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Claudio
Pezzin, Scene Teatrali
Fermenti, Roma 2002, pagg. 81, € 7.746 Nell’ambito
della produzione letteraria italiana, tra l’eterogeneità delle tipologie,
quando la poesia è spesso inflazionata e, in generale, tutta la
produzione letteraria, originale e intrigante, ci sembra il testo Scene
teatrali di Claudio Pezzin. Sfogliando
l’indice di quest’ opera composita e originalissima, ci accorgiamo, innanzitutto
della natura frammentaria del genere che l’autore propone al lettore
e al critico: il libro è infatti costituito da una serie di brevi
frammenti di tre, quattro o cinque pagine o poco più che mettono
in gioco una visione lucida e spesso ironica dell’universo, di tipo, ovviamente
teatrale che lo sceneggiatore ci offre procurando in noi meraviglia e curiosità:
leggiamo, infatti, i titoli dei macrotesti che hanno una forte carica di
diversità e differenziazione l’uno dall’altro: leggiamo infatti
tra i titoli i seguenti, presi quasi a caso ma inerenti a dimostrare la
chiave interpretativa dell’opera: Arlecchino, Verona e la stasi generale,
Marito e moglie, Ulisse Lacoonte e il cavallo di Troia, L’uomo dal fiore
in bocca di Pirandello, Tragedia di Napoleone e della Rivoluzione francese,
Una luna di fantascienza nel 2134, Totò e la luna…, Pierrot e la
palla del mondo: qui storia e leggenda, fantascienza e cinema, poesia
e teatro che si autoriflette su se stesso, sono elementi che si fondono
insieme e costellano l’opera attraverso il comune denominatore del linguaggio:
l’autore, nato nel 1959, che ha già all’attivo moltissime pubblicazione
dei generi più diversi, (poesia, narrativa, teatro, memorialistica,
filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura, critica artistica,
critica musicale, Storia romana antica, (notevole davvero la capacità
della sua penna e della sua fertile vena), in questi esperimenti, matura
un linguaggio allusivo, che s’illumina in impennate, giochi, bisticci,
assonanze si accende in interiezioni insiste sulle vocali come una filastrocca
demente e cialtrona. Il
genere teatrale, quindi, si rivela in questi testi (destinati ad ipotetiche
o reali messe in scena), che hanno, come ha affermato tempo fa Mario Verdone,
i propri riferimenti storici e i propri modelli nel teatro sintetico dei
Futuristi, e nelle prime opere dei fratelli Lumiere Leggiamo
in trilogia postmoderna da Eschilo: Eschilo torna, ma di nascosto, come
un ladro. Parla in greco e non lo capiscono. L’Orestea, tuttavia, deve
cominciare (cioè continuare l’inizio). Prima parte della trilogia:
Eschilo: Sei tu mia madre? Non ricordo più nulla.) Madre:Però
devi decidere qualcosa, farti una madre, fare insomma… Eschilo: a dire
la verità, dovrei farmi Agamennone e a Micene, non qui… ma… Madre:
allora ricordi… Eschilo: No, non ricordo. Ma invento qualcosa. Madre: Astuto.
E allora inventa, senza una madre (esce, pausa e rientra). Qui
la tragedia greca viene rivisitata con ironia e colpisce anche l’afasia,
praticamente tale di Eschilo, in quanto parla ma non lo capiscono. Indicativo
per comprendere quanto suddetto sull’ironia dell’autore di cui si diceva,
il frammento intitolato Il fetore generale: un fetore reale, non finto,
che inonda la scena e la platea. Il teatro “è”. Attore (turandosi
il naso) è finita. Coniglio: (saltellandogli vicino) E’ finita.
Attore: ma non del tutto. Ancora intravedo i residui, gli escrementi (tasta).
Coniglio. (piegando le orecchie enormi) Qui c’era Sofocle, con Edipo. Attore:
Qui Shakespeare, nudo e tutto nome. Coniglio: (annusa) Sento puzza di Amleto.
Attore: Si era lui ma prima di diventare attore. Coniglio (estrae una lente
d’ingrandimento) Qui sotto… Attore: Leggo la lapide (fa finta di leggere).
Non leggo niente Coniglio: Il niente del niente, o quello che si mangia
e che puzza…. In
queste righe si nota un sentimento delle cose e dell’arte che si fa vita
e viceversa, vagamente beckettiano, per l’angoscia e il non senso che pervade
queste brevi sequenze. L’autore amplifica situazioni grottesche e viscerali
che, tra tutte le arti, forse solo il teatro, neanche quello mediato dal
video, dalla registrazione, dalla tecnica può dare. Uno spettatore
ideale, seduto nel suo palco, nel guardare la scena, può immaginare
e vedere quanto su di essa si svolge e contemplare un ritratto,
appunto postmoderno del mondo portato all’estremo con grande ironia: pare
che il fetore che si respira sulla scena sia il senso del mondo del 2002,
(il libro è appunto uscito nel 2002), un’epoca nella quale vengono
meno tutte le certezze e, in un minimalismo portato all’estremo, un attore
(chi sarà mai costui?) e un coniglio parlante che potrebbe essere
uscito o meno da Alice nel paese delle meraviglie dialogano in un’atmosfera
irreale. Appunto
come dal titolo “Il teatro è”, esiste come entità,
come momento assoluto e, in questo frammento, che, con pochi riferimenti
è venato da un forte barlume ontologico. Andando avanti nella lettura
c’è pure uno specchio di bronzo invecchiato che forse riflette la
condizione esistenziale dell’uomo del 2002 che vorrebbe rispecchiarsi in
un’altra cornice, rivedersi essere umano, tornare magari al diciannovesimo
secolo, ritrovarsi in una dimensione più umana o almeno più
naturale, di quella della globalizzazione e dell’undici settembre 2001. Ovviamente,
vista anche una magia del testo, una sua esegesi filologica potrebbe verificarsi
in altra sede, analizzando ogni singolo brano. Qui si può solo dire
che Pezzin ha reso molto bene il gioco del teatro, la più umana
delle arti, e ha trasferito verbalmente, dimostrando il suo bagaglio culturale,
quanto sia grande e da riscoprire, la modalità e la grandezza di
quest’arte nei tempi di Internet. 3 gennaio 2003 Indice generaleImmagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |