Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Leopardi: le parole del sogno
di Antonio Spagnuolo



L’abitudine a considerare grande un poeta come Leopardi, ad attribuire alla sua scrittura
valenze indistruttibili , considerando la sua produzione come espressione unica del dolore
e del pessimismo , potrebbe lasciare sempre più racchiusa la sua complessa personalità
in una definizione restrittiva e parziale.
Affascinato dai temi dell’adolescenza , e privato della naturale soddisfazione di quei desideri
forti ed ingannevoli che la gioventù propone ad ogni essere umano, pur sacrificando
ogni suo tentativo di ribellione proiettando il disfacimento verso i fantasmi della poesia,
egli lascia parlare , come del resto avviene ad ogni poeta che si rispetti,
la voce incoercibile dell’onirico.
Ricercatore d’eccezione, non ancora in tempo per essere influenzato dalla psicoanalisi,
egli intraprende senza manco accorgersene un lavoro per cinici, cercando di esortare
il lettore a dimenticare il mondo , non come attualmente riescono a fare i mass media
per allontanarlo , bensì per ribellarsi, dopo averlo conosciuto nelle sue drammatiche proposte.
Il corpo, per chi lo abita è l’immagine fantastica di un io supposto, composto di mille identificazioni
e qui indagato fra le pieghe dell’arte e della letteratura, della filosofia e dell’erotismo,
fra i cunicoli e  i rivoli delle sue irrefrenabili pulsioni.
Le grandi ombrose stanze della pubertà, il tedio delle emozioni estive, il rischio
maledettamente concreto della malattia, il ronzio imprevedibile della vecchiezza,
sono l’abbagliante contrasto fra la semplicità del quotidiano e  lo straordinario sfaccettato
spessore del dolore e del sogno:

“Era il mattino e tra le oscure imposte
per lo balcone insinuava il sole
nella mia cieca stanza il primo albore;
quando in sul tempo che più lieve è il sonno
e più soave le pupille adombra,
stettemi allato e riguardommi in viso
il simulacro di colei che amore
prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non  mi pareva, ma trista  e quale
degli infelici è la sembianza. Al capo
appressommi la destra, e sospirando,
vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
serbi di noi?…”

Il modo in cui si guarda  il proprio mondo personale ed il rapporto con gli altri passeggia
tra le parole , le vocali, le consonanti, orchestrando le immagini della metafora senza tentare
di resistere al fascino , in una ricchezza sterminata del simulare: tutto ciò che esiste sulla terra
– la natura e il pensiero, il corpo e l’amore, la ricchezza e lo sfarzo, la bellezza e la delusione - ,
servono solo ad alimentare le ombre, intricate come in una galleria, o lasciate cadere
tra le sfumature di un tramonto ed il disegno inafferrabile dell’infinito.

“Come nel sogno così le tue pupille
hanno riflessi d’argento
  o di penombre nascoste nell’azzardo.

Questo è il tempo del sonno,
  il dubbio delle foglie perse,
la freccia che al mattino
si spezza all’improvviso nel peccato.
Se è vero il mio pensiero
di schegge sparge ancora le parole,
debole, e pronto a frammentar ricchezze
non più celate verso il corpo nudo.
Fra le stanze ed il cielo
stringo il sudore al petto fortunato
nell’incerto tuo raggio,
nel tuo profumo stormito come allora…”  (a. s.)

La memoria ed il desiderio si avvicendano in quelle scene che sembrano essere state esplorate
tra le pieghe più recondite dell’inconscio, si affaccendano orchestrando dialoghi,
ora con note elegantemente romantiche ora con toni e colori estremamente coerenti
alla intuizione psicologica. Proprio lui che credeva essere contraddittorio e contorto
– nient’altro che un relitto spezzettato dalle bufere , sconvolto dall’assurdità degli affetti,
grido e lacerazione, - raggiungeva, nella scrittura, l’inquietudine e l’incertezza,
mutando le luci delle attese che scorgeva da lontano, indeterminate e prefisse.

“Vano è saper quel che natura asconde
agl’inesperti della vita, e molto
all’immatura sapienza il cieco
dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
taci, taci, diss’io, che tu mi schianti
con questi detti il cor…
Giovane son ma si consuma e perde
la giovinezza mia come vecchiezza;
la qual pavento, e pur m’è lunge assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda
il fior dell’ età mia. Nascemmo al pianto,
disse, ambedue; felicità non rise
al viver nostro; e dilettossi il cielo
dei nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
soggiunsi, e di pallor velato il viso
per la tua dipartita, e se d’angoscia
porto gravido il cor; dimmi: d’amore
favilla alcuna, o di pietà, giammai
verso il misero amante il cor t’assalse
mentre vivesti?….”

L’onirico rallenta il gesto come se il tempo non potesse livellare l’ebbrezza, la spossatezza
del dormiveglia; ed il tumulto dei desideri, delle fantasie, delle immagini potesse occupare
la mente, il cuore, tutte le parti del corpo senza lasciare spazi vuoti.

“E’ simile lo spazio alla lusinga
di riprovar le insidie del tuo gioco,
di misurare il sangue col tuo fianco.
Nel luogo sempre incerto e quasi fioco
il mio respiro stacca fuor del dubbio:
se tornassimo a sera un’altra volta,
quando soave la pupilla adombra,
a sottrarre vecchiezza,
vergine la speranza ameni inganni
potrebbe suggerire.
Nei giorni dell’inverno
è giusto dubitar finché vorrai
sbarrare le finestre,
frenare gli orologi nel silenzio.

Altro passato, qualcosa dietro i vetri:
lunghi sussulti che tu insegui per me
nel declinare.”    (a..s.)

Mano a mano che cresce la distanza fra coscienza ed inconscio le opposizioni delle immagini,
potendo negare la realtà senza rispondere alla severità della interpretazione, creano nell’autore
quei contrasti che segnano a volte la tradizione, per quei contenuti carichi della massima tensione,
percepiti dalla coscienza e proiettati sotto forma di visione o di esperienza vissuta.


Indice recensioni e note critiche
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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Emilio Piccolo e/o Antonio Spagnuolo