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Emilio
Piccolo, Oroscopi
Ediz.
Fermenti, Roma 2002, pagg. 80, € 10,33
Che
Emilio Piccolo fosse un poeta dalle mille facoltà funamboliche tutti
lo sapevamo, ma che, messosi d’impegno al tavolino, avesse voluto preparare
una nutrita raccolta di versi, degni di essere assaporati nel migliore
dei modi, io personalmente soltanto ora lo scopro. Non voglio dire che
sino ad oggi egli abbia giocato con la poesia, senza riuscire a produrre
cose valide, o con essa abbia voluto meravigliarci ed imbambolarci, fra
violente declamazioni o gioiose interpretazioni. Tutt’altro! Anche in quel
modo egli era poeta di diritto. Oggi, però, egli ci offre uno spaccato della sua poesia che si lascia leggere con maggiore attenzione e che ci lascia abbagliati, sia per il magma dei contenuti, molto sofferti e molto profondi, sia per la cascata ininterrotta di versi, che risultano orecchiabili e fragorosi, o proposti in un narrato che diventa canto prorompente e provocatorio. Il risultato è proprio quello di non agire nella finzione scenica o drammaturgica, ma di lasciarsi turbare dalle immagini sottomesse al significato irriverente del rifiuto. “Bene, lo confesso: non
mi è mai piaciuto Manzoni,
Strawinscky,
Ciakovsky, Montale, Saba e Ungaretti,
non
mi piace Benigni, Troise, Pino Daniele…(pag. 47)”
Gli
istinti infantili e prematuri si mescolano al trasalimento della nostalgia
in uno strappo della realtà che costringe l’autore alla distruzione
di ogni e qualunque compromesso con la realtà stessa, così
da tentare approcci che lusingano o interruzioni che possano allontanarci
dalla nullificazione: “C’è
il nulla da cui si fugge, e c’è il nulla verso cui ci si dirige”
scrisse Simon Weil – sottolineando che dal nulla si fugge con il principio
della vita, la nascita, l’arrivo, la presenza, l’impegno, l’azione, la
creazione, e verso il nulla ci si dirige con la distruzione, l’inerzia,
la rinuncia, l’assenza, la partenza, la morte, la fine. Ora il poeta o
parla nella speranza di interrompere il “nulla” e quindi la “morte”, o
tace nell’ombra dell’assenza, ove le metafore del nulla possono esser recepite
nel silenzio. La poesia di Emilio Piccolo nasce autentica proprio dalle stesse contraddizioni che lo distinguono nella vita quotidiana. In ogni suo attimo egli sente la precarietà del vissuto ed il suo canto non si congela nella epigrafe o nel mottetto, per trasferire il mondo sentimentale in passi elegiaci o romantici, ma si strappa le carni in lacerti sanguinanti, perché non ha potuto “dire” al padre - ormai già finito – tutte quelle parole o quelle frasi che ognuno di noi avrebbe voluto dire. “Se
ne è andato, mi
disse mio fratello la mattina alle 7,30
che
gli portai il caffè in ospedale.
Io
non capii subito.
Poi
lo vidi là, dietro un paravento,
il
capo riverso….(pag. 75)”
La
temperie della disperazione ha una certa nettezza, un decoro che straripa
nelle frasi buttate come onde sonore contro il muro della indifferenza
dell’altro, il tentativo di trasferire la sconfitta nel processo dell’infinito
, nel quale forse egli stesso non crede, si legge come irreparabile nostalgia
del tempo perduto e del tempo che non sarà mai e poi mai recuparabile,
qualunque tentativo noi azzardiamo. “E’ tempo questo che si crepa in fretta e
le strade sono zeppe dei nostri sentimenti
masticati
e sputati via,
così,
mettiamoci l’anima in pace
gli
oracoli esistono per parlare e hanno parlato
ora
è solo una questione di interpretazione…(pag.23)”
La
storia, che agli occhi del mondo non è altro che guerra fratricida
o accaparramento di potere, o imbroglio a sfavore dell’ingenuo, per Emilio
è un proiettarsi cinematografico di immagini che possono anche non
interessare alcuno, una serie di contrappunti materiali contro la coscienza
di chi è colpevole e non sarà mai punito, contro le infinite
possibilità della vita che si chiudono dietro di noi senza lasciar
traccia , contro la stessa poesia, struggente memoria del nostro pensiero,
che non avrà mai alcun miracolo di riviviscenza, che non avrà
la forza delle “lacrimae rerum”, che nello stesso tempo sarà simbolo
e delusione. La sua è una volontà storico/critica che può anche impaurirci per la schietta lucidità, e la sua probabile verità. L’inquietudine è nella sua posizione di rischio, secondo una formula che corrisponde alla insofferenza dei legami, nella sua tenace distinzione del dubbio e del tormento, per una poesia che è tuttavia un impeto di amore che l’autore stesso ha timore di confessare, sotto il flagello della testimonianza autobiografica. Il mondo di Emilio Piccolo è soprattutto molto complesso, è molto vario. Un mondo che egli cerca di distruggere con una strana forza autopunitiva, con una tensione aspra sulla quale fonda una moralità tutta personale, nel complesso tentativo di rovesciare quegli istituti su cui si cementa la società traditrice ed oppressiva. Il “paradosso” per il poeta è nella diversità degli interessi, nella impotenza civile della poesia, nel lassismo tollerato della politica internazionale, nella convivenza del sentimento con la criminalità della indifferenza. Allusioni, doppi sensi, la lunghezza vuota del tempo, i guizzi ed i drappeggi del fantastico o fantasioso, i tempestosi dialoghi, invitano all’esercizio sottile dell’intelligenza, così che questo ultimo lavoro poetico di Emilio diventa un gustoso dosaggio di catartica ambiguità allusiva. Da
non tralasciare in ultimo e non per ultimo le bellissime interpretazioni
di Annamaria Pugliese che arricchiscono il volume con iconografie molto
suggestive e determinanti.
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |