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Angelo
Ferrante: Racconto d'inverno
Manni,
2002, (pp. 103), Euro 11.00
Se
non fosse per il clima di diffuso ostracismo culturale messo in atto dai
vari Repertori della poesia italiana contemporanea nei confronti dei poeti
del Sud, non senza una punta di acredine da parte di Giuliano Manacorda
quando di fronte a certe operazioni antologiche di chiara impronta separatista,
fa notare una brutale scissione degli italiani al di sopra e al di sotto
del 40° parallelo; si potrebbe considerare la poesia di Angelo Ferrante,
sotto una diversa luce, a cominciare da Segni, Seledizioni, Bologna, 1982,
finalista al Premio Viareggio nel 1983, per l’Opera prima, fino alle più
recenti pubblicazioni che si sono venute a realizzare in questi anni, tanto
che non sarebbe difficile tracciare un diagramma del suo impegno linguistico
e poetico, come alternativa alla poesia d’oggi, che sembra tornare ai vecchi
spazi della mediocrità, puntualmente occupati e crepuscolarizzati
da tanti nomi noti, un tempo protagonisti di un potere culturale di tutto
rispetto.
Sembra
che con questo recente volume di poesie dal titolo Racconto d’inverno ci
si debba ancora una volta occupare della resistenza del dire poetico di
Angelo Ferrante, in risposta all’incenso soporifero del verso fin troppo
neoermetico e crepuscolare, di cui si fa tanto uso, come se questi ultimi
quaranta anni di sperimentazioni poetiche non avessero modificato i gusti
letterari, nonostante i tanti decreti di morte sulla poesia, non ultimo
quello di Luigi Baldacci che ne Il male nell’ordine. Scritti leopardiani,
Milano 1998, confessa che “l’Avanguardia non è più proponibile,
e che le parole della poesia sono state tutte adoperate, così come
si rileva nella Introduzione ai testi di Patrizia Valduga: Medicamenta
e altri Medicamenti, Torino, Einaudi, 1989.
Ora
di fronte a queste confessioni epigrafiche, pronunciate da un critico di
assoluta fede e serietà come Baldacci, non si può non rimanere
preoccupati sul futuro della poesia.
Tuttavia
nel mare magnum dei libri che si pubblicano in Italia c’è chi propone
volumi di poesia d’altro genere, come ad esempio questo Racconto d’Inverno
di Angelo Ferrante, che instaura imprevedibili percorsi prelogici e analogici
attraverso i quali si sviluppano alcuni temi meditativi, sociali ed esistenziali,
che si riallacciano alle figure grammaticali individuate da Hopkins come
discorso globale e rivalutazione del significante.
Racconto
d’inverno è indubbiamente un libro che va visto come progetto ed
evoluzione del linguaggio pianificato su una struttura poematica, supportata
da segmenti amebici della lingua, nella piena autonomia delle vicende intersoggettive
provenienti da epicentri psicologici e linguistici che mettono allo scoperto
il nervo-anima sin dalle prime battute del libro.
Tutto
questo è rilevabile nelle sezioni dai titoli: Rimandi, Cupe, Velature,
Spirali e Trame, che sembrano parti separate di un discorso, ma che in
effetti sono speculari al titolo stesso del volume i cui testi entrano
nel corpus della vita radiografato a fondo attraverso gli interni familiari
e memoriali, tra lucidissimi flash back della giovinezza e atmosfere domestiche
avvolte da riti e simboli, con le immancabili delusioni del tempo, che
riconducono a pagine di diario i transiti della quotidianità e certi
resoconti privati che fanno parte della storia di una vita:…zia Maria sposò
l’uomo venuto da Cantalupo nessuno seppe / quale ragione alle sue nozze
durarono solo qualche mese /, pag. 26; oppure, proseguendo nella lettura
con altri exempla. Alba d’inverno a Frosolone una vertigine di litanie
nella / novena dicembrina come di sogno sveglia che l’urto avvolto / nel
maglione al ghiaccio sui vetri spandeva di arabeschi se / più tardi
un raggio in spruzzi di luce ancora fosse notte / dalla strada sebbene
i suoni delle incudini e le fornaci / d’odore l’agro alle corna nel fuoco
arse a modellare manici / di coltelli quando Beppe Puzone batteva come
sul canto delle / campane da San Pietro….
Su
queste scansioni si snoda Racconto d’inverno di Angelo Ferrante, che precorre
i tempi della fruizione e si staglia nettamente dai prodotti poetici di
oggi.
L’ospite
d’eccezione è sempre la parola, autentico locus antropologico della
commutazione del significante proposto nella sua forma iperesometrica,
in un disordine formale che è anche ordine strutturale.
Organico
è invece il pretesto del
Racconto che si unisce e si disarticola
nei fatti e nelle storie, fino ad estendersi nelle parestesie del linguaggio
e nell integralità della poesia.
Si
tratta, più in specifico, di un campo mitopoietico teso a vibrare
nello sfondo di replicanti avvenimenti che si addensano in capitoli ricomposti
nell’affanno del cuore e della mente.
E’
il tempo della memoria che scorre in un cono di luce e ombra, in un discorso
digressivo interno, che ha scatti di “inquietudine ritmica” e di limpide
trasfigurazioni, con a centro il tempo del collegio, i ritorni, le fughe
dal paese natale, le soste in stazioni e metropolitane, l’orrore della
guerra incancellabile dalla memoria col soldato tedesco che urlava nella
sua lingua: tu spia ti sparo, e certe iconografie paesaggistiche e di folklore,
tra addensamenti lirici e accentuato autobiografismo.
Ciò
che alla fine resta di questo
Racconto è la catalogazione di materiali
narrativi visti come elementi unitari che danno vita ad un roman de vivre
che è anche spazio di letteratura all’interno della morfologia dell’anima
e dell’esperienza del poeta. Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |