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Gabriela Fantato, Enigma – Ventidue invocazioni Dialogolibri,
Olgiate Comasco, 2000
Se
si affrontasse la lettura di questa plaquette della Fantato predisponendosi,
comprensibilmente, vista la forza connotante dei titoli, a privilegiare
la ricerca degli aspetti tematici di riferimento, potrebbe derivarne, come
prima impressione, soprattutto un senso di incompletezza, di mancanza,
di vacatio. Ben
presto si scopre, però, che questo smarrimento, è esattamente
ciò che l’autrice intende provocare nel lettore, progettando e plasmando
un percorso dove troppi snodi, troppi indizi, mancano o, meglio, vengono
lasciati dislocati su piani non direttamente (e non facilmente) accessibili. E’
un meccanismo che solo semplicisticamente si può assimilare ad un
eccesso di rimandi del cosiddetto (presumibile) referente. La
sequenza dei “rimandi” è già ben dichiarata, per il versante
artistico, nella nota introduttiva della autrice. I
suoi versi, infatti, costituiscono parte vitalizzata e vitalizzante di
uno spettacolo anche pittorico/scenografico e musicale e traggono ispirazione
dai disegni dei XXII Arcani Maggiori dei Tarocchi, realizzati da Coca Frigerio,
ispiratosi a sua volta ad una corrispondente serie di ventidue realizzazioni
scultoree. Non
basta, perché, cresta di congiunzione tra il versante artistico
e quello filosofico-dottrinale,
le ventidue sculture collocate
nel Sacro Bosco di Bomarzo, voluto dal principe Vicino Orsini nella seconda
metà del Cinquecento, sono esse stesse, dichiaratamente, interpretazione
artistico-simbolica dei ventidue Arcani Maggiori o Trionfi dei Tarocchi
che, e ci avviamo al capolinea, cripticamente racchiudono (altro che svelare!)
le profonde dottrine che lastricano i ventidue sentieri dell’Albero della
Vita cabalistico. E’ noto che questi sentieri o canali (Cineroth),
che collegano le dieci Sfere (Sephiroth), sono, a loro volta, immagine
riflessa, indizio, traccia del percorso macro e microcosmico che costituisce
e compie al contempo la Manifestazione, o Emanazione, Divina. HHHHHHH Nel
dubbio di non essere stato abbastanza complicati, bisogna ancora considerare
che questa rappresentazione simbolica del Creato, “è” nella misura
in cui “è stata tramandata” dalla Tradizione ebraica, che arricchisce
e complica con una ulteriore serie di corrispondenze simboliche (cui “non
ci può esser fine”, secondo la nota cabalista Dion Fortune,
ne La Cabala Mistica), i ventidue Cineroth e le dieci Sephirot,
che, inoltre, si ripetono nei quattro mondi o “livelli della manifestazione”
(Archetipale o della Divinità pura, della Creazione o degli Arcangeli,
della Formazione o Angelico e, più “lontano” dal Principio, il Mondo
della Materia o dell’Azione). Le
corrispondenze più significative sarebbero, incrociando l’interpretazione
con la lettura dell’incipit del Vangelo di Giovanni (In principio era
il Verbo ... tutto fu fatto per mezzo di Lui...) quelle con le ventidue
lettere dell’alfabeto ebraico, strumento agente del Logos. Una
corrispondenza che la Fantato rende inevitabile da richiamare, per la forza
stessa insita nel termine “invocazione”, è quelle con le “entità”
(i dieci Nomi Divini, Arcangeli, schiere angeliche, forze cosmiche e planetarie)
che trovano sull’Albero Sephirotico collocazione tanto precisa quanto,
in qualche modo, imperscrutabile ed inquietante. Non
sono noti con certezza nè l’origine dei Tarocchi né i loro
rapporti storici con il divenire (bisognerebbe dire col mantenersi)
della Tradizione ebraico-cabalistica, i cui pilastri sono l’Antico
Testamento, “corpo” della Tradizione, che, secondo un noto detto
Rabbinico, reca profitto agli ignoranti, Talmud, “anima razionale”
che possono studiare gli uomini colti e Cabala “spirito immortale”
su cui meditano i saggi. Fatto
è, comunque, che in qualche modo i Tarocchi hanno finito per assumere
una propria visibilità, io dico esagerata e, in quanto “sradicati”
dall’Albero della Tradizione, distorta. Il
proliferarre di diverse serie di rappresentazioni iconogafiche (esistono
molte serie dei ventidue Trionfi o Arcani Maggiori, mentre i Minori si
sono cristallizzati nelle comuni carte da gioco divise nei 4 semi o colori)
se, da un lato, ha rispettato, sostanzialmente le corrispondenze con le
Figure originarie, nella forma ha richiamato e stimolato, le attenzioni
di varia umanità, non ultimi, evidentemente scultori e pittori. Non
è opportuno, per sede e spazio, dilungarsi ancora in questa ricognizione
sugli ambiti extra-artistici che informano, le ventidue invocazioni della
Fantato. Non è opportuno anche e soprattutto perché i testi
non risulterebbero illuminati e vitalizzati da un’indagine squilibrata
nel rapporto tra referente e modalità espressive. Anzi,
uno degli aspetti più interessanti della lettura della silloge sta
proprio nello smascherare il depistaggio, lucido e consapevole, dell’Autrice,
la quale mostra subito di non seguire percorsi obbligati, limitazioni didascaliche,
coazioni dottrinali, per altro impensabili trovandoci qui nel regno del
Simbolismo, che per definizione non può che prevedere libere e soggettive
interpretazioni e compenetrazioni, spesso neppure “esprimibili
o comunicabili”, come magistralmente descritto ne Il gioco
delle perle di vetro da Hesse quando narra dell’ “odore del sambuco”. Quali
mezzi usa la Fantato per dichiarare il proprio tragitto “oltre” il titolo
o almeno “altrove” da esso? A
mio avviso tre aspetti tecnici meritano di essere colti e sottolineati,
prima delle peculiarità formali di cui cercherò di dire più
oltre. La
prima ma netta presa di distanza dal referente a favore del testo poetico
sta nella titolazione stessa dei componimenti: l’Arcano, nelle rispettive
liriche è, sì, oggetto, ma è citato, e tra parentesi,
solo a pie’ di pagina. Il titolo è patrimonio esclusivo dell’invenzione
poetica, autonoma, sovrana e dominante dalla e sullo schema dottrinario. Il
secondo artifizio, non è dato di sapere quanto influenzato dalle
geniture scultoree e pittoriche su riferite, ma comunque fatto proprio
e quindi, a tutti gli effetti, carne viva del corpo testuale, è
che l’ordine di apparizione delle Figure è del tutto anarchico rispetto
alla numerazione canonica degli Arcani ed al corrispondente sviluppo dei
sentieri sull’Albero. Cioè, per chiarire ogni dubbio, ogni sospetto
di didascalismo, l’autrice “mischia il mazzo” dei Tarocchi e li distribuisce
in ordine sparso, secondo un suo atto creativo. Comincia dal 10° (la
Ruota), prosegue con il 18° (la Luna), il 9°(l’Eremita), il 12°,
eccetera, chiudendo con il Matto (tradizionalmente non numerato, zero,
che corrisponde al primo sentiero o canale, tra Kether – Corona e Cochman
– Saggezza). Un
terzo ulteriore elemento straniante si incide tra la dichiarazione di realizzare
“invocazioni” ed uno sviluppo figurativo e sintattico che non sembra apparantamente
tenerne conto. Infatti, in nessuna delle liriche, si riscontra un vocativo,
sintattico e/o di modo, (tralasciamo i distinguo, sostanziali, ma non opportuni
in questa sede tra evocazioni ed invocazioni), anzi predomina una defilata,
distanziante, narrazione in terza persona, ma con la incisività
del tempo presente, salvo rare eccezioni: “doveva restare appeso / là,
nel mondo cavo del non dire” (colui che attende – l’Appeso), “alta
si ergeva in cielo, ritta a sfida" (la caduta – La Torre)); Se
tali sono, a chi o che cosa, quindi, sono destinate queste ventidue invocazioni? Per
ora questa è solo una domanda, cui spero alla fine di dare una possibile
risposta. Avendo
così connotato i ventidue Arcani Maggiori più come occasione
che come ambito di riferimento, per quanto fortemente definito e
programmatico e, al tempo stesso, avendone percepito le deroghe, le libertà,
la sua funzione di sfondo più che di trama, si può concludere
questo primo approccio affermando che il rischio di un sacrificio della
parola al concetto, dell’invenzione al rigore descrittivo viene non solo
evitato, ma nemmeno rischiato, per quanto il liminare tra pensiero e immagine
appaia in parecchie liriche l’areale privilegiato della parola di Enigma. Affrontando
dunque più da presso i testi, si coglie come il verso resti, per
usare l’occhio acuto di Giancarlo Pontiggia nella nota critica in postfazione,
“il centro ispirativo e modulare dell’ispirazione: soglia del pensare e
confine del dire “ e formula “della tensione immaginosa (dell’Autrice)
che non disdegna tuttavia lo scatto didascalico, l’ingiunzione realistica”
resa, come evidenzia Luigi Picchi (La Clessidra, 2/2001, pag. 122) con
“versi gnomici solenni e inoppugnabili”: “se
perdi la via retta scopri l’eterno andare / che tutto il mondo affatica
/ dal sasso inerte al volo e la farfalla” (uno sguardo obliquo – il
Diavolo) “in
bilico nel centro esita / che del troppo cerca misura / chi indugia in
ombra a sole alto” (l’ordine naturale – la Giustizia) “solo
infiniti errori aprono a conoscenza / solo il dolore segna il passaggio”
(oltre il velo – il Sole) se
un ordine eterno guida / del tutto il divenire, essere e perire / non può
l’umano scorgerlo, né tenta d’interrogarlo (il ciclo naturale
– l’Imperatore) E’
chiaro che, una volta affermata la propria autonomia poetica, sulla trama
versale viene comunque a spandersi potentemente la luce, soggettivizzata,
interiorizzata, del grande sistema simbolico di riferimento, secondo alcuni
il più profondo ed elevato (non è un ossimoro) dei sistemi
di pensiero tradizionale dell’Occidente, non estraneo a Pitagora, Platone
ed ai neoplatonici, in particolare Plotino, al Cristianesimo esoterico
ed alla Gnosi. Ma
in non rari versi si libra e si libera totalmente l’immaginatività,
la visionarietà leggera e sognante: “scolpita
nella terra, segnata con il vento / (legge tra attorte rocce e d’erbe odori
/ il filo del sogno..)” (un tempo circolare – l’Eremita) “di
doppia vita è venire a luce / e darsi al vento in terre non scelte
/ mai sapute, lasciate e amate” (doppio su sfondo – la Morte o del
rinnovamento) “in
volo sta la farfalla, in terra / è l’acqua immota e il mondo intero
bagna / i fiori e le piante irrora” ( un segno ci tiene – le Stelle) Risaltano
immediatamente, già in questi pochi versi, le peculiarità
formali che la Fantato, poetessa che ha già dato, nella sua attività
creativa e critica, numerosi segni di grande consapevolezza e proprietà
del mezzo poetico, ha scientemente scelto per la propria rappresentazione. Difficile
dire, a proposito, meglio di Pontiggia: “se l’attitudine è manieristica,
in simbiosi con le sue fonti visive, la sintassi non ignora moduli classicistici,
come l’inversione, il lessico alto e storicamente stratificato; le anafore,
anche strofiche....; le ricercate allitterazioni dei suoni.” Certamente
il manierismo più appariscente, impiegato rigorosamente in tutti
i componimenti, é il ricorso ampio alle parentesi; in due liriche
(“notturna” e “uno sguardo obliquo”) è (quasi) prevalente il testo
in parentesi. Altrettanto
evidente ma, a mio avviso, particolarmente funzionale, è l’uso di
inversioni che, creano spesso un senso di sospensione, di attesa, di ulteriore
distanza dall’(in)identificazione del Simbolo in oggetto e dal suo manifestarsi
agente (“dal fiore rosso coglie / quel gran segreto...”.; “misura dell’andare
è il volo / che accoglie del domani il riflesso / ..”.; “non della
luce il raggio va inseguendo / ..”.; “quando la terra custodiva / di sacra
forza il fuoco, d’antica madre grembo )” I
lemmi, virtualmente sinonimici, “mondo” e “terra” (sempre
in minuscolo: le uniche due maiuscole della raccolta, nomi degli Arcani
a parte, sono Luna ed Uno) sono i più frequenti, e
si impongono per l’alto valore semantico, che rivestono in assoluto ed
ancor più nel contesto cosmogonico particolare di cui si tratta. Se
“terra” viene impiegata prevalentemente come “suolo, terreno” (“da
terra verso il vento”; “sapienza scolpita nella terra, segnata con il vento”;
“sottile s’apre la ferita/ a mordere la terra e in basso la rovina”; “a
terra tiene stretta ogni pianta”; etc) inequivocabile è l’accezione
più cosmica di “mondo” come nei versi, già citati,
che accomuna: “in
volo sta la farfalla, in terra / è l’acqua immota e il mondo intero
bagna / i fiori e le piante irrora”
( un segno ci tiene – le Stelle) Il
“Mondo”, come unitaria Manifestazione della involuzione, dal Principio
alla materia, (la Caduta biblica) e di evoluzione, in senso opposto “ascendente”,
come unità speculare di macro e microcosmo, è ben rischiarato
dai versi della Fantato che, cita in epigrafe, non a caso, il celebre assioma
ermetico della Tabula Smaragdina (“quello che sta sotto è come quello
che sta sopra / quello che sta sopra é come quello che sta sotto”). Sembra
quasi, con la libertà del lettore, oltre a quella intuitiva della
scrittrice, di poter leggere l’intero divenire della Manifestazione lungo
i sentieri, dove da tempi immemori sono incise le idee che iconograficamente
e simbolicamente gli Arcani racchiudono. Partendo,
in via discendente, addirittura da oltre il velo della Non Esistenza: “nel
mondo cavo del non dire/ ../ incrocio tra nulla e verità”, quando
“al mondo intero urla la sua parola” “iniziò la storia
che il mondo trasfigura” di cui “s’è persa traccia del suo
dire (origine del mondo)”, passando per la Prima Sefirah, Corona o
Kether, l’Antico degli Antichi, il Sommo, il Punto Primordiale, i Primi
Vortici (“le fauci apre al turbine del mondo”), finché “quasi
una danza appare il mondo”. E poi, ancora scendendo, con “l’eterno
andare che tutto il mondo affatica” dove, pur non avendo perso, secondo
il messaggio dei Simboli, la possibilità della risalita, “tutto
s’affanna il mondo e sempre ruota attorno.” Adesso
potrà apparire più chiaro che le ventidue invocazioni, sono
lanciate alle potenze racchiuse nel nostro umano microcosmo, ad immagine
e somiglianza dell’ermetico “quello che sta sopra”, fuoco sacrale tenuto
vivo dalla forza agente del pensiero, dell’immaginazione e della parola. E
la parola di Enigma non disdegna la tensione al riscatto, al cammino ascensionale,
al passo, come l’alchimista – il Papa che “avido della luce, custode
del sapere / ovunque mostra il passo / (ponte sul passato che ogni uomo
invoca), ripercorrendo la via verso l’alto, da dove “il filo del
sogno” é “passo non mai visto” ed ”il gran girare
invita la passo, al balzo”, “nel passo senza sosta, nel sempre gran
mutare”, transitando per il Centro dell’Universo, dove “abile sa
il passo dove grazia” (Chesed) “si unisce a fermezza” (Geburah)
nella Colonna mediana dell’Equilibrio, nel cuore armonizzante degli opposti.
Fino al “passo ultimo che è sempre imprevisto” ma, oltre
il quale, nei limiti concessi alla condizione umana, “alzato è
il velo che d’inganno era figlio / e la realtà si mostra e più
non erra il passo” E
così, muovendosi nell’eterno ed ineludibile confronto degli opposti,
tra narrazione della caduta e speranza salvifica, questa poesia, elegante
e profonda, ispirata e ispiratrice, come il Matto, “scardina intero
ogni pensiero / apre in due l’unità e mille verità rivela” 7 febbraio
2003 Indice
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