Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

La poesia ha un destino melanconico
di Corrado Ruggiero
 

 

Quando usci il Meridiano Mondadori con una nuova traduzione
di tutte le poesie di Emily Dickinson (1856 pagine per 1775 poesie
con originale a fronte, molte foto, un'introduzione -molto
densa/molto intensa- di Marisa Bulgheroni e le traduzioni di
Silvio Raffo, Margherita Guidacci, Massimo Bacigalupo, Nadia
Campana e, in appendice, “versioni d'autore”: Montale, Luzi,
Amelia Rosselli, Giudici, Cristina Campo), passò quasi
completamente sotto silenzio. Le luci dei riflettori erano puntati
altrove: sulla pubblicatissima principessa che aveva posto fine
alla sua carriera mondana sbattendo con l'auto contro il pilone
di un sottovia parigino. La poesia non fa rumore e la sua luce è
la luce di una candela che segna il cammino nella notte. Ma i
fari si sono spenti e hanno cambiato oggetto e la candela che
arde da Amherst rischiara ancora la notte dei naufraghi.
La poesia, quando è poesia, è un valore assoluto: non c'è
riflettore che tenga. Come scriveva Harold Bloom nel suo Canone
Occidentale Emily Dickinson è la poesia.

Morii per la bellezza - ma non m'ero
ancora abituata alla mia tomba
quando un altro -morto per la verità-
nel sepolcro vicino fu adagiato-
Piano mi domandò perché ero morta-
“Per la bellezza” -gli risposi- e lui:
“io per la verità - è una sola cosa”
disse “siamo fratelli.”
Così, come congiunti che di notte si incontrino-
dall'una all'altra stanza conversammo-
finché le nostre labbra raggiunse il muschio-
e copri i nostri nomi-.

Una poesia “misteriosa”, la sua. E misteriosa proprio nel
senso che ci introduce nel mistero. Nelle zone buie da cui
proveniamo - l'oscurità della nostra anima oscura- ma che non
conosciamo nella, apparente, lucidità della ragione ragionante.
Credo che bisogna partire proprio da questa sua breve poesia per
capirlo, il “mistero” di questa poesia. Al di là degli aneddoti,
al di là delle “stravaganze” di cui -agli occhi dei semplici e
dei benpensanti- fu intessuta la sua vita.
Emily Dickinson, a un certo punto, chiuse col mondo per
aprirsi al mondo. E la strada, attraverso cui Emily cercò di
impadronirsi della verità del mondo, è stata appunto la poesia,
ovvero la bellezza. Può sembrare un paradosso o un gioco di
parole ma non lo è. ]~ il nocciolo duro di Emily Dickinson. Che, a
un certo punto della sua vita, si chiuse nella sua stanza,
rallentò i suoi rapporti quotidiani con gli altri, si immerse
completamente in se stessa e ne cavò poesia: per cercare la verità
del mondo e il senso della vita e impossessarsene, attraverso la
poesia. Che è come dire che -nel momento in cui si imponeva una
quasi clausura, restringeva il suo spazio fisico fino alle
dimensioni ridotte di una stanza, chiudeva l'orizzonte del suo
sguardo entro il confine del giardino che le appariva dalla
finestra- l'universo intero si precipitava dentro di lei. Una
stanza sarebbe stata soffocante per gli altri, non per lei. Per
lei la stanza e il giardino, proprio per la loro angustia,
diventavano la molla che faceva scattare la sua fervente
immaginazione. La faceva viaggiare ben al di là di Amherst,
nel Massachussets: dove viveva, o Soston o Washington dove le
capitò di andare qualche volta, per toccare gli estremi confini della
nostra galassia e oltre. La stanza, proprio a causa delle sue
pareti, paradossalmente non aveva confini, il giardino si slargava
e si riempivano -stanza e giardino- di voci e di immagini che le
giungevano dagli angoli più remoti dell'universo e dai luoghi
più introversi dell'anima. Insomma, Emily riduce i suoi vestiti
a un monotono abito bianco, cancella dalla sua vita le altre
stanze della sua casa, le vie, le case del paese, i contatti
quotidiani e banali (la banalità di ciò che si ripete
stancamente, senza più la forza di dire qualcosa di nuovo) ma conquista
ciò che sta oltre le apparenze: le apparenze delle cose e le
apparenze dei gesti di ogni giorno. Emily è una “visionaria” e la
sua poesia è la poesia di una visionaria, una che legge il
mistero che si nasconde sotto la superficie delle cose. Legge
l'infinito in un pettirosso, sente orchestre di pianoforti nei
boschi, capisce i discorsi delle api: e ha timore di queste
immensità. Ha timore di questo grandissimo che ritrova nel
piccolissimo e teme che non ce la faccia a tenerle, queste cose,
sotto controllo. Teme di esserne sopraffatta.
Una romantica viaggiatrice immobile, dunque? Modestissima
etichetta per una grandissima travestita da “zingara” o
“mendicante”, da “monaca ribelle” o da “colibrì” come lei sentiva di
essere. Anche la Emma Bovary è, in fondo, una “viaggiatrice”:
anche se è una viaggiatrice agitata, irrequieta. Ecco: Emma è
una “turista” più che una viaggiatrice. Una eroina romantica
degradata a cliente di modeste agenzie di viaggi. Una casalinga
insoddisfatta che si illude che spostarsi nello spazio avrebbe
comportato la ricucitura delle ferite dell'anima/nell'anima.
Emily è più di una viaggiatrice. Esplora, quando addirittura non
costruisce dal poco o niente che la circondava, mondi che gli
occhi banali non vedono. I suoi occhi sfondavano i confini del
cielo, annullavano la prigione dell'orizzonte. La sua poesia,
come il suo viaggiare, è la poesia -e il viaggiare- di una
visionaria: guidata, com'è, dall'unica bussola delle sue
allucinazioni. Il mare, allora, si riversa nel cielo e, tutt'e due,
possono riassumersi in un fiore. Stupido è chi dice che è il cieco
a non vedere. Non vede chi non coglie questo rivelarsi del
mistero attraverso le cose. Sono vecchie le stelle che per me
splendevano-: una delusione d'amore, forse, ma anche il segno
d'aver toccato il limite e di sentirlo, a un certo punto,
insufficiente. Si può andare più in là?
Un universo cosi fatto non ha confini e non bastano le
grammatiche consuete a contenerlo. Il linguaggio fallisce,
l'ortografia disobbedisce, le connessioni tra le parole saltano, la
punteggiatura stessa frana. Tutto è soggetto a continui
terremoti o smottamenti. Le cose del profondo parlano con altre voci.
Le attese del lettore necessariamente saltano.

Come scope d'acciaio
neve e vento
avevano spazzato la strada dell'inverno-
la casa era sprangata
il sole lasciò uscire
languidi messaggeri di calore-
e là dove l'uccello cavalcava
il silenzio legò1íl suo possente, affannato destriero
l'unica che giocava era la mela
al sicuro in cantina.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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