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Annamaria
Ferramosca, PORTE/ DOORS
Edizioni
del leone, Venezia 2002, pagg. 127, € 10,33
Se
la poesia è sempre metafisica, fatto che ha generato discussioni
nell’ambito del panorama poetico italiano, quella di Annamaria Ferramosca,
con pochissimi oggetti materiali e senza i loro correlativi, con i suoi
riferimenti quasi sempre taciuti a cose della vita quotidiana, eppure poesia
non astratta, non indifferenziata in un magma di massimi sistemi, si pone,
oggi, con la sua carica mistica e luminosa, con uno stile originale e unico,
in una posizione al di fuori delle linee dominanti della poesia italiana,
ammesso che queste abbiano un senso, certamente in netta antitesi con i
minimalismi e anche con gli sperimentalismi.
Venata
da un tono vagamente filosofico, la presente raccolta, scandita in quattro
sezioni, ognuna tradotta in inglese, e intitolate, non a caso, Sotto
l’unica luna, Chiavi di un librocielo, Da soglie empatiche e Battenti,
ha una valenza sicuramente poematica, nella sua compattezza leggera e fortemente
icastica nello stesso tempo. La parola auratica e aurorale della poetessa,
fa librare il lettore in spazi oltre la pagina, con un forte ipersegno
e una forte carica evocativa; la traduzione a fronte in inglese, poi, rende
ancora più affascinante la lettura, visto che una seconda lotta
con l’angelo, quella con la traduzione, dopo quella della composizione,
viene a rendere magica la materia, come, nella sua levità, inserita
tra due specchi che si riflettono l’uno nell’altro in riflessi infiniti.
Ma perché Porte/ Doors, che cosa sono queste porte, su cosa aprono? Sono porte che, attraverso i sintagmi, la coerenza delle frasi, si aggettano sulla realtà, sono le possibilità del collegamento con il resto del mondo, quasi che la poetessa, come una Emily Dickinson postmoderna, coltivasse un suo spazio privato, fatto di una densa materia mentale e poetica per poi lanciare attraverso questo testo segnali al mondo al di fuori del suo giardino segreto, che resta comunque segreto. L’esperienza si compie, come dice Paolo Ruffilli nella prefazione, costantemente tra racconto e illuminazione, tra un’immagine scheggiata e puntiforme e una più distesa, tendente cioè al discorso complessivo, le porte, quindi, collegandosi nel punto mediano tra queste due costanti, rivelano la chiave d’accesso con il mondo esteriore, che non è pittorico o naturalistico e resta introspettivo, anche se, a volte, da esso sporgono riferimenti concreti, vaghi, che si proiettano oltre una siepe, oltre un orizzonte invisibile. Leggiamo in PARLARE COME NASCERE:-“ Voci che inseguo da più notti invano/ Ne so bene l’attesa/ e l’urto lancinante e l’onda/ propagata lungo le strade a nord del cuore/ Arriva/ ed è squillo di bimba: /Noi siamo come un violino, vero?/ Le parole/ volano come una musica dalla bocca/ e la lingua è l’archetto…/Ma se piango, / Il legno del mio violino è come:/ un ramo sotto la pioggia?-// Parlare come/ nascere agli altri ogni volta/ venire/ alla luce-bianca-dove/ bianchezza è l’ universo offerto delle note/ brusio d’angeli sopra Berlino/ sopra le regioni/ fuori dal dubbio fuori dagli equivoci. / Così i bambini parlano impastando la terra/ col minimo dolore necessario// Parlare come/ vivere con-dividere/ ritmi segreti di qualche di qualche dio dei simboli/ vibrazioni protette fino a un termine/ dove la voce sarà oltremusica/ pura illimite/ si lascerà/ talking about- parlar di tutto/ whispering- sussurrare/ missing - annullare, perfino/ (rumore di rugiada nella notte).// Domani, domani, quando?/ Oggi piove/ sopra il regno dei rami/ una sola parola/ può uccidere, ancora/ Una nota/ far tacere un violino. Qui, insieme a risonanze neoorfiche, in una suggestione misteriosa, data anche dai mancati riferimenti geografici, c’è al centro della composizione una notte che potremmo definire mistica: c’è un violino, uno squillo di bimba, la corporeità di un violino che si fa carne: è tutto vago, sospeso praticamente fuori dal tempo: c’è una forte tensione ontologica già nel titolo Parlare come nascere: una genesi, un battesimo non solo mistico, ma venato anche da una religiosità naturale: la pioggia sui rami in una certa forma di panteismo: l’autrice segue un percorso di sensazioni, di ascolto attento della vita, segue lo spazio e il tempo, la bellezza e l’inquietudine, in uno stile dove all’elemento lirico, all’effusione dell’io poetante, non è concesso nulla: poesia dell’essere che si fa parola, dell’ascolto di un logos sconfinato da esplorare e rinominare e nominare con gli strumenti della poesia. 29 luglio 2002 Indice generaleImmagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |