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F.
Santucci, L'ultimo viaggio.
Prefazione
di P. Cavallini. Nota introduttiva di G. Risica. Nota critica di G. Lucini
Edizioni
Il Foglio, Piombino 2002, pp. 42, Euro 5,00
Esce,
cattivante già nella veste grafica, la nuova silloge poetica di
Francesca Santucci, esperta di scrittura femminile (in particolare di Emily,
Charlotte, Anne Brontë) e già presente sulla scena letteraria
italiana con una pregevole raccolta (La vana attesa, 2000).
Certamente
un librino di pregio, L'ultimo viaggio santucciano, tanto da giustificare
l'attenzione e le lodi degli interventi prefatòri, tutti assai
centrati. Così, in particolare, senz'altro condivisibili sembrano
le considerazioni di Piergiorgio Cavallini filologo romanzo e traduttore
sulla «forma di queste liriche. Se il versificare è moderno,
"franco dai rudi vincoli del metro e della forma", per usare parole d'Arrigo
Boito che non rifugge dall'asindeto (ché già lanceolati/dorati
tralci avviticchiati/ossigeno annaspanti infioravano; cupo precipizio/persi
la rotta mi smarrii vagai/fluttuai nel sonno. Indi albeggiò/netti
i contorni, nitide le sagome/illuminò/delineò il chiarore,/)
l'ornatus è classico, con un uso sapiente delle figure:
l'omoteleuto (canarino/paglierino, lanceolati/dorati tralci avviticchiati);
la climax (L'inattesa bufera s'abbatté, sradicò,/schiantò,
svelse, divelse, seminò/la distruzione; mi smarrii vagai/fluttuai
nel sonno); la paronomasia (contro il plumbeo cielo il vólto
vòlto; more/amore; le more non amare con omografo
che amare); la dittologia (brama ed agogna; la notte che
più non rabbuia/e non annotta;
attonito ristette/e sbalordì;
battimi e percuotimi,/sferzami e scudisciami); il chiasmo (Chiede
colore al sole, alla luna calore chiede); l'anafora (e allora m'ameresti,/sì,
allora m'ameresti; t'involeresti ancóra/e ancóra
ancóra
ancóra
)» (p. 6).
Nato
all'insegna di Elizabeth Barrett Browning (da cui è tratta l'epigrafe
d'apertura «quando manca la luce, rimane a splender l'amore»,
p. 13), vive in questo piccolo libro una poesia brillante ed efficace;
potente e magistrale; che sa intuire le cose in sé, così
da svelare taluni aspetti della realtà e animarli di vita più
intensa. Versi che si sgranano densi e armoniosi, dietro e dentro i quali
si agita la lenta, sofferta conquista della parola femminile nell'arco
dei secoli; la liberazione dal silenzio a lungo imposto; il misconosciuto
(dagli uomini) retaggio delle donne di genio: di quelle poche che hanno
potuto/saputo esprimersi e delle tante, tantissime, rimaste vittime della
cancellazione. Qui, infatti, fortissima è la cifra femminile improntando
sopra tutto le figure di donne mitiche: penso in particolare a Furia
d'amore (ove, come di consueto, gli enjambement si sprecano):
«Fedra ha furia d'amore. Colpevole / in passione, di Teseo sposa
/ lui non ama: brama ed agogna / Ippolito suo figlio, e ad ogni sospiro
/ accresce furia ed amore. Spietato / il suo destino, crudele il fato!
/ Sola nel pianto, ossessa, in disperata / ricerca vana di felicità,
dapprima / solitudine, poi, ritrova morte» (p. 16). Oppure penso
a Il perduto amore, ove l'immagine della Sirena sovrasta quella
di Odisseo ingessato stereotipo della superiorità eroica e maschile:
«Avviluppato, Ulisse, al tronco della nave saldo, / sordo ai richiami,
contro il plumbeo cielo il vólto vòlto, / gli occhi neri
di brace serrati ostinati, la voce e il canto / e le preghiere finalmente
udì, echi distinti tra fragori / roboanti d'onde torbide e fangose.
Parlò la sirena, / lenta all'acque sillabò e al cielo e alle
lontane terre: / "Parthenope, io fui, prima di sprofondare, / a te il
mio cuore offersi, non dimenticare!" / E il capo reclinò, e
il mare su di sé richiuse / e allora il capitano i lacci sciolse
e attonito ristette / e sbalordì, fisso lo sguardo vacuo al tumulo
/ marino, sigillo eterno del perduto amore» (p. 21).
Un'accentuata
impronta di femminilità, allora. Così come femminile è
la paura che percorre molti brani santucciani, coniugandosi per altro con
il desiderio e l'abbandono nei confronti del sentimento d'amore: basti
leggere La trappola: «Tu leone, io gazzella, vieni a me, /
vieni a me di sera, pensiero luminoso, / vieni a me di giorno, pensiero
silenzioso, / e il cuore mi ghermisci / e t'apri un varco e t'insinui prepotente
/ ed ostinato scavi la lacerazione: / ed eccomi, inerme io t'accolgo. /
Avida ancóra ti suggerei parole, / infinite distanze da distanze
infinite, / e ascolterei rapita declamare i tuoi inganni, / per ricadere
di nuovo persa nelle tue fauci» (p. 27). O, ancora, Schiava:
«Non subirò mi dissi l'amore / amaro più non subirò,
ma poi / ancóra ai lacci i polsi, alla catena / il collo, docile
e volontaria / volentieri offersi. E consenziente / schiava mi scoprii
dolce avvinta / fra viluppi e legacci» (p. 32).
Un
amore che travolge e spaesa, quello di Santucci, che lacera e addolora
incontrollabile e violento (pur se talora tenero) qual è: «Vagavo
solitaria sulla spiaggia, / ignoto era a me stessa il desiderio, / eppur'io
t'aspettavo, vento di passione; / l'occhio bendato non vedeva, / ma il
cuore aveva già riconosciuto. / Avevo bisogno della sferza della
tempesta, / dello scudiscio dell'onda fragorosa, / che si sospinge, frange
/ e poi si scioglie in tiepida marea
/ infine sei arrivato, come un ciclone
/ violento. E allora ora battimi e percuotimi, / sferzami e scudisciami,
/ lascia che forti senta i tuoi colpi / trasformarsi come d'incanto / in
carezze, gentili come un minuetto» (La tempesta, p. 24).
Un
amore che arde e consuma, insomma. E, nella sua rapina, ritrova echi disperati
e stravolti nel mondo naturale: «Ineluttabile la stagione muore travolgendo
/ nella ruina del precipizio anche l'innocente / stelo e annaspando srotola
in agonia, / lenta, senza emettere alcun lamento» (Ruina,
p. 22); «Rinserrato nella valva il frutto / pure si schiuderebbe
per lasciarsi / baciare dalla spuma del mare, / ma il risucchio avanza
e la travolge / e la sospinge e l'affonda, giù, / fino in fondo,
nel buio dei fondali» (Fino in fondo, p. 22). Non solo. Poiché
talora il medesimo amore sembra improntare di sé l'immenso cosmo:
«Strani segnali manda / a volte il cuore, alterne / intermittenze
come di stella / che collassa: ultimo / messaggio tra i lucori bianchi
/ degli astrali siderali spazi, / sos sperso nell'Universo» (Segnali,
p. 28).
Un
amore che a volte dà gioia, certo: ma che sopra tutto tradisce
e abbandona, così da esporsi/esporre eternamente all'amarezza del
disinganno, alla cupa voragine della delusione. A un punto tale da produrre
affetto acre e voluttuoso assieme tetra una bramosia di morte. Così,
per esempio in Preghiera alle Moirai: «Tu Cloto e Lachesi
ed Atropo, / inflessibili Moirai sovrane di destini, / pure pietose foste.
Vi commosse / il canto d'Orfeo che lamentava / su Euridice, e Pelope giovane
ucciso / da Tantalo suo padre. Disperate / piangeste la morte d'Adone,
strenue / lottaste per restituire a Persefone / la figlia dall'Ade rapita.
Oh tu / che lo stame della vita intessi, / tu che la giusta sorte assegni,
tu / che l'ordito disfi, abbiate di me pietà, / implacabili il filo
recidete!» (p. 17). Oppure in Esplosiva mistura: «Succo
prezioso, nettare divino, / ambrosia vellutata da sorseggiare / adagio,
a lungo, di te avrei fatto estratto / da centellinare. E nei momenti /
buî dello sconforto, alchimia preziosa, / un veleno potente avrei
disciolto. / Esplosiva mistura berti: per te di te morire» (p. 30).
Ovvero, ancora, in Momento perfetto: «Reclinato il capo sulla
spalla / tesa il sangue a scaturire / in lenta pena dalla bluastra vena
/ del braccio in distensione / osserverei, calma tranquillità, /
fluire via la vita dalla scena: / momento perfetto! (p. 36)
Senz'altro
convincente, allora, Giuseppe Risica, quando afferma che il viaggio santucciano
dell'amore/nell'amore è «l'ultimo» perché senza
ritorno e perciò turbevole, spaurante al massimo. Ciò non
ostante esso rimane, per l'autrice, «l'obiettivo finale da centrare,
la meta definitiva da raggiungere, la ragione ultima e più vera
della presenza in questo mondo difficile, la sola, probabilmente, per cui
valga la pena di vivere e lottare» (p. 10). Una ragione ostinata
e possente, che pervade questo minuscolo libro, non esente talora da virtuosismi
consapevoli e, perché no? ostentati, ma pur sempre talentuoso e
finissimo.
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |