque, torna utile a Spagnuolo
per sottolineare la difficoltà di movimento e la necessità
dei particolari, ma verso la fine di Le stanze riaffiora una mai
sopita attenzione al corpo: «senza cerchio / due volte il segnale
eponìmico / batte carne // io tiro la chioma d’estate / microcìtica».
Nel corpo che si sfa la casa deperisce e quasi crolla, e l’«ischemia»
di cui sopra diviene qui un attesa e violenta rottura di un aneurisma:
«recide l’aneurisma / gradini / amari // avresti trovato / per dragare
/ lotta con me stesso…». La parete si rompe, il sangue-inchiostro
defluisce: il messaggio stesso ha rotto gli argini e si è disperso
pur tuttavia nell’organismo che gli compete. La casa conserva la sua unica
dignità di involucro di un involucro, il corpo, che rappresenta
il corpo-testo della poesia, se non la poesia in toto. La metafora
architettonica ribadisce l’importanza dello spazio del corpo e dello spazio
fra corpo e cose, ma soprattutto di quello fra parole e cose, una serie
di stanze ora soprattutto mentali: come scrive Umberto Galimberti «la
spazialità geometrica, come idea dell’estensione pura e omogenea,
forma universale a priori in senso kantiano, non ha nulla da spartire con
la spazialità vissuta che è orientata sul corpo come centro
di tutte le prospettive: non ci dà la verità delle cose,
ma se mai, la verità degli enunciati con cui c’è deciso di
definire le cose»[16]. A
ben guardare, questa nuova fase aveva avuto la sua preparazione durante
gli sconvolgimenti degli anni Sessanta nei quali, a fronte delle varie
scuole che andavano formandosi, Spagnuolo oppose «la storia della
sua esperienza, espressa nella ricerca di un ritorno delle ragioni del
dire all’interno del testo, dove si misurano echi polimorfi, non assiomatici,
provenienti dalle pratiche scritturali più diverse»[17].
Nei due volumi Angolo artificiale[18]
e Graffito controluce[19]
l’autore sperimenta in modo personale le tematiche delle occasioni montaliane
e della partecipazione alla natura del dolore e della preghiera, del porsi
di fronte ad una dimensione quasi estatica. Raziocinio e sentimento, astrazione
e presa in considerazione del concreto lottano in una fondamentale disarmonia
in queste opere le quali caratterizzano una fase di ricerca che si chiuderà
certamente con una temporanea risoluzione di fallimento ed inutilità
dell’interrogare, ma non vediamo l’adozione della geometria come un suggerire
«l’idea di una costruzione (o di un “luogo”) non naturale, e forse
provvisoria, se non addirittura fittizia» come scrive Pamio[20]
quanto piuttosto come, secondo quanto detto sopra, l’esigenza di sminuzzare
per possedere, una sorta di passo indietro modesto ed intenzionato a ripartire
dal piccolo come esercizio fondamentale prima di ritentare il lancio, ritentare
di fare ordine nel caos. La poesia deve restituire l’interesse per la vitale
conoscenza degli «orli di vita» siccome il mondo non è
«un’avventura in plastica» (Angolo artificiale), e talvolta
si tenta lo strumento dell’invocazione dell’Altro maiuscolo, una tensione
metafisica che, secondo le parole di Giovanni Raboni in prefazione a Graffito
controluce, deve qualcosa a Rebora e Sbarbaro. Questa è una fase sperimentale? La domanda forse non ha senso. Possiamo solo dire che Spagnuolo pare lontano da ciò che ha caratterizzato quasi tutta la Neoavanguardia italiana: ha preso qua e là ciò che gli sembrava buono ed ha fuso il tutto con una riflessione sulla sua opera e la sua vita. Ne è prova chiara questa poesia che fonde finalmente la professione dell’autore (una professione non qualunque, possibile fonte di ottime riflessioni poetiche), aspetti di alcune poetiche neoavanguaristiche e residui della peosia spagnuolesca precedente, depurata di ciò che era solo zavorra dell’epoca. L’asciuttezza dei due volumi del 1983 denuncia non una aridità o una sorta di formalismo ma una specie di radiografia ineluttabile, e nemmeno sono un accumulo di esperimenti di sintesi linguistica bensì rappresentano l’attuazione di precise operazioni di ingegneria genetica: si vedano anche le trascrizioni di termini derivati da curiose deformazioni come avveniva nel latino degli incolti, oppure applicazioni mediche alla lingua come avviene per le «sottopieghe» della memoria in Ingresso bianco (p. 29) che potrebbero alludere ad un tessuto della memoria come sorta di ipoderma. L’effetto di straniamento dato dai termini scientifici ha un vistoso seguito nella seconda sezione di Dieci poesie d’amore e una prova d’autore[21], una sorta di poemetto intitolato Sim/patologia ossessiva che mette in scena effettivamente, ora, una vera ossessione, un martellamento terminologico che mette rappresenta la degenerazione del mondo tramite l’ossessione di una patologia contratta insieme all’altro (“sim-patologia”). Bastino i primissimi versi: Scampa l'ultima infamia, dal mucchietto leuciti appaiati, la maschera errabonda s'era grigia svanita per lunghissimi termini elettroscarda festose ematùrie finge ematomi nel sentiero incredibile, soddisfatto guarda il suo sbaglio che paura tende alle meningi dura svetta l’aurora al pericardio aggiustando mani sventurate in gastrosuccorrea Inquietante,
non c’è che dire, eppure già permeato di sentimenti umani
a partire da quel nudo sostantivo «paura» causato da un umanissimo
«sbaglio» (in luogo di un meccanico “errore”). La denuncia
dell’accumulazione soffocante del reale (che non ha nulla della gnoseologia
dell’accumulazione ad esempio in Antonio Porta) è palese: «Gravide
gramaglie nel santuario della pornografia / incidono mastiti fibrocìstiche
ammucchiano / reperti successivi appena il moto delle mastzèllen
/ un principio di quiete senza forzare mai…»; altrettando chiaro
è l’allarme per il «tralcio di vite allucinogena» che
«disorienta spazio e tempo sparpagliata / in permanenti deficit di
memoria». Torna la memoria, questa volta parodiando la memoria computeristica
ma chiarendo che si tratta di memoria umana, di un cervello che può
patire gli allucinogeni (una lettura così letterale pare possibile,
qui), così come solo un essere vivente può patire la «gastrosuccorrea»
e rendersi ridicolo: «c’è chi vanta amori protratti chirurgicamente».
La parola poetica entra fin nelle pieghe del cervello per indagare tanto
la patologia quanto la sorte della memoria, per andare direttamente alla
redice delle cose: «ecco nella scissura di Rolando il centro di Broca
/ oltre la scissura di Silvio / numerosi ultracentenari parlano di neuroni».
Oggi la scienza e la tecnica ci permettono, ad esempio tramite RMF e PET,
di “vedere” addirittura il cervello mentre pensa, sappiamo moltissimo sulla
menoria sia dal punto di vista psicanalitico che fisico-chimico, e sappiamo
soprattutto che i ricordi non sono immutabili ma sono materiale in perpetuo
rimaneggiamento, non sono unità ma fanno parte di un sistema dinamico,
sappiamo persino, parallelamente, come il dimenticare sia di vitale importanza
quanto il ricordare. Ma il nostro autore pur rispettando ovviamente la
scienza non intende far prevalere la tecnica e permetterle di violentare
la sfera privata dell’umano. Nel racconto I mnemagoghi Primo Levi[22]
parla di un vecchio medico che per combattere «il prevalere definitivo
del passato sul presente, ed il naufragio ultimo di ogni passione»,
certo «salvo la fede nella dignità del pensiero e nella supremazia
delle cose dello spirito», trova il modo di isolare chimicamente
gli odori che scatenano in lui i ricordi, convinto che questi ricordi siano
la sua persona. Spagnuolo non ha bisogno di questi chimismi, e forse
nemmeno dei “chimismi lirici” di Ardengo Soffici (con il quale però
condivide un atteggiamento geometrizzante e l’inserimento di momenti di
intenso colorismo), propendendo per una nuda difesa della memoria come
sinapsi fra attimo e attimo. Ma
i versi non devono diventare eloquenti «testicoli sine spermatogenesi»:
la terminologia medica di questo scritto se fosse studiata a fondo fornirebbe
chiarissimi dati circa la sua necessità ed importanza, ma qui sospendiamo
l’indagine, mentre essa «fra rintocchi / invaginati / scivola»
e l’autore placa le acque negli ultimi versi («ecco tranquillo dissolvo
una spiepe spinosa / aggiustando il distacco tromboembolico»), per
leggere la prima sezione Dieci poesie d’amore. Poesie che confermano
ancora una volta la posizione centrale assegnata all’amore da Spagnuolo
pur con tutte le sue difficoltà, le «ferite brevettate»
e le fratture che si realizzano nel testo, l’eros che ora compare ed ora
scompare a segnalare o scandire itinerari, percorsi, bivi, temi: si vedano
i primi tre versi della prima poesia con lo stacco fra i versi 2 e 3: «E’
gioia costringerti nei sogni / farfalla controluce / mia nube corrosiva».
Il linguaggio smussa le asperità e propone toni che ritroveremo:
«Leggermente stupita disegni / sillabe qualsiasi / lasciando il tempo
aggrovigliato / da un angolo di periferia». Il rapporto Eros/Thanatos
che tanta parte avrà anche nel volume Fogli dal calendario è
risolto dall’autore scacciando «l’ombra e le teorizzazioni leopardiane
o romantiche in generale» e instaurando «un nuovo tipo di rapporto
imperniato sullo strazio senza godimento, sulla morte che è buio
eterno e mai contropartita dell’amore. […] E’ come se Spagnuolo volesse
tracciare un lungo viale che va dall’amore alla morte (si badi, non dalla
vita alla morte!) e in questo viale porre la battaglia della conoscenza»[23].
Scrive Galimberti: «l’uomo è in grado di proiettare di fronte
a sé un mondo sessuale, per cui accarezzare non è
soltanto toccare, guardare non è solo vedere, sentire
non è solo udire. Lo spazio e il tempo si animano di prossimità
e di distanze ignote alla geometria»[24]. Troviamo
anche una delle prime vere riflessioni in versi sulla poesia di questa
fase: Se
è vero che l’ultima sorgente impalpabile
è poesia carezza
sostantivi germogliati nei
racconti: vibrano
segreti e tu ne incarni la
verosimiglianza imprevista. Sono
versi che richiamano la pulsione a narrare ed indirettamente rimettono
l’accento sull’importanza della memoria in poesia, e che inoltre riprendono
l’argomento della pulsione sessuale e delle emozioni che «non riusciamo
a saziare» che sarà dominante nella fase successiva: «raccatto
segmenti del possibile capestro / alle tue mani irrequiete / ora che strapazzi
l’affanno del pube». Il
precedente volume Fogli dal calendario[25],
che trattiamo un po’ separatamente, è invece una sorta di
interregno, e lo trattiamo a questo punto anche come anticipazione dei
detti temi sessuali. E’ un laboratorio-fucina nel quale si amalgamano le
risoluzioni di vecchi temi e fanno le prime comparse nuove tematiche, in
gran parte tuttora esistenti nella poesia di Spagnuolo. E’ una sorta di
“limbo fertile”, luogo di coltivazione e frutti certi ma anche limbo di
freddezza e stagnazione. L’atmosfera è a tratti gelida, la passione
è quasi assente o quando c’è pare evocata in modo troppo
palese. L’“altra” mantiene qui le sue capacità quasi dispotiche
o demiurgiche («Dalle tue guance / inventi sfumature / impaurisce
il bruciore / allo sterno / batti grottesco le mani»; nonostante
l’aggettivo al maschile nel primo verso pare corretto pensare al referente
solito, visto l’incipit usuale che lascia trapelare l’intenzione
di non rompere con una presenza femminile costante) già nei primi
versi della prima poesia e nell’ultimo verso dello stesso testo, quasi
eponimo del volume, quindi in una stessa unità decisamente simbolica,
l’autore prende atto del tempo che fugge: «Stacco fogli dal calendario»,
realizza la cosa e si mette in gioco in prima persona. Il corpo si muove
in spazi significanti («Improvviso / mozzo abitudini / la dimensione
/ è il rosso della veglia») ed è sempre soggetto all’incrocio
delle tematiche: «Al tuo ultimo giro / sfoglio incubi / giù
per la pelle». Anche in questa raccolta la memoria è in primo
piano fin dal titolo, se è vero, come scrive Corrado Ruggero, che
«il sintagma “fogli del calendario” evoca […] il rivoltarsi della
memoria verso territori già vissuti nel tentativo di riportare l’esistito
entro i termini dell’esistente»[26];
ma proprio il “dal” del titolo rispetto al “del” del sintagma «esclude
l’anonimato della cruda sequenza dei giorni […] e implica – invece – l’incontrollato
emergere dall’archivio della memoria non di sequenze rettilinee ma di segmenti,
a volte brevissimi, del vissuto che emergono spaiati l’uno rispetto all’altro»[27].
Inoltre «i fogli possono essere mischiati, dispersi, riaggregati
come capita o come detta l’umore o l’amore perché il tempo in Spagnuolo,
da un certo punto della sua vita in poi, prescinde dall’organizzarsi in
storia»[28]. Si
fa strada la tematica del sesso che da lì a poco diverrà
autentica slavina: «spietato il mio letto / trabocca distanze»
(si noti da una parte l’esclusivo aspetto antagonistico, dall’altra la
possibile lettura dell’ultimo verso come «trabocca di stanze»,
ossia moltiplica le distanze, gli spazi, forse gli universi isolati fra
loro, e per metafora l’incomunicabilità). Compaiono versi insolitamente
gelidi, come detto, nonostante la magari insolita costruzione metrica e
consonanza, e tanto incisivi da rendere poco importanti eventuali riferimenti
autobiografici («C’è (anche) chi muore d’estate / col carcinoma
alla gola»; due ottonari molto gradevoli all’orecchio) e parallelamente
pur rare oasi di tentato lirismo in cui però l’ermeticità
della scrittura prende il sopravvento: Volentieri
abboccherei al tuo codice plastiche
negre l’ostio abusato. Sùture
e incertezze d’essere
prescelto lungo
il tuo prossimo crollo. Crude
sono anche le immagini più strettamente legate alla medicina e alla
sofferenza, immagini che hanno perso l’aura che si poteva riscontrare in
Melania (in poesie come la 15 si possono persino riscontrare
rarissimi elementi di maledettismo, o compromessi come l’immagine cinematografica
dei fogli del calendario che scorrono): Farnetica
l’aorta un
collega impaurito al
fremito sistolico. Un
attimo il frastuono su
e giù per il letto in
agonia. Ma
il dato forse preponderante è proprio la prima forte presa di coscienza
del tempo che passa e del farsi vecchio del corpo (somatizzazione?), fenomeno
vissuto ora con la liricità prima accennata e forse un po’ abusata,
ora con più personali ed efficaci stratagemmi come sempre fondati
sulla somma di tematiche: «Devo farmi più vecchio / per schiudere
il tuo pazzo guanciale»; «Catturo i tuoi anni / evocando lenzuola».
Riemerge lo strumento d’indagine della scomposizione: «Raccolgo un
ritaglio / vecchio / nel tuo imbuto scomponi / sapore di mammelle / snoccioli
dal grido / presenze sui binari» (si noti l’isolamento dell’aggettivo
«vecchio»). Insomma pur nella sua freddezza il volume mantiene
la carica propulsiva cui Spagnuolo ci ha abituati, e ciò pare cozzare
contro le frequenti espressioni che lasciano intendere un mondo contraffatto,
falso, recitato: «albe contraffatte»; «spendi salti /
poi leghi le vene / al mio abito»; «Reciterò il fondo
/ usuale al sudore»; «Ricompro il distacco / del proscenio».
Tanto che questo aspetto deve forse farci intuire, non in sostituzione
ma parallelamente alla consueta lettura di quest’opera di cui daremo conto
fra poco, una indagine sulla possibilità del distacco dalle cose,
o una indagine sulla capacità di freddezza dell’autore, indagine
che porta a risultati negativi come si intuisce leggendo i seguenti versi,
che paiono alludere ad un intento di partecipare all’essenza delle cose
e ricucire lo strappo fra parole e cose: «i nomi che non hanno corpo
/ aspetto / l’improvviso rattoppo». L’ingresso vagheggiato in Ingresso
bianco diventa qui un inquietante «figure: rupi di Salamandre
/ contese alla tua porta / accogliente» (corsivi miei)
ed il sesso si fa fosco o goffo e perde tutta la sua gioiosità («non
è vuota la tua mascella / all’incastro del pube»; «sguinzaglio
il pene bestia / a bestia»), mentre tornano termini e simboli importanti:
«mentre avvalli gli immunosoppressori / stuzzichi passi / nel vetro
di paure»; «Intagli palmo a palmo / le ischemie di contorno»;
«Fingo ai mattoni / l’ischemia carotidea / stride biancarda»;
«La giada con respiro / qualcuno grida disperato / l’aneurisma modulatore». Insomma
la parola si presenta ancora come stato dell’esserci e linguaggio generatore,
ma sotto le mentite spoglie di una raccolta che finge di essere come le
altre sperimenta la drammatizzazione del poeta sotto un aspetto quasi pseudo-romantico,
del destino fintamente inatteso, schernisce persino lo stupore ed entra
talmente nel proprio gioco da saper coinvolgere tutti i punti nevralgici
della costruzione poetica spagnuolesca. L’autore lavora «in extracorporea»
e, nonostante rilevabili scarti gnomici e piccoli cortocircuiti ottenuti
tramite le frequenti cesure, si prende una pausa o meglio si consegna alla
stasi sapendo di avere le energie per venirne fuori quando vuole, segnando
forse, ecco quale potrebbe essere l’altro motivo di importanza di questo
libro, il superamento di una situazione beckettiana, o meglio un bivio
dopo la comune intenzione della luce bianca ipotizzata circa Ingresso
bianco. Il linguaggio, che si nutre di abbondanti parole appartenenti
al campo semantico del disfacimento del corpo, diviene anche materia sulla
quale intervenire con serietà medica ma senza diventare folli sperimentatori
nazisti, diviene mezzo da amare ma di cui non essere schiavo, insomma materia
cui conferire un merito di fiducia. Un atto di fiducia anche, e forse non
è banale dirlo, nella vita e nella possibilità di continuare:
Spagnuolo è medico, come abbiamo detto, e sa come la medicina, che
si occupi fondamentalmente del prolungamento quantitativo della
vita, sia impotente anche, oltre che talvolta nel rendere effettivo questo
prolungamento, nell’intervenire sulla qualità in modo sufficientemente
intenso, un po’ come Spagnuolo-medico-padre sa cosa avviene durante l’operazione
del figlio ma è impossibilitato ad intevenire direttamente, e reagisce
cercando di introiettare la sofferenza del figlio: «i verbi al passato
si riferiscono in maggioranza al figlio, i verbi al presente si riferiscono
in maggioranza al padre. Segno di quel perpetuarsi giorno dopo giorno del
dramma del figlio nel padre […]?»[29].
La malattia diviene in questo libro, affiancata dalla vecchiaia incipiente,
simbolo stesso della degradazione umana, ma soprattutto, cosa che rende
meno banale l’intuizione, il
vedere la malattia così come
il vedere l’invecchiamento (del corpo proprio o altrui poco importa, sotto
questo aspetto) diventano attentazioni e prove evidenti dell’essere materia
deteriorabile dell’uomo, condizione di fronte alla quale la poesia pare
spesso annichilirsi e scoprirsi inutile, come il medico dei versi sopra
citati[30]. Consapevole
del dolore e nutrito di una fede che ben oltre sgorgherà, Spagnuolo
lotta inesausto, scrive per non sentirsi morto e reagisce alla morte e
al sorteggio del «prossimo crollo» con un surplus di vita,
di passione, di poesia e di umori. *** Si
consideri come spunto per il futuro la differenza, a lato di evidenti affinità,
fra la poesia spagnuolesca e
Serie ospedaliera di Amelia Rosselli,
la prospettiva della malattia e della medicina subìta («Nitrito
di cioccolato tu apri / le mie vene all’odore del / antidolorifico che
urge e / e riempie, il mio sangue di / bolle blu»[31])
e collegata all’eros, e viste “dal dentro” nel caso della poetessa e da
un particolare “fuori” ben adeso nel caso del nostro autore. Della
citata ottica di sminuzzamento (non disgregazione) del corpo abbiamo nella
Rosselli alcuni esempi splendidi, incentrati ad esempio sul piede: «Poi
tocchi il piede, lo riversi sull’olfatto, lo / prendi in mano e t’avvicini,
ad un segno sul segmento / che spunta tra le rocce, che coprendoti le case
/ fanno roccaforte, al tuo piccolo paese…»; «Le ingenue case,
è meglio che Dio rimanga / sconosciuto, il sapore del vetro è
come / la plastica, nessuno odore è così forte / come l’incenso
e si scompone il piede / in parti uguali»; «Attorno a questo
mio corpo / stretto in mille schegge, io / corro vendemmiando, sibilando
/ come il vento d’estate, che / si nasconde»[32].
Si legga anche la poesia Un piede per terra, poi tu sollevi il piede,poi
lo riponi…[33]. *** Nel
cristallino e pregevole volume Candida[34],
tappa fondamentale che manifesta una notevole ulteriore “crescita” nella
poesia di questo autore con soluzioni migliori, risoluzioni meglio architettate
e maggior controllo dei parametri, è manifestata una notevole ambiguità
già nel
titolo (un aggettivo svenevole, un ceppo utilizzatissimo
nell’industria alimentare, la commedia Candida di George Bernard
Shaw ma anche una infezione da funghi legata alla pratica sessuale – la
criptica poesia eponima forse accenna maliziosamente proprio a quest’ultima
accezione). Fin dall’incipit della prima poesia («Manca il sapore
pieno della sera») si getta in pasto alle emozioni intensamente vissute,
alle pulsioni, al sesso e alla passione: «una volta di più
nella carne / ricerchi una logica» (si ricordi la citazione da Ingresso
bianco). Non mancano selezionate e più rare terminologie («alla
storia imprimo / fingendo isteroscopìe, / il nudo / il goduto delle
insonnie erotiche / l’ultimo shunt») e sullo sfondo tematiche sempre
care all’autore, ma in questa fase l’erotismo insito in ogni poesia è
palpabile, talvolta capriccioso e divertito («attraverso le foto
assecondo / pieghe inumidite / mansuete al prossimo confine / per dispetto»)
talvolta teso («Le nostre rabbie hanno il clamore / del foglio /
cammini sull’incauta scansione / non paga / la tua paura d’essere giocabile»)
talvolta docile («Gorgoglia la falda / dispersa / vagoli / accanto
alle mie anàmnesi»), e se il mirino si sposta da esso
può accadere di tutto: Ti
colgo tumefatta nascondi
arbusti impazienti: ritornare
ai giardini intatti, qualcuno
sventola domande a
piedi nudi. La
mia rinuncia ha la sensazione del
terremoto. Nel
poemetto Melania, seconda sezione di Candida, un vasto panorama
mostra il passaggio da un asetticismo intenzionale e ricercato ad una più
accesa intimità: «Ingresso pudico prima della voragine / ingorghi
alla safena, / anella / attraverso chiarori / […] // alterno diete iposòdiche
/ al miocardio invecchiato / innanzitempo, / uomini sconcertati / tra ovatta
e garze / attiro la tregua della febbre / di rapporto incontrollati».
Si fa strada il tema della vecchiaia, sentita come concetto prima ancora,
nonostante tutto, che come dato oggettivo, e in questi momenti di contemplazione,
oasi nella passione, Spagnuolo osserva e sminuzza, seziona nuovamente,
ritorna a metodi dunque (giustamente) non rinnegati: «Le tue ciglia
vuotano il carpo / eviti la mia correzione / slitti il mio braccio / a
tastare un pensiero». Fra le scarse gioie della «TAC»
(l’orrore della sofferenza, come detto sopra terribile ma da non tacere,
è anche palpabile incerti brevi inserti: «La cefalea lo vomita
/ afferra le lenzuola - / non comprende») l’eros si fa, come nuovo
colpo di coda, ennesima attestazione della voglia di vivere e conoscere,
ancora più esplicito: Le
giornate sono piene di te inganni
sotterfugi amplessi lo
scrittoio ingrandisce stiviamo
le mani a pochi frutti: indeciso
utilizzo il tuo cespuglio come
ingresso diretto agile
balzo al
peso del mio camice. Un
«ingresso» nuovo, forse “bianco”, forse “candido”, o forse
non così nuovo in Spagnuolo. E altri “ingressi”, forse proprio in
una salutare ottica di abbassamento, sono presenti: «Rattoppo l’ano
preternaturale / cambio secoli al guscio / insufficiente / potrebbe formarsi
il dubbio / delle coproculture»; «cavalla sbandata / hai sfinteri
di fuoco»; «Il mio dito riscopre sessi / nel mirtillo dei tuoi
occhi: / hai sepolto la successiva finsione / come fossi / un ribosoma»
(si badi alla citazione del ribosoma, parte della cellula in cui avviene
la sintesi proteica). Ma
in questo libro l’amore e l’eros hanno ancora una forte venatura di dubbio,
cautela, conflitto e nonostante tutto anche ritrosia: Evanescente geli
il mio sguardo porti
altrove irriverenti
speranze dove
non c’entra la bellezza contro
le anestesie… o
anche: Un
nome cola trasudato al muro: il
tuo fusto diniega
polluzioni al
di là del letto. Vi
sono dichiarazione in cui l’“altra”, che nell’intenso gioco di strategie,
trucchi e seduzioni si identifica talvolta (e solo talvolta!) nella
poesia stessa (il viaggio in Francia soggetto della prima sezione del libro
è un autentico crogiuolo di esperienze), prende addirittura il controllo,
egemonizza anche il tempo («hai divorato orologi») e si fa
carnefice superficialmente pietoso: «scandisci immunosoppressori
/ innamorata della mia fiducia / rattoppi ragnatele». Scrisse la
Rosselli: «dalla tua faccia proclive / che non biasimava se non quasi,
il mio affaccendare / gli orologi della mente intorno al tuo corpo»[35]. Esplorazione
nell’informale, nelle fratture dell’esperienza mentale e nelle scosse dell’esperienza
fisica - fra termini registrati come lapsus (curiosamente, come quei lapsus
caratteristici della poesia della Rosselli, in quel caso non voluti ma
spontanei e causati da una imperfetta e particolare conoscenza della lingua)
e innesti involontari ma pur significanti, in un acceso interesse per l’inconscio,
ed accessi di passione, lacerti di sensazioni, ansie ed immersione dell’eterna
dicotomia (o ineluttabile intersecazione?) Amore-Morte (oltre che pensiero-azione[36]),
l’eros della prima sezione eponima e la morte e consunzione rappresentata
in Melania e significata non nella notomizzazione di un corpo che
nella poesia spagnuolesca resta vivo, ma nel farsi oscuro della
medicina stessa (quella medicina che preclude
la morte al corpo,
secondo le riflessioni di Umberto Galimberti[37]),
procedimento meno scontato, più sfumato ed efficace oltre che pertinente
all’autore. All’insegna
della pulsione erotica è anche il volume Infibul/azione[38]
che nel titolo gioca forse, come Candida, su un equivoco: qui l’amore,
il sesso e i suoi approcci più delicati (e non) accostato alla brutale
pratica dell’infibulazione. Il dettato è più disteso, il
tono apparentemente più pacato e l’andamento più narrativo
(vi sono persino alcune “poesie di formazione”, se possiamo dire così,
come Millenovecentocinquantaquattro), un vocabolario non eccessivamente
ricco dimostrano maggiore fiducia nell’armonizzazione e nelle episodiche
abituali eterotopie; compaiono deliziosissime parentesi liriche («Il
rischio più dolce accosta un altr’anno / alle mimose / sospeso inganno
delle tue mani per composizioni») ma il pensiero e la razionalizzazione
mantengono momenti importanti («Allo sbaraglio partenze e non arrivi
/ che hanno rispondenza in quel che faccio / rimpiango i suoi termini /
le stesse cose dette ad alta voce / ai miei figli») e l’amore, il
rapporto di coppia (l’unico rapporto possibile, si direbbe!), mantiene
tutte le sue costituzionali difficoltà: «il nostro amore /
rimarrà sempre un coagulo / contrabbandiere lontano come la poesia».
Anche se la donna amata e «trapassapalpebre», si direbbe quasi
carismatica e talvolta dispotica, ha «frantumato timidezze recitando
/ il segno delle commessure: / vorrei toglierti quell’ellisse / che moltiplica
il tempo fallito», il tutto non pare essere somatizzato, anche se
«il corpo piega al privato» e nonostante certe dichiarazioni: Dirupo
ricoveri d’urgenza, la
mutualità flaccida del glande ripieno
d’improperi. Ecco: appari
vano tentativo delle rese. In
questo volume il tempo, se esiste, sembra essere quasi sempre al presente,
quasi un retaggio di un’aspetto dei cantos di Pound, a quanto pare
semplice dilatazione della teoria dell’immagine secondo la quale la poesia
non evoca l’oggetto assente ma lo presenta in modo immediato, o forse di
Michelstaedter. Si fanno però strada riflessioni che ribadiscono
l’importanza della memoria («Terrore antico vivere senza memoria»)
e soprattutto la figura del padre: «Abbandonai mio padre – ossa sbriciolate
/ alterne ai miei capelli ormai bianchi: / ripeto nel suo volto amareggiato
/ rovine di risvegli / bocconi con un guizzo rantolante». Il padre
viene “eliminato” (i suoi modi restano nel figlio) e l’eros sembra avere
via libera: «approdo alle risorse ossessive / dei contrasti»,
«ammiccavo i tuoi baci / riflettendo eduli vagine / nel mio viso
contro le ginocchia». La figura paterna, opprimente, viene estirpata
(un verso come «Accarezzare radici» fa pensare ad una radice
che probabilmente per essere accarezzata deve essere stata estratta), ma
la sofferenza è autentica e palese fin dall’ultima sezione di Melania,
in Candida, straziante tentativo di far tacere un dolore che proprio
nella cercata freddezza trova il suo cavallo di Troia ed emerge. Spagnuolo
sente sempre più distintamente il corpo invecchiare, si sente sempre
più un paziente e dirada ancorpiù i termini medici (una poesia
ricca di termini medici è intitolata Marginalia), rifugiandosi
a tratti quasi infantilmente nel sesso alla ricerca di un «amplesso
puro» dal quale possano forse nascere «sogni perduti o dimenticati
lungo anni spariti in pochi attimi»[39],
un autentico «tragico colloquio / con la morte sicura / che attende
/ ad ogni possibile interruzione» (Poesie 74). Nella tonalità
tutto sommato in modo maggiore del volume non mancano brusche ed amare
modulazioni in minore laddove la riflessione investe il tempo che incide
il suo passaggio sul corpo: «C’era nei tuoi occhi / l’andare storpio
d’una città in delirio; / io scrivo distorsioni / aspettando l’artrosi»;
così nell’ultima poesia di Infibul/azione: «lungo i
mastici scorre furore / raccontano avvenimenti i miei capelli / bianchi
/ un antico disarmo. / Ora mi si fa chiara la tua voce / tesa da anni:
/ chiave per un momento delle idee…». Abbiamo
già accennato al tempo. Accettare il flusso del tempo significa
accettare la possibilità di narrare e in qualche modo anche l’esistenza
della memoria. Come osserva Ciro Vitiello il narrabile «è
ciò di cui bisogna dubitare; la vera, autentica, unica storia plausibile
è quella che sta al centro della parola, come simulacro al centro
dell’universo […]. Gli eventi si presentano sempre in coatta perdenza,
in un’oscillazione senza tempo, perché il Tempo è
un dio dal volto affranto: nei suoi buchi si restringono i lacerti di una
vicenda metapersonale e frantumata come schiacciata sotto una pressa»[40].
In Fogli dal calendario Spagnuolo «in una successione del
tipo sistole/diastole mentale, spappolando il personale e il rimosso entro
una miriade di tracce di materiale oltre la memoria […] viene […]
erodendo al nulla tutta una specifica sostanza di sofferenze e di dolori»[41].
Nel volume Il tempo scalzato[42]
Spagnuolo si posiziona fra due specchi, uno alla prima poesia («La
versione latina nello specchio / fu assurda / …») ed uno all’ultima
(«Neppure la primavera è sottile: / fra gli specchi vezzosi
/ straripare / di frenesie da vecchi»), ed in questo cortocircuito
visivo crea una sospensione del tempo e ne approfitta per scalzarlo, ossia
per denigrarlo e sottrargli credibilità con una manovra quindi più
raffinata, in accordo con la particolare raffinatezza di questo volumetto[43].
Allo «smembramento dell’Io» e all’«azione corrosiva del
tempo e quella raggelante dell’uomo»[44]
che Pamio individua come tema centrale di Poesie 74 Spagnuolo reagisce
ora energicamente prima con uno smembramento del Tu e poi con una sospensione
del tempo! Ormai, d’altra parte, la stanchezza si fa sentire ed occorrono
manovre meno violente: «Presidio il cariotipo / per snellire le mie
corde ormai / assetate: / in sostanza – non comunico più -».
L’erotismo acquista un carattere più delicato e, appunto, raffinato: E’
un treno qualsiasi che
corre a impagliare le imposte; la
connessione del tuo ventre ormai
tutto indagato finisce
col presagire le ragioni degli
inganni scende
assurdo nella
grammatica dei vetri sino
a cercare in termini straniti il
recente rammendo della terapia. Il
momento della stasi è l’occasione per la riflessione: Ci
portiamo appresso il
clamore della corsa il
bisticcio d’innumerevoli sbagli: finalmente
riesco a precisare la
pagina che chiude il
mio catalogo. La
pulsione erotica si fa sempre sentire ma è ora razionalizzata maggiormente,
esaminata, non è più solo una pausa nel flusso raziocinante:
«voluttuosamente ironico / traccio capezzoli incomprensibili, / boccheggio
alla consegna delle / immagini»; si fa anche più assoluta,
più staccata dall’“altra” e nel timore della senescenza si fanno
ancora più palpabili le differenze: «Ogni volta più
stretto a gomitate / indugia il tuo profilo»; «tu destrogìra
dai colori accesi / io levogìro dal timore assurdo». Scrive
l’autore nella nota introduttiva: «E’ il fiato che diventa corto:
il gioco del pube trasforma l’incommensurabile dosaggio dei temi, la scansione
reale dello stupore, l’identità degli esercizi quotidiani».
Ma l’alchimia di Spagnuolo sta nel riuscire a concentrarsi e, proprio in
un momento di sospensione del tempo, trarre nuova linfa dal passato e dalla
memoria (cita addirittura la «Madeleine» proustiana): «Raccontarono
strane circostanze / idee venure da lontano / sterminate astrazioni / tra
i solchi dell’Alzheimer». Possiamo quasi dire, sempre proustianamente,
che Spagnuolo mira nel riposo intriso di senescenza al “tempo ritrovato”
e ad una migliore orchestrazione del «colpo di tavolozza» e
delle «cicale scoppiate»: nella vecchiaia (sentita più
che altro come stanchezza, vista la non certo eccessiva età dell’autore
in questa fase: 58 anni) Spagnuolo identifica il corpo più come
crogiuolo di segni da interpretare e da incanalare come esperienza che
come fine o scopo di un vivere e poetare tenace. Pare forse conclusa l’epoca
dell’affanno e dell’“arare il mare” («è maturata la nostalgia
/ che ha mietuto metalli») a vantaggio di una più calma, ma
non necessariamente più matura, riflessione. *** La
malattia come insulto, la vecchiaia come insulto? Insulti al corpo e alla
dignità dell’uomo? Nel Pre/testo
d’autore a Dietro il
restauro[45]è
scritto che «per non morire i neuroni tollerano insulti e virus:
una tolleranza atta ed interessata a modulare istocompatibilità».
Nuovamente la memoria, dunque, ed il subconscio, quel magma di esperienze,
ragionamenti e segni una cui parte è sempre così difficile
ma prezioso isolare: «Non è facile afferrare il significato
dei simboli che giungono dal passato e che invadono il nostro subconscio»;
«L’inconscio è il luogo della poesia e la poesia è
legata all’inconscio: alla base la libido produttiva, che produce in disamonia
con il reale». E di nuovo l’Eros: «La poesia coincide con l’Eros
ed in esso si identifica per quella forza necessaria ad interrompere il
sopraggiungere di Tanatos, ed il tentativo diviene allora laforza
illimitata per uscire dalla condizione umana sopravvissuta alla espressione
comune […] pronta bensì a codificare l’inesauribile volontà
di ri/sistemare le azioni della carne e dello spirito». In questo
libro si situa il ponte fra carne e spirito, o meglio il ruotare dell’attenzione
verso un’ottica che comprende anche lo spirito, anche l’anima, certo in
un destino che contempla anche la carne. Il
restauro può qui essere letto in una duplice maniera: da una parte
può essere inteso come restauro, mascheratura, forse anche come
restauro di vecchie signore e vecchi signori, e non sarà solo un
gioco se si pensa alla naturalezza con cui Spagnuolo sente di dover far
partecipe il lettore del suo invecchiare; dall’altra il restauro può
essere il velo meschino, perché si adatta perfettamente alle forme
che nasconde e si fa paradossale e invisibile, un velo di iposcrisia dietro
il quale insinuarsi per mettere a nudo il corpo e consegnare la sua vista
al tempo: «Dietro il restauro strappo le fattezze / incolonnate dal
dubbio: / ed il brusio prende vita nei solfeggi / del borotalco impazzito
/ […] Forse in altro luogo la vernice, / i miei lavori scuoiati, quando
il tempo / penetrava i rifugi della casa». Tutto Dietro il restauro
si concentra su questo, sulla scrittura che «invecchia nel controllare
limiti» e deve prendere atto dell’allontanarsi delle gioie ed esultanze
del corpo: «il codice di natiche distratte / dall’ingordigia del
sesso / poveri morsi, traditore il tempo». Ora i sussulti che la
poesia tenta di provocare si affidano non tanto ad un tentativo di trasmissione
fisica dei sussulti del corpo («Un abbaglio il tuo grembo / più
in là degli eventi, / tagliente / il tuo sguardo al fondale del
destino»; qui vi sono magari «domande appena matte / delle
tue carezze»: «ricordi le mie dita spudorate?») ma ai
piccoli terremoti dell’eterotopia: «L’ostrica cambia la tua cataratta
/ sterminando sconforti / condanne e amuleti»; «Rovistavi le
soste / contro le vele e gli archi castigati: / hai programmi d’angoscia»;
si giunge ad uno stato che proporrei di chiamare “surrealismo surrenale”: Irriverente
contro anestesie indura
l’imbocco intercostale: ti
colgo tumefatta nel richiamo. Le
nostre rabbie hanno il clamore del
foglio pieghettato, cammini
sull’incauta scansione della
luna piena fra
le insidie e le stanze al
giro delle reni. La
memoria deve essere catturata, è bene prezioso, quegli scoppi frequenti
in Il tempo scalzato sono deflagrazioni della realtà che
si manifesta non data, non immobile e globalmente conoscibile, supermateria
instabile: «Mi scoppia in un pugno la realtà / nel cappio
dei miliardi / e una volta per tutte / scarto saggezze. // In breve la
variante: / ancora un tentativo / riavvolgete le immagini cadute».
E’ importante quell’”ancora” dopo l’annuncio della “variante” a significare
l’impossibilità di deviare dal percorso ineluttabile e vitale, attraverso
il corpo (i neuroni…), per la conservazione della memoria e per la riconferma
del potere costante dell’amore in un tempo che è tornato a fluire
(«Decidemmo di ripiegare la storia: / sei l’ultima replica»;
«se nulla ti chiedo / nel tumulto della mia vecchiaia / una brezza
conceda d’amarti / come ai gesti di un tempo»; «attraverso
la tela invecchio / inciampando nei tempi»), nell’impronta di una
struttura linguistica riconoscibile pur negli scossoni sempre, peraltro,
più fievoli: «Fra un comune sentire e l’algoritmo / cerco
la quiete ancora ad impedire / coerenze e sconfitte. // Appunto diseguali
tracolli: / un artificio banale nella storia». Anzi forse è
proprio una qualche personale riconferma dell’amore a togliere Spagnuolo
da quella condizione descritta a proposito di Il tempo scalzato e
che per lui era un autentico scacco: «Il tuo seno, / il sorriso che
ho pagato stupori / e striature, / a distruggere specchi». Si attua
ciò che Domenico Rea aveva subodorato nella prefazione a Poesie
74: una riduzione in pezzi degli «specchietti che servono soltanto
a frazionare e distrarre lo sguardo da una realtà ben più
amara, puntando con coraggio verso una ricerca meno brillante e alla fine
della quale […] Spagnuolo tenterà di portarsi a casa un’idea più
sopportabile del mondo». Qualcosa
dunque si è incrinato, come è scritto in un affascinante
distico: «Nelle perle ristrette alla cintura / biancheggiano i nostri
frammenti». Fa irruzione il ghiaccio, che ha crepato dopo tanto lavorio
la cappa: «Così estrema l’ultima stagione / al tuo polso garbato,
/ prima che i sagrati allarghino carezze / il nostro gelo». Questo
gelo compare per la prima volta ed è un autentico segnale d’allarme.
D’altra parte «Già lo sapevo: / i precipizi mutano metafore».
Il precipizio è l’improvvisamente percepita necessità di
qualcosa di trascendente, il desiderio del divino, la nuova cura dello
spirito di fronte al quale il corpo, che pure, come detto, non perde importanza
ed è sempre veicolo di sentimenti, «è già l’ultimo
imballo». In questo volume non sono poche le allusioni al sacro:
«Contro il Vangelo l’azzardo delle rose, / ogni gesso sul vero del
rimpianto / dove è chiusa la testa a capogiro»; «prendo
fede all’assurdo / e nei prelievi disgiungo la mia arsura»; «una
pioggia di croci / rotola devozioni» (bella immagine che ricorda
il dipinto Il sogno di Cristoforo Colombo di Salvador Dalì,
1958-59). *** Intermezzo primoA
questo punto del percorso spagnuolesco sembra strana l’uscita di Attese[46]che
appare un’altra opera “di pausa”, opera meno organica e più aperta
a tematiche sociali e ad esperimenti parodici («Siamo nell’ombra
accesa di malia: / la mano tua è nella mano mia…»; da notare
anche l’uso frequente del passato remoto alla II pers. sing: «Allontanasti»,
«Dicesti», in opposizione al normalmente predominante imperfetto)
che andranno praticamente scomparendo nella poesia spagnuolesca così
come sono venute. Come sempre non mancano riferimenti al corpo, come quello
della seconda poesia in cui l’esplorazione di un corpo/paesaggio si fa
cartografia/palpazione, all’«intercostale gonfio di memorie»
e al sesso qui rinvigorito ma come ricalcato su qualosa di preesistente:
«Una corda al lenzuono / avvolgi, complice nei sudori, / al bacio,
/ le torce a polpastrelli / diffidente per giochi di caligine». E’
in realtà palese la ricostruzione, l’evocazione, «con
le caviglie immerse nel passato»: «Affondo le tue mani / nei
miei capelli, a metà fantasia, / a metà traboccante di stanchezza»;
«Sperduto fra la bocca ed il tuo ventre / mi ripeto gli istanti,
appagato / per gelosie d’amante sconosciuto». Il volumetto, beninteso,
ha una sua pregevolezza ed è interessante, anche per la “liricizzazione”
di alcuni temi (come quello della scomposizione che si tramuta in un quasi
montaliano «recidere gli spazi»), ma nel complesso appare avulso
dal percorso che stiamo cercando di definire. Questo probabilmente non
semina dubbio sulla veridicità del nostro schema, ma conferma la
persistenza di determinati temi in Spagnuolo, nonché la sua propensione
ad una poesia sincera e sensibile ai ritorni come ai rigetti. Intermezzo secondoSi
è parlato dell’ambiguità del titolo Candida ed all’identificazione
di un riferimento forse non del tutto insensato alla commedia Candida
di George Bernard Shaw. Il riferimento al teatro non è casuale:
Spagnuolo è autore di una riuscitae
decisamente organica opera teatrale in due atti intitolata Il cofanetto[47]nella
quale uno dei protagonisti è un medico che spesso riflette proprio
sul panico «che mi assale quando un paziente mi pone con violenza
ed urgenza di fronte alla necessità di una diagnosi rapida, pena
la possibilità di una catastrofe» e sulla tragicità
della morte di un paziente deceduto nonostante le «cause naturali
contro le quali io ho cercato inutilmente di combattere», e non accetta
che la sua responsabilità sia terminta in quell’istante fatale,
permettendosi tuttalpiù di evadere un po’ con la fantasia. Ma dall’esterno
viene indifferenza: al medico Franco Liliana risponde che lui si ricuce
«dentro un agguato da quattro soldi per l’apologia del drammaturgo».
In effetti Franco ha slanci simil-poetici quasi eruttivi: «La mutevolezza
dei pomeriggi ferisce come conchiglie di porcellana, candida come un grappolo
di trombe…». Centro della rappresentazione è il furto di un
cofanetto, oggetto bello più che prezioso mai nascosto in cassaforte
perché le cose belle «sono fatte proprio per essere godute
per quel che rappresentano», ma Liliana arriva impietosa, quasi contraddicendosi,
a dire che si sono accorti ti quanto esso fosse bello proprio nel momento
in cui è sparito, una situazione in qualche modo parente della Lettera
rubata di Poe. La discussione, con il supporto di un’altra coppia,
si fa sempre più intricata e sconfina immediatamente nella riflessione
sull’impersonalità, la sofferenza, la bellezza, l’ipocrisia, l’odio
e l’amore che possono essere ugualmente «una lente deformante».
Non staremo qui a discutere le opinioni del protagonista circa la caduta
delle ideologie e del postmoderno, che richiederebbero uno scritto a parte
circa queste riflessioni in tutta l’opera spagnuolesca, ma ci concentreremo
sul riconoscimento della sofferenza da parte dei suoi personaggi,
che molto spesso rischia di precipitare significativamente e volutamente
nell’accademico. Ad esempio Cuck sostiene chiaramente alla fine del primo
atto che paiono inutili queste dotte riflessioni e che sarebbe vantaggioso
vivere nel consumismo ed essere «abitatori del tempo […] sempre eguale»
nel quale è difficile, rintracciare «le opere e i giorni»
(Esiodo?), in un progetto di narcosi. Il
secondo atto si svolge in un ospedale dove Franco lavora sommerso dalla
burocrazia ed in cerca di «concretezza, concretezza…». Nel
suo studio viene intavolata una discussione con Elisabetta, che già
prese parte alla precedente discussione, donna che ha tutte le caratteristiche
di dispotismo individuate nell’“altra” di molte poesie ma che dovrà
sbottare e confessare il suo terrore dell’impotenza e della paralisi, il
disagio di un mondo «incentrato sulla vacanza di tutti i valori»
ed in cui «l’apocalisse è l’altra faccia di un ottimismo beota
e sconsiderato». Condivisibile la ricetta intrisa di disperazione
di Franco: «E’ come nella psicopatologia: vi sono fasi maniacali
e fasi depressive. E l’esercizio più difficile è proprio
quello di mantenersi in equilibrio». Sullo sfondo sta sempre Vittorio,
malato nel corpo e nello spirito che, per una sorta di traslato, sembra
espiare le pulsioni poetiche di Franco e come proprio Franco dice è
«stato stordito dalle sue illusioni di scrittore, alla ricerca di
una maggiore libertà di fare e di dire». Tornano allora la
malattia e il disagio, forse la somatizzazione. L’aspirazione all’assoluto
è quindi qui lo stadio successivo dell’aspirazione poetica, tenuta
in uno scrigno-corpo che la malattia ci porta via quando meno ce lo aspettiamo.
D’altra parte, in tono con Qohelet, verso la fine del primo atto Franco
dice che «La vita di ogni essere umano si riduce a poche frasi e
a poche azioni, che sono la parte più eletta della sua personalità:
tutto il resto è inutile farsa». Dice anche: «Lo so,
tutto è destinato a fallire in mancanza di un riferimento tangibile
o meglio superiore…»: l’esigenza di qualcosa di superiore che giustifichi
e conferisca senso è sempre più chiara. *** Nell’opera
spagnuolesca sono state diverse le attestazioni di una fede allo stato
germinale (nel tessuto della poesia, non necessariamente nella vita quotidiana
dell’autore): come scriveva G. Battista Nazzaro nella prefazione a Fogli
dal calendario «L’uomo concepito dalla poetica di Spagnuolo,
è un essere vibratile, profondamente segnato, catolicamente consapevole
[…] La porzione di fede che lo sorregge nell’agire non fa che accrescere
la sua angoscia per il dolore». Pellecchia già rilevava la
vocazione alla preghiera, ma notava giustamente che «anche la preghiera
bisogna saperla leggere tra verso e verso, perché non è palese
invocazione, bensì lo sciogliersi di tentazioni, l’arrovellarsi
per non aver saputo conservare una fede, il chiedere pietà per una
speranza forse inutile»[48]. Evidenzamo
le due attestazioni più evidenti: §«distacco
consuete razioni / il costo del tuo respiro / a conghie d’innocenza //
nella mia riserva / una porzione di fede» (Fogli dal calendario,
p. 59 – ultima poesia del volume) §«La
bocca riconosce la smorfia del Cristo» (Infibul/azione,
p. 31) L’esplosione
di tale impulso religioso (ma non fideistico), dopo un simile lungo cammino
in una valle di erotismo e piacere senza peccato, ma anche di sofferenza
senza espiazione, si ha con l’uscita di “io ti inseguirò”. Venticinque
poesie intorno alla Croce[49].
Con lo sguardo privilegiato di oggi, più panoramico, vediamo chiaramente
che Spagnuolo ha fin qui sempre operato in una ricerca del senso, forse
talora ostica perché perseguita con un armamentario tecnico e retorico
abbastanza vario ma costante e tenace nel suo rifuto sia dei procedimenti
avanguardistici sia dei ritorni ovunque disseminati nella poesia contemporanea
alla poesia lirica semplice ed acritica. Il senso cercato nella poesia
ora viene chiesto ad una esistenza superiore, e non è una sostituzione
della parola (anche perché dio è Parola) ma un di più
forse prima ancora che un oltre. L’autore “insegue” la Croce
e dio, inseguimento quasi amoroso, quasi passionale di una Essenza che
quindi fugge e sembra precipitare verso un destino di Assenza. Gli strumenti
si fanno nuovamente “magmatici”, se così possiamo dire, multiformi,
contraddittori, persino, se ciò serve ad aumentare le probabilità
di successo. Il
volume è composto di venticinque poesie a commento o giustapposizione
di altrettante immagini sacre scelte con grande gusto, immagini che non
sono state scelte solo per la loro bellezza o importanza artistica, ma
per il senso che esprimono e per il senso che possono far scaturire collidendo
con i testi: «il tuo pensiero confuso al mio pensiero, / il terribile
gesto della morte, / che esalti all’improvviso / il mio grido d’amore non
più sordo / nell’eco» sono versi, tratti dalla prima poesia
del volume, in fondo tragici, quasi di scacco, minacciati da un’autoreferenza
terribile nel grido non più sordo ma all’interno dell’eco… il grido
stesso… tutti elementi in netta opposizione con la prima immagine, La
trasfigurazione (Chiesa di Berat, XVI secolo). Pare quasi un commento
acre l’incipit di questa poesia: «Le tue mani di perfetto marmo /
hanno la ruggine delle preghiere, / trasfigurate dall’antica promessa»,
una sorta di contemplazione priva di ingenuità e ben vigile. Sembra
che Spagnuolo veda il Cristo sulla Croce e lo identifichi come un corpo-crogiuolo
di sofferenze terribili, pur se dotate di senso. Ma a leggere bene qualcosa
non convince. Questi versi non paiono giungere da un uomo che ha deciso
di accontentarsi? Qualunque
volto sarebbe il Tuo miracolo ove
trovare pace, ove trovare il cenno, ove
il destino spezzi brame di luce. Speranze
che la mia stagione, come
radice di una pianta vecchia, punzecchia
nell’inverno: e
almeno nel sorriso ci
sia impaziente il credo del perdono, l’eco
della Tua voce: domani
sarai con me nel paradiso… E
questo altro brano, in cui dall’abbandono saggio di una fatica di Sisifo
si crolla in una accettazione acritica? La
terra e il cielo dove
senza posa rotolammo macigni son
divenute lande inaccessibili. Sapremmo
giudicare ciò che è giusto ognuno
con la sua testa confusa in
questo mondo accessorio? Qualunque
parola Tu dica sarà
dorata dal timbro del riscatto. Non
stiamo dicendo che l’operazione dell’autore non sia sincera, anche perché
ci pare di aver individuato numerose tracce che avrebbero dovuto portare
proprio a questa tappa, ma ci domandiamo solo se l’inconscio spagnuolesco
ha tratto giovamento da questa situazione o piuttosto non si sia trovato,
in questa fase, a dover pagare uno scotto per poi riconquistare una maggiore
libertà. Il «silenzio […] / fra i labili corpi ancora stupiti»
appartiene veramente all’arteria principale dell’autore? E’ abitato con
piacere questo luogo «ove distendo appena i miei discorsi»?
Che senso hanno gli arcaicismi che improvvisamente invadono ed ammortizzano
il cammino spagnuolesco in quest’opera? E’ certamente sentita la lontananza
da «l’orologio del mondo, / che rintocca troppo lentamente il tempo»,
però mentre è «sempre più lento e fioco / lo
scorrere del sangue nell’aorta» gli occhi «affamati di resurrezione»
si limitano a «socchiudere le palpebre». «C’è
un silenzio dove ripeto abbandoni» credo sia uno dei versi che più
chiaramente significanti l’atmosfera tutt’altro che positiva del volume;
sono le «ombre della fede» ad essere strette dall’autore, e
anche il gioco quasi scaramantico di stare «con le braccia in croce
/ sperando di rompere i silenzi» denuncia clamorosamente l’Assenza,
la certezza di parlare a una speranza e non ad una Presenza certa anche
solo per sé. Torna la figura del padre, ma come attutita: «Parlavo
con mio padre ed ho commesso errori, / gridammo più dolce / nel
cuor della terra, allontanando la morte, / bevendo le sere nella casa dell’uomo
/ che gioca con le serpi»; la poesia si sente mancare e tenta di
recuperare con una selva di citazioni, dalle movenze ad esempio alla Gibran
a citazioni più esplicite da poeti (qui Quasimodo, altrove ad esempio
il pastore errante di Leopardi) a numerose citazioni dalla Bibbia
(una
per tutte il piegarsi delle ginocchia, che rimanda ai celeberrimi passi
di Filippesi 2:10, Isaia 45:23, Romani 14:11). I momenti
forse più genuini si identificano in poesie come E se un giorno
ingannerai nelle pieghe… che giungono alla minaccia in caso di tradimento
divino. Verso
la fine del libro si intuisce però un progetto più nitido:
sperimentare il rapporto diretto con il divino è stata una prova
che si è dimostrata deludente, il dubbio, che fa parte della forma
mentis corretta dell’autore, prevale. Di fronte all’eccessiva vaghezza
di questi pensieri «Sgomento, / le ginocchia infiacchite piegheranno
/ altri bersagli» (si noti il brusco diventare violento dell’azione
delle ginocchia), l’immagine della crocefissione forse è un’immagine
di mortificazione della carne che Spagnuolo non può tollerare (tra
tutte le immagini, tra l’altro, una sola è una crocefissione!) ed
il corpo stesso dell’autore si dice «stanco al mormorio della luce»:
«Perdonami / se vedo le ossa prima della carne / e la carne prima
del Tuo sguardo / sospeso negli angoli». Anche il facile fluire del
tempo qui appare ingannevole: Un
merletto il trucco dell’amore, affascinando
quella ruota che
nasconde memorie o
misure del tempo… il
tempo fermo
ancora fra gli stretti limiti del
dubbio. Il
dubbio che
mi costringe a tentare prostrato le
bende della mia follia. Insomma
il verbo che si fa carne non fa per Spagnuolo, a cui interessa la ricerca
di un senso insito nella parola ed una semiotica del corpo, una diversa
interpretazione per conferire solida impalcatura alla sua vecchiaia. Egli
oppone al misticismo la carne, lancia «contro il Vangelo l’azzardo
delle rose» (Dietro il restauro, p. 11), «la rosa odorosa
di lode contro la ginestra profumata di consolazione, il deserto di contro
il paradiso», fiori comunque che non possono entrare a far parte
di una ghirlanda perché «monadi vive, veri archetipi»[50]. *** Rialfabetizzare.
Togliendolo dalla mortificazione e dall’esibizione della sofferenza procurata
Spagnuolo si riimpossessa del corpo e delle sue sofferenze ineluttabili,
ne fa nuovamente parola poetica sottraendolo al brusio della luce e al
silenzio mistico, lo rialfabetizza alla parola poetica e rialfabetizza
la poesia alla grammatica del corpo. Roland Barthes in un suo scritto[51]
parlò opportunamente dei “corpi”, che hanno sostituito “il corpo”,
e nota fra l’altro come nel cristianesimo «c’è molto chiaramente
un problema morale e metafisico con il corpo», ma oggi assistiamo
a «una sorta di reviviscenza di questo problema della sacralità
del corpo in aspetti assolutamente laici, contemporanei della nostra vita:
tutto quel che riguarda la cultura riflessa del corpo, le ginnastiche,
i tentativi di yoga o di educazione del corpo» e via dicendo, considerando
poi che «quella che noi chiamiamo l’estetica del corpo umano è
stata innanzitutto un insieme di rappresentazioni legate alla religione».
Spagnuolo rifiuta, abbiamo visto, il corpo legato alla religione e per
di più salta a pié pari l’importanza (hegeliana?) del vestito
e della sua capacità di dare senso al corpo, specialmente al “corpo
moderno”: il corpo spagnuolesco è invece significante in sé,
oltre che senza tempo, o forse significa meglio considerato proprio nella
sua nudità. Una sorta di ritorno ad una situazione primitiva (anche
se solo sotto questo aspetto) in cui l’uomo non ha per molti millenni
potuto vedere il proprio corpo in modo decente e nella sua interezza: si
osserverà infatti come il nostro autore descriva il corpo altrui
nei suoi particolari, ma descriva il proprio solo in chiave di pulsione
sessuale, malattia o invecchiamento, e quindi in qualche modo dal di
dentro. Ci troviamo in quello che Alberto Cappi chiama «teatro
del corpo e del segno, ove hanno luogo la nudità e l’interpretazione,
l’innocenza e l’astuzia», in cui Spagnuolo è «conscio»
e «quasi un narratore onnipresente» ed i cui testi «tagliano
la scena quanto il tempo e la carne in un’aggressione oggettuale, forse,
ma non solo, di kleiniaia eco»[52]. L’ultimo
volume di poesia da Spagnuolo finora pubblicato Rapinando alfabeti[53],
certo fra le opere migliori del nostro autore, evidenzia per l’ennesima
volta fin dal titolo la violenta pulsione che ne anima tutta l’opera, un
desiderio di possedere (in senso sessuale e non) anche a costo di rapinare
e saccheggiare se il fine giustifica l’operazione, desiderio implicito
già in molti versi di opere precedenti dei quali diamo ancora una
volta un ristretto campione (corsivi nostri): §«I
tuoi occhi saccheggiano ricordi» (Dietro il restauro,
p. 31) §«concave
mani / nel più remoto saccheggio» (Dietro il restauro,
p. 33) §«Decompongo
orologi alle frequenze / in voluttuose cesure, / rapinando attenzioni
all’alfabeto» (Attese, p. 34; il parallelo alfabeto/corpo
si fa qui più stringente) In
quest’ultima opera, strutturata ancora come una serie di variazioni sul
tema pur con inserti significativi e nutrienti, le parole si sono sbarazzate
di ogni senso opaco, si sono fatte precise come esito di una decisione
compiuta più che (qui sta la differenza con le opere dei primi anni
Ottanta) di un’intenzione notomizzatrice e, pur mantenendo sempre il fondale
istintuale, fanno risplendere il loro pathos ed eros altamente dignitosi
«senza che l’intelletto e la ragione impongano il loro dominio, restando
solo delle funzioni conoscitive, delle possibilità strumentali per
l’intelligenza che guida e ordina la ricerca di frammento organico di
un organismo dove misura ordine armonia siano, dove prevalga e risplenda
il modo della sintesi e dell’unità»[54].
Attraverso questo vetro non più opaco possiamo ritrovare i luoghi
tipici dello Spagnuolo primitivo: l’erotismo, una comparsa del padre, la
vecchiaia, «l’aorta e Melania», «l’incontinenza delle
arterie», l’immagine, come abbiamo detto, della Rosselli: «L’immagine
del piede nudo / il tuo, / carbonizza i percorsi»; un poeta nuovamente
in possesso dei suoi paesaggi corporali e delle sue intatte pulsioni, come
detto senza nodi o inceppamenti e chiaramente maturato attraverso un percorso
fondamentalmente di sofferenza e collaudo su se stesso. Il dolore resta
una delle tinte fondamentali degli sfondi spagnuoleschi ma fa ormai parte
di un bagaglio quasi totalmente digerito. Quella del nostro autore non
è forse mai stata una poesia difficile ma certo è
stata una poesia complicata
ed una poesia della dispersione;
ora si è compiuto il passo forse definitivo verso nuovi lidi
di stretta rispondenza della parola - che pure è ora dura ora eterea,
ora incisiva ora suadente - ad una vita meno incalzata e ad una realtà
meno difficile da conoscere per intero, o almeno in gran parte, ma al quale
non bisogna mai rinunciare a contribuire con un apporto personale. Una
sorta di approdo, per chiudere il ciclo aperto con le riflessioni musicali
dell’inizio, ad un neoclassicismo stravinskiano. D’altra parte un’altra
direzione di indagine interessante sarebbe proprio quella circa le citazioni
musicali, la più evidente delle quali in questo libro potrebbe essere
quello della «regina della notte» (W.A. Mozart, Il flauto
magico, atto II), saldata sei versi dopo: «mentre il sole serpeggia
/ la nostra partitura». Osserviamo
per inciso, siccome un’analisi delle varianti sarebbe probabilmente prematura
(anche se in futuro sarà auspicabile), come questo libro sia un
esempio lampante del grande lavorio di cui si parlava all’inizio di questo
saggio: molti testi del volume sono stati pubblicati in antologie e riviste[55],
e praticamente tutti hanno subito variazioni ed aggiuntamenti spesso non
minimi, notevoli tagli, spostamenti di sezioni e modifiche della scansione,
alcune sezioni sono state asportate ed inglobate in altri testi. Questo
lavorìo in fondo può essere assimilato alle scomposizioni
del corpo di cui abbiamo parlato, che compaiono anche in Rapinando alfabeti,
per un istante al limite di «un abbraccio vivisezionato», talora
assumendo una tinta fosca: «Rapinando alfabeti / decompongo lo spazio
di ginocchia, / nella spanna di sillabe e cesure»; «Disseziono
parole per vendetta / confuso fra le crepe del silenzio»; «Labbra
o scomposizioni / per le reni / quando il tuo scrigno stacca rosmarini
/ e la carne mi spinge nella tomba». Testi
d’amore, recuperano una prassi poetica che vive di ricordi, di simboli
e microracconti, la parola si fa calamita di ricordi che sostituiscono
il sogno («il sogno / strappa le membra ad una ad una») e vogliono
rendere giustizia a momenti ed occasioni magari incompiuti suggerendo forse
la scarsa affidabilità di un Altro/Altrove che renda i meriti e
premi l’uomo: «Non offro che parole: / ultimo paradosso per
svegliarti. / […] e riscopro il colore delle tue pupille, / le immagini
che annottano, / che avanzano, sempre in contraddizione / tra la
veglia e il sonno» (corsivi nostri); «E’ la terra al tramondo.
/ E’ l’enorme fardello che la fede / abbandona / alle spalle della nostra
vicenda» (si noti il verbo isolato ed evidenziato facendone verso);
«Sconcertano parole del Vangelo / fra le arcate della mia stanchezza»;
«Lascia cadere la fede: / beffa che mi compiace». Una esortazione,
anche, a non vergognarsi dell’amore e dell’eros («l’orecchio attento
al sospiro, / la mano accorta al contatto, / il vello inumidito dall’arsura…
/ Non ho tempo a correggere i ricordi: / corri al sussulto!»; «Le
prime indiscrezioni / quando nel palmo attanagliavi il pene, / a bussolotti,
/ a scherzi di pressione, / spirale inesorabile e sconnessa / per l’artificio
delle tue mucose»; «l’indefinibile pasticcio / della tua vagina»)
e del tempo che passa («Il luogo che fuggivo da tempo / era il tempo,
/ che abbatteva sagome / nelle incerte minuzie, / che devastava il mio
volto, / ormai lontano dalla primavera») come in passate opere ci
veniva insegnato che non bisogna vergognarsi del dolore, che bisogna vivere
e non sopravvivere. Qualcosa di simile, probabilmente, alla caverna platonica
forse adombrata in questi versi: «Poi la caverna scivola nei simboli
/ un giorno, un giorno ancora / a rubare apparenze: / sfidando il sogno
/ lotterò coi puledri». Da
ascrivere non alla tendenza della scomposizione, però, ma piuttosto
ad un erotismo qui deflagrato in un’intonazione fanciullesca e a tratti
svagata ma mai incosciente, è l’indiscutibile predominanza sulle
parti del corpo citato delle «cosce» (“avere buona coscienza
significa disporre di buone cosce” come scrisse Poliziano), che in questo
libro compaiono ben otto volte (alle pp. 23, 30, 34, 41, 55, 56, 64 e 82).
Parte del corpo particolarmente adatta a sguardi maliziosi ed espressioni
giocose, a ben guardare compariva già non poche volte nelle opere
precedenti, quasi “anticipata” in Candida: «emergenze / al
pigolare delle gambe»; «Le tue gambe accedono sorprese: / nostra
è la recita»; una parte del corpo (fuor di metafora), anche,
che ha visto non poche trattazioni nella letteratura: Dante (Inf. XXV
74), Cecco d’Ascoli, Folgore da San Gimignano, Boccaccio (Decamerone,
VI 4), Boiardo, Tasso, Marino, su su fino a Campana e Moravia. Una simile
presenza si può rilevare ad esempio in Ungaretti, il cui Il dolore
non è peraltro così lontano da molti testi spagnuoleschi:
«Tonda quel tanto che mi dà tormento, / la tua coscia distacca
di sull’altra… // Dilati la tua furia un’acre notte!» (Giunone
in Sentimento del tempo); «Nelle cosce fumanti della terra
mi scopro a ridere. / Addio desideri, nostalgie» (Lucca in
L’Allegria). Diamo il solito breve florilegio: §«sullo
scaffale alletta / coscie sfiatate» (Ingresso bianco, p. 15) §«Nessuno
mai seppe la raffica / per fiato e orchestra / tremante cataste e giochi,
/ o della calamita protesa / nel gusto di beccare improvvise / le tue cosce»
(Dieci poesie d’amore, p. 11). §«Edwy
/ conosce la mia sete / all’imbrunire della sera le sue cosce / catturano
il mio viso» (Infibul/azione, p. 43) §«a
fatica già recolino l’udibile, / irigidito fra le tue cosce»
(Il tempo scalzato,p. 9) §«Come
debutto della fantasia / ho trovato risposte alle tue cosce» (Dietro
il restauro, p. 51) §«Sullo
sfondo il candore delle cosce. / Stroncarti ancora in un sussulto»
(Attese, p. 34) Cosce
da accarezzare, mordicchiare, e proprio il toccare appare un elemento fondamentale
della strategia di riappropriazione operata in questo libro, un libro che
si ciba ancora una volta di quell’eterogeneità di istanti e sentimento
che costituiscono la vita. Nel brusio delle “disordinate convivenze”, come
dice Giuliano Manacorda con efficace formula, in cui certamente «molte
voci, nessuna voce: ritardati epigonismi neoavanguardisti, riprese realiste,
amore per i classici, sperimentalismi bislacchi, confessioni non richieste
ed effusioni misticheggianti»[56]
e via dicendo, in tempi barbari in cui una paradossale forma delicata e
superflua come la poesia sopravvive egregiamente (in un’ottica principalmente
quantitativa)ma non si sa (non si
sa?) se come nervatura o cartapesta, come investimento o esibizionismo,
Spagnuolo tenta alcune strade incidendo però sempre il proprio nome
in modo piuttosto duraturo, e salvandosi dal «rischio dell’espressione
depotenziata o per rabbia o per autocommiserazione» solo grazie al
rinascere del «gusto della trasgressione» e all’adozione di
un linguaggio particolare il cui carattere più evidente è
appunto l’uso di un vocabolario medico «che non è, beninteso,
una novità assoluta, ma quanto basta per dare un accento imprevisto».
Scrive Dante Maffia[57]
che non sono pochi i casi di medici-poeti, ma allargherei il discorso ai
poeti-scienzieti in generale (ribadiamo che Spagnuolo non può dirsi
un precursore, pur essendo uno dei casi più interessanti, ed occorre
notare che dai primi anni Novanta si fa più insistito il richiamo
anche agli strumenti della musica e della pittura), che hanno contribuito
ad un rinnovamento lessicale della poesia novecentesca. E’ proprio l’ultimo
verso di Rapinando alfabeti a permetterci ora di parlare ancora
una volta delle spagnuolesche «alterne agonie» in questo lungo
viaggio intorno «Al corpo e al senso»: ad esempio, infatti,
anche se nel testo 61 l’autore si dice stanco di ripetere che «le
palpebre / non somigliano più alla tua giovinezza» nella poesia
immediatamente successiva dice di vivere «ancora per la tua spiga,
/ […] per le tue vene, / in cui trascini illudendo / questa mia follia».
Come detto sopra il sangue-inchiostro in qualche modo deve eruttare, fluire,
espandersi lottando contro «il disastro del senso» che una
«angioplastica / sarà capace di ripronunciare», siccome
«la poesia somiglia al fango / nell’impasto emorragico / di un’arteria
in dissezione». Come
osserva Alfredo Giuliani «naturalmente la “poetica” di un vero scrittore
è sempre infinitamente meno ricca della sua poesia»[58],
Spagnuolo però non se ne preoccupa pago della sincerità della
sua poesia quanto non pago dei limiti della vita umana e si congeda con
un distico di grande tenerezza: «la mia vita racconta quei progetti
/ che varrebbe la pena districare». [7]
Raffaele Pellecchia, Poesia e poetica di Antonio Spagnuolo, «Prospettive
culturali», aprile 1978
[13]
Dal simbolismo alla spiritualità, «Hebenon» anno
VI s.s. nn. 7-8, aprile-ottobre 2001, pp. 120-131 (121), da cui citiamo;
poi ripubblicato con il titolo Gli approdi di Antonio Spagnuolo
in: Dante Maffia, La poesia italiana verso il nuovo millennio, L’assedio
della poesia, Napoli 2001, pp. 233-248.
[14]
Gio Ferri, La ragione poetica, Murzia, Milano 1994, pp177,
179. La citazione di Ferri è da Sole nero – Depressione e malinconia
di Julia Kristeva (Milano 1988). Ferri accenna circa Spagnuolo e altri
poeti alla categoria del neo-barocco, per la quale si rimanda al suo volume
Forme barocche nella poesia contemporanea (L’assedio della poesia,
Napoli 1998).
[15]
Il concetto è ripreso in: Corrado Ruggero, Tempi e voci in Fogli
dal calendario di Antonio Spagnuolo, in: Verso dove, Glaux,
Napoli 1984. Si tratta di una minuziosa analisi, sensibile al sentire dell’autore
ma anche e soprattutto interessante nell’analisi filologica.
[29]
Corrado Ruggero, op. cit., p. 51. Nei volumi di Massimo Pamio (op. cit.,
pp. 81-93) e Corrado Ruggero (op. cit., pp. 42-43) sono chiariti i presupposti
autobiografici di questo volume: l’operazione subita dal figlio dell’autore
per la sostituzione di due valvole cardiache malformate con due valvole
artificiali, curioso contrappasso per Spagnuolo, che è specialista
in chirurgia vascolare.
[30]
Cfr. Raffaele Manica, Ossessioni del corpo disfatto nei versi di Antonio
Spagnuolo, in: Discorsi interminabili, Altri Termini, Napoli
1987, p. 216. Del tutto concentrati sull’interpretazione di una raccolta
che parla del corpo assalito dalla malattia sono anche G. Battista Nazzaro
nella prefazione e Massimo Pamio, op. cit., pp. 81-93
[35]
Amelia Rosselli, op. cit., p. 400. Nel volume citato l’ultima parola risulta
per un refuso “copo”, ma adottiamo il termine “corpo” in base alla consultazione
del volume Antologia poetica (Garzanti, Milano 1987, pp. 98-99).
[36]
Alcune poesie di Candida furono antologizzate in un volume intitolato
Il Pensiero, il Corpo a cura di Fabio Doplicher e Umberto Piersanti,
Quaderni di Stilb, Fano 1986
[43]
Parlando di Il tempo scalzato è
necessario raccomandare la lettura delle consonanti (talvolta
in modo sorprendente) opere di Claudio Mancini, in special modo le raccolte
poetiche Oh, cielo! (all’antico mercato saraceno, Treviso 1990),
Sul perché del tempo (Edizioni del Leone, Spinea 1995), La
logica del dubbio (Soc. Ed. Il Ponte Vecchio, Cesena 1999) e Il
segno e il sogno (L’autore, Firenze 2001); da leggere anche, per la
situazione dello specchio, il romanzo Lettere a Francis (Soc. Ed.
Il Ponte Vecchio, Cesena 1997). Di diversa provenienza geografica (Spagnuolo
napoletano e Mancini bolognese) e di comune formazione medica, i due autori
trovano qui un significativo punto d’incontro prima e – seppur in maniera
minore - dopo il quale sta una accentuata divaricazione, ma che sarà
bene non ignorare.
[50]
Silvio Endrighi, Ateismo, Book, Castel Maggiore 2000, p. 185. Il
discorso di Endrighi verte in realtà più che altro sulla
cristallizzazione di due simboli floreali danteschi e leopardiani ma ci
è parso il caso di citarlo anche in virtù della non rarissima
comparsa della «ghirlanda» nell’ultima poesia spagnuolesca
e a ben guardare del particolare rovesciamento che egli opera. Là
dove per Leopardi la ginestra è vita che sa nascere anche nell’aridità
e per Dante la rosa è immagine stessa del paradiso, Spagnuolo adotta
una rosa non-mistica, una Rosa moriens: «Nel palpito ammirevole
anatema / della morte imminente ed eminente, / la sfida corolla della rosa,
/ sfiorata dolcemente, docilmente / si stacca dalla vita» (S. Endrighi,
Ateismo, p. 161).
[54]
da Ordo italicus. Genova – Napoli, due capitali della poesia, a
cura di Ettore Bonessio di Terzet, L’assedio della poesia, Napoli 1999,
p. 36
[55]
«Hebenon», «Il cobold», «Lo stato delle cose»,
«Porto Franco», «Secondo tempo», «Malvagia»,
In atto di poesia (a cura di Alberto Cappi), Ordo italicus,
cit.
[56]
Giuliano Manacorda (a cura di), Disordinate convivenze, L’assedio
della poesia - Glaux, Napoli 1996, p. 6
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare: Otto Anders |