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Luigi
Celi, Il centro della rosa
Indice
generale
Edizioni Scettro del Re, Roma 2000 Questo volume
di Celi si configura senz’altro come uno dei più originali degli
ultimi anni, un libro che si sforza (come risultato di una ricerca più
che come intenzione aprioristica e programmatica) di proporre un tipo di
poesia per molti versi innovativa e lontana, distaccata dalle comuni e
più comuni linee poetiche attualmente operanti in tutta Italia. Il titolo
già ci porta nel regno del simbolo e della simbologia coinvolgendo
quindi saperi antichi, e coinvolge in modo chiaro e significativo due aspetti:
quello geometrico del centro e quello estetico-simbolico della rosa. Da
qui potrebbe partire tutta una lunga serie di riflessioni ed ipotesi che
ci porterebbe molto lontano, ma d’altra parte già molte cose le
dice Cesare Milanese nella sua accurata prefazione. Noi ci limitiamo ad
aggiungere e ricordare come sia coinvolta la nozione di tempo: il fiore
primordiale “shoshana” della tradizione cabalistica, cui corrisponde la
“rosa” dell’Antico Testamento, simboleggia in virtù della propria
forma il tempo che ruota e la legge secondo la quale le cose devono venire
ed andare, una legge della caducità ma soprattutto della circolarità,
luogo ben presente nella poesia di Celi. Lo stesso Nicolò Cusano
nel saggio De ludo globi (1463) ricorda come la rotondità è
il movimento «della vita perenne e infinita […]. Né il concetto
né la natura del movimento circolare o della perennità possono
essere conosciuti o posseduti in altro modo che non prendendo come principio
il centro attorno al quale il movimento continuo si muove», introducendo
il moto nella concezione statica medioevale ma anche condannandolo alla
ripetizione e all’assenza di un vero punto di arrivo. Da qui rose, rosette
e rosoni divennero decorazione tipica di moltissime chiese ovunque disseminate,
inaugurando così tutta una tradizione cristologica (ed andava consolidandosi
anche la tradizione della Vergine come “Rosa Mistica”) nella quale il Salvatore
sta al centro della rosa, immutabile, irraggiando verso l’esterno, nell’unico
punto fermo, e collegandosi alla corrispondenza fra la visione del mondo
e l’osservazione degli astri (siamo naturalmente in un’ottica geocentrica,
o meglio antropocentrica). Da una concezione come quella di Cusano, Cristo
e quindi la Croce al centro del cerchio della rosa, prende vita la simbologia
dei Rosacroce, che salirà fino a Hegel e (e qui ci ricolleghiamo
alle affermazioni di Milanese sui mandala) a Jung. Tutto ciò, tutto
questo carico di simboli assegnato alla rosa, è comunque ovvio se
si considera la sua forma con petali concentrici nel bocciolo, i raggi
convergenti uno sull’altro dei petali nel fiore una volta sbocciato… (citiamo
come curioso contrappasso i fiori che in Alice attraverso lo specchio si
interrogano sul significato dei “petali” di Alice). Fino ad indurre Dante
a descrivere Maria come «la rosa in che ‘l verbo divino / carne si
fece» (Par. XXIII 73), e come «candida rosa» la «milizia
santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa» (Par. XXXI 1-3) dei
beati (si ricordi come Dante vede innumerevoli angeli andare ininterrottamente
dal centro della luce divina ai seggi dei beati, per portare la divina
carità e simboleggiare l’irradiazione ed i raggi del cerchio), nonché
a descrivere il suo andare fra seggio e seggio come un andare «per
la rosa giù di foglia in foglia». Questa
lunga digressione serve a chiarire più concretamente come la simbologia
scelta da Celi abbia radici antiche e solidissime, nonché significative.
Per Celi poesia e filosofia sembrano avere la stessa valenza: ambedue devono
indagare il reale nella sua totalità e scriverne con lingua chiara
e dura, solida possibilmente quanto la materia che va trattando, all’occorrenza
aspra. Questa poesia sembra infatti, più che dura o austera, aspra
per una solennità di rito arcaico, forse a tratti incerto ma reso
solido dalla fede in pochi ineluttabili simboli: se dovessi pensare ad
un corrispondente brano musicale penserei senz’altro alla Messa glacolitica
(1926) di Janácek. E all’improvviso la deflagrazione delle potenze
primigenie: «esplode la mistica rosa / l’Indiviso / in galassie di
numeri // i petali di cui s’orna / sul declivio divelti / l’anima cattura
/ nell’aperta corolla della luce // e / non permette / che si disperda
il Senso». La pesantezza delle parole più del ritmo, il potere
delle maiuscole più che quello della rima: monoliti, insomma, più
che solenni architetture. E fra le altre peculiarità di possono
citare proprio le fusioni di parole, neoformazioni che significano (anche)
la pressione di masse primordiali: «occhirame», «succosangue»,
«retronulla», «arbustinvento», «lievombroso»
e via dicendo. Il tutto in un vortice che attira, pernicioso o no che sia,
verso il suo centro: «nel centro della rosa sta il segreto del mondo
/ nulla può compensarci di non avere tempo / d’indagare in essenza».
Quanto alla struttura organizzativa dei testi di Celi, poi, impossibile
tacere la loro frequentissima importazione tipografica centrata, distribuita
come una epigrafe, simmetrica sull’asse centrale «che li ripartisce
tipograficamente in parti uguali, svincolati come sono dal facile musicalismo
della metrica usualmente prescritta» (Milanese), il che si sposa
perfettamente con la nozione di asprezza (più che di «aulicità»,
come invece dice il prefatore) sopra proposta. Non mancano,
anche se sono molto rari, i momenti apparentemente più intimi, le
concessioni ai sentimenti slegati dal sacro: «più in là
incredule conchiglie / madreperlacee vulve / evocavano amori tra le balze»;
ma subito un altro passo ci ammonisce dicendoci che il senso sacrale invade
e pervade ogni momento dell’esistenza: «negli occhi rapinosi tuoi
d’uccello / riverberavano amori / limpide lune nell’inquieto cielo / poiché
d’arcane misteriose fole / fosti condotta nera tra lapilli». Anche
a costo della vita: «si può perfino morire / se non si frena
l’onda / che c’invade improvvisa / mentre si contemplano le cose».
Tutto è chiarito più avanti: «oltre di esse / Dio //
vorrei che ogni amore / anche il più carnale / fosse un andargli
verso». Insomma
blocchi, entità salde a terra, materialissime, concrete (si noti
come nonostante la carica simbolica le parole siano – con rarissime eccezioni:
«salpingi», «Ekpyrosis», «èlitre»
- semplici e comuni) e simultaneamente cariche di simboli, immesse in un
tempo circolare (più che in un’assenza di tempo), in un vortice
che coinvolge quindi sia il tempo che lo spazio che il simbolo: «ora
comprendo come tutto / sia uno / e il moltiplicarsi del numero / il divenire
/ un’invenzione della ripetizione / per l’eterno»; Ricerco in interiori
lucori / ciò che esternamente s’oscura // […] il centro della rosa
/ sta nell’invisibile dove // […] ma la rosa // la rosa è sogno
/ dell’Eterno». Indubbiamente
si tratta di un libro dall’ispirazione doppia: sia sacro che profano, si
ispira di qua ai Salmi e a molti altri libri biblici, ai Veda e via dicendo,
e di là a Tagore, Rilke, Hölderlin, Dante, Pound, i lirici
greci… e poi Nietzsche, Jung… Si nutre di letteratura e di filosofia consolidando
la sua idea di tempo circolare, di angoscia del tempo, di tempo non necessario:
«ma il tempo si libera del tempo / in pause di vertigine»;
«il tempo è mobile limine / anòdino argine del fluire
del cosmo»; «Privo di senso il tempo transita / emerge negli
eventi per ombre immateriali / si nutre delle cose nella sua dura fame
/ non è concetto né intuizione pura / senza le cose non esiste
affatto / sempre unito alla mente ne rivela il carattere / il nodo e il
modo»; «non è durata il tempo / perché l’attimo
cessa / nella memoria vivifica distanze morte // […] l’uomo è
la sua stessa angoscia temporale / inorridisce o crede in un eterno Iddio
/ ondeggia sdrucciolo nello sfavillio dell’ora / in quell’eidetica sorgente
simile al lampo / che crea di notte la visione e il tuono». «Nel
tempo l’Eterno / sospeso a un raggio / tutto emerge / da fonte di stupore
/ l’occhio è il tempio e la visione / in uno / l’orecchio è
musica / l’odore movimento / la bocca è l’entità d’ardite
rose». In questo contesto astorico e consegnato alla voracità
del tempo ritornante c’è ancora da chiedersi se la concezione di
Celi sia dunque religiosa (cristocentrica) o laica (antropocentrica), per
ricondurci al nostro discorso iniziale, e sembra impossibile non dire che
ambedue le cose sono vere, nel senso che se Celi denuncia l’assenza (o
l’estrema, infinita lontananza?) di Dio, simultaneamente dichiara che senza
la nozione di sacro non è possibile un’esistenza. Ecco che il poeta
dichiara: «Sillabo il Nome d’ombra / ché non v’è siepe
ardente / nel vortice d’assenza»; «ma è già molto
sopravvivere al fior / fiorire dei sensi e / all’appassire del Senso»,
denunciando tra l’altro una sensazione di non appartenenza («Onda-luce
racconta il mare // uno col cosmo […] // fossi quello / potessi veramente
esserlo / mi placherei»), e ad un tempo rilancia la sfida a trovare
questo dio apparentemente sparito: «c’è ancora tempo per stanare
/ i nonsense» (assenza di senso = assenza di dio, colui che con la
sua esistenza conferisce un senso alla nostra). Una concezione del sacro
naturalmente larga: «Dio ci concepì in gusci d’echi / e noi
sorgemmo da un Ohm estremo / su criniere d’orgasmi / tra le stelle».
Alla poesia il compito di conservare la preziosa ambiguità: «la
poesia è orgasmo d’acqua santa / preghiera stretta in crune di bestemmia
/ pianta rovente bagnata l’illusione / che il vento strazia / e il verso
ricompone». «Hebenon» anno VII seconda serie n. 9-10, aprile-ottobre 2002, pp. 227-229 16 giugno 2002 Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |