|
||
Antonio
Porta, Poemetto con la madre e altri versi
Book editore, Castel Maggiore (BO) 2000 Porta probabilmente è, fra i poeti della neoavanguardia, quello che più si è adoperato per una poesia di oggetti, una poesia in re in grado di «calarci nella realtà» mescolandosi con un «unicum ritmico», come scrisse lui stesso nell’importante saggio Poesia e poetica incluso nella celebre e famigerata antologia dei Novissimi. Ingloba i frammenti sparsi che propone fino a saturare con essi i margini della poesia, e al tempo stesso non dimentica mai di servirsi dello straniamento per soddisfare una tensione conoscitiva capace di rivelare gli aspetti remoti degli oggetti, intesi come parti e specchi dell’esistente. Fin dalla sua prima raccolta La palpebra rovesciata (1960) Porta intuì inutile la fedele riproduzione dell’oggettività e si servì di un’ottica “rovesciata” per denunciare soprattutto un universo dominato dalla violenza e nella sua poesia ricostruito a suon di traumi derivanti dal binomio amore/morte e dalla mescolanza di violenza storica e naturale. Mentre restituisce il reale a spezzoni, il primo Porta non si lascia vincere dall’emotività e, apparentemente impassibile, porta come prova questi brandelli incapaci di ricostruire la realtà, rimuove le coordinate spazio-temporali a vantaggio di un meccanismo di accumulo dei “frammenti” che raccoglie. Nelle raccolte successive, da I rapporti (1966) in poi, la sua poetica combinatoria giunge a frammentare ulteriormente le misure sintattiche e impiega tutte le sue forze per individuare i rapporti interni fra azioni umane, accadimenti e oggetti. Ha qui origine anche l’espulsione radicale dell’“io” lirico e dell’introspezione psicologica. Con Cara (1969) Porta presenta diversi componimenti che affrontano la problematica dell’organizzazione ritmica di un materiale poetico nudo, minimo, privato di ogni tendenza e necessità narrativa, che ha abbandonato l’espressione di significati complessivi a favore dell’atomizzazione e concentratissimo nella denuncia-rappresentazione della violenza e dell’orrore (si ricordino certe poesie che sfruttano la tecnica del “parossismo”). Da Metropolis (1971) in poi Porta sfuggirà al rischio di rendere troppo cerebrale la sua poesia indagando nuove forme di opposizione alla poesia convenzionale e al tempo stesso riavvicinandosi a una maggiore comunicabilità. Le sue molte raccolte, come si evince dalle poche appena citate, sono l’immagine fedele di quella parola che Porta amava tanto: “progetto” (si veda soprattutto il saggio portiano Progetto della poesia). Gli anni a partire dalla seconda metà dei Settanta saranno segnati da diverse composizioni cruciali che occorrerà tenere presente a conferma della coerenza e discendenza dei testi di cui scriveremo fra breve: nel 1978-79 Porta lavora al poemetto La scelta della voce (poi in Passi passaggi del 1980) con il quale si allontana definitivamente dalle posizioni della Neoavanguardia, e nel 1987 termina la stesura definitiva del cruciale poemetto Airone, poi incluso in Il giardiniere contro il becchino . Escono ora, per la cura di Niva Lorenzini (curatrice per Mondadori del volume portiano Poesie 1956-1988 che reca anche una sua buona postfazione), due poemetti inediti di Porta (scomparso nel 1989): l’eponimo Poemetto con la madre (1985) e La posizione fetale (1989), due testi saldamente legati sia per struttura che per motivi. La curatrice nel suo saggio ricorda come nei segreti Diari terapeutici che Porta scriverà a partire dal 1985 «colpisce la perentorietà con cui il poeta, dopo l’approdo di Invasioni (1984), decide un radicale mutamento di rotta rispetto alla forma lirica» che in quella raccolta appena conclusa era dominante, e ricorda appunti come «ho voglia di poesia che pesi, adesso» e come la ricerca di rime e ritmi «che mi lascino senza pelle, scuoiato a guizzi». Ecco la scelta del poemetto, che gli avrebbe consentito il maggiore grado di fisicità del “prendere corpo” sulla pagina. La Lorenzini racconta con particolare cura la migrazione di questi due poemetti fra libri realizzati e solo progettati in quegli ultimi anni, e qualche pagina dopo ci offre anche l’intelligente abbozzo per una futura approfondita analisi linguistica e metrica di questi testi; in questa sede diciamo almeno che la “funzione Porta” che Fausto Curi teorizzò trova anche in questi testi piena adesione, a conferma - se mai ce ne fosse bisogno - dell’estrema compattezza e coerenza della poesia portiana, al di là delle sue trasformazioni linguistiche e strutturali. Testi violentissimi, di acre dolcezza, in cui la pulsione cannibalica, la lacerazione sia sadica che masochistica mettono questi testi in diretto rapporto soprattutto con l’intensissima raccolta Rapporti. Per quanto riguarda il primo poemetto è superfluo ricordare quanto il tema sia dibattuto, ma occorre soffermarsi sull’ottica particolare di Porta. Qui la dicotomia nascita-morte si fonde con la proiezione del tormentato rapporto del poeta con la madre (e del padre) della quale vede la vecchiaia e prevede la morte, e genera versi puntuti e velenosi come la coda di uno scorpione deciso ad avvelenare l’uomo-feto che si dibatte fra parola e silenzio, vita (o meglio, appunto: nascita) e morte. Una violenza che è anche quella necessaria per un salutare ma difficile distacco: «qui sulla pagina fatico a mantenere la distanza / dalla tua forma oscura quando soffi serpenti / dalle narici dilatate. / Lo sai o non lo sai che miri sempre in basso, / mi costringi alla fuga, al precipizio / disperato di mettermi in salvo». E la madre si fa mostro, fiera che scatena altrettanta violenza da parte della pagina e la fa esplodere, in un cannibale e crudele rito: «io voglio mangiare le tue labbra / voglio mangiarti i seni, Madre / quando me li hai tolti per sempre / restituiscimi la mammella, Madre / qui su un piatto d’argento». Una madre come doppio inscindibile: «madre-bambina», crescita e disfacimento, madre abbandonata da un «io arrivato alla fine / della bella adolescenza vuota / tuo amante insuperabile nell’atto / della nascita e subito / perduto», utero in cui tornare e da cui riemergere («Man mano la scena di restare e partire / letale / stupita conclusione fetale»). Una madre-parola che mentre si consuma e l’ombra la «cancella ogni / giorno» si fa inafferrabile, ogni volta divorata in un processo terapeutico che vede nella crudeltà dello strappo l’unica possibile realizzazione dell’impulso vitale. Fino all’ultimo, terribile, icastico e volutamente crudele verso: «Dalla tua morte, o madre, nasce il mio piacere». La posizione fetale è un testo ancora più penetrante e - si rende necessario un aggettivo nudo - bello in maniera disarmante. Compatto e penetrante, il poemetto assume una forma ciclica: fine e inizio, esattamente come “nascere” e “morire”, si sovrappongono riproponendo il tema di Poemetto con la madre, saldando i rapporti con la produzione precedente (soprattutto il volume Il giardiniere contro il becchino del 1988) e riproponendo un tema-chiave di tutto Porta, anche del romanzo postumo Los(t) Angeles. Insomma, come dice la curatrice la sfida resta «l’ultima frontiera del dicibile, del narrabile». Nell’esistenza umana di Porta questo poemetto si situa tra un presagio della morte del padre e la nascita dell’ultimo figlio e quindi si ispira a quella zona di confine fra nascita e morte in cui aleggia la perdita, zona tanto cara all’autore in cui anche il tempo pare nuovamente dissolversi [1]: «Perdita del senso del / tempo / in attesa della nascita / non ci sono né ore né minuti da contare / c’è solo una curva / una volta di mattoni: 300 anni / pochi secondi o niente o tutto / l’uguale e dentro l’uguale / curvo deserto con multipli orizzonti»; «Cercano di dare un tempo alla morte / poiché nno ha dimensioni, è il vero / nostro infinito; così dicono alle ore / 10 e 11 minuti ma non è vero / si era visto invece che si preparava / rannicchiandosi della posizione fetale»; «Hai incrociato le braccia sul petto / hai sbarrato la strada del tempo / hai alzato le ginocchia contro le braccia / abbassato il capo fino al petto». Questo testo è anzi l’elogio di questa dissoluzione («Ma è un bene essere privati del tempo, / è un furto che genera abbondanza e dona / una pace non sperabile») nonché un rito funebre che celebra la regressione, attraverso la morte, alla condizione primordiale («Così lasci passare la tempesta delle ore / dei giorni degli anni di una vita / ritorni nell’uomo fecondato cerchi / il tuo guscio») e, dedicato al padre, a questo «vecchio» di cui ci si chiede se «vuole / rinascere o morire rinascendo» e se «si rifugia nel perduto paradiso / o fugge dall’attualità di un inferno», fa il paio con il precedente. Porta si chiede se egli è «un uomo senza tempo / o polvere spazzata fuori dal cosmo» e soprattutto si domanda se per caso non creda «di poter tornare», se «sogna / un’altra madre, un altro utero trasparente». Il nodo si stringe là dove torna anche la voce nel Poemetto con la madre tanto tenacemente inseguita: «Anche il senza tempo ha un tempo / e ci sfugge e non va inseguito, / ritorna da solo quando il corpo / guizza fuori dall’utero e nasce / la voce». L’ombra dell’utero ha riaccolto Antonio Porta, scomparso a soli tre mesi dalla conclusione del secondo poemetto: ora si è ricongiunto al “vecchio-padre-feto” e alla “povere-madre-scorpione”, ha ritrovato il suo guscio e, novissimo “uovo fecondato” (là dove il “tu-padre” diventa l’“io-figlio”, vista la citata duplice occasione di composizione di La posizione fetale che diviene emblematica del percorso portiano sempre progettuale e retrospettivo a un tempo), ci consegna postuma tutta la sua forza linguistica e ci dona l’ultimo shock linguistico e l’ultima chiave-serpente da scuotere nel buco della serratura. [1]
Una cosa simile accadde a James Joyce: la prossimità della morte
del padre e la nascita del nipote Stephen ispirarono allo scrittore la
poesia Ecce puer.
«Hebenon» anno VII seconda serie n. 9-10, aprile-ottobre 2002, pp. 219-222
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |