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Mariapia
Giulivo, Dissolvenze
Indice
generale
Ed. Schena, 2002, pagg. 112, euro 8,00 L’universo,
che senza dubbio è la proiezione astratta del nostro piccolo mondo,
il luogo dove non si può leggere nulla o quasi nulla, dove regna
l’angoscia del non credibile, è anche il luogo dove i nostri libri
possono addensarsi intorno alla luce. Una pagina
scritta è sempre il luogo della comunicazione sincera, senza veli,
pura, dove l’incontro fra due intelletti – l’autore ed il fruitore -
riesce a creare altri luoghi ed altre poesie. Il discorso
si complica se pensiamo che ogni libro è già di per se stesso
un piccolo universo, nel senso che contiene in modo esplicito rinvii ad
altri mondi, rinvii all’onirico, rinvii ad altre vite, vissute nell’anonimato
o violentemente travolte, rinvii ad amori, o a passioni accarezzate
e sognate ad occhi aperti, con il gusto di scoprire la chiave
del multiplo e del magico, quasi a voler dimostrare che sia l’irrealtà,
sia il reale possono discendere direttamente dalla scrittura. L’autore,
come creatore di altri universi, sfida dichiaratamente la scrittura…E Maripia
lo sussurra : “Indossare
il migliore/ inchiostro perché il tono/ non sia dimesso,/ Adagiarsi
sul bordo/ del foglio, non annegare/ nel candido groviglio/ di fragili
assenze/ non calcolate./ Solo un suono,/ un suono solo su/ timide linee
appena/ accennate che si/ annodano strette/ attorno alla penna./ Ed è
tenebra di/ pagina il cui osceno/ biancore è dono/ e risposta, è
livore, oscura mancanza./ Com’è puro il silenzio, com’è/
dolce il silenzio. Così silenzio/che non si può riempire…” Qui una
donna bendata diventa veggente , una Sibilla, la quale , senza scorgere
o meglio senza far intravedere il volto degli altri, avverte le loro passioni
e le trasporta nei colori del verso: lampi viola o rossi, se la paura li
attraversa, celesti o turchini se il gioco sottende. Nella sua “alcova”
intrisa di tempo e di favole, ha bisogno di gridare, di ridere, di scherzare
come avviene ad una fanciulla, e nello stesso tempo ha bisogno di fermare
l’accadimento, con “i piedi per terra”, ella dice, in un battito ritmico
di flussi vitali e di riflussi umorali, quasi che il pensiero diventa emozione
viscerale. Alchimia
del sogno. E qui il dolce colore dell’onirico sembra avverarsi oltre i
silenzi, in un dormiveglia che non resta confuso, ma lascia passare i mattini
e le notti e le ore, al di fuori di quel tempo che si misura con
l’orologio, e con alcune sensazioni intense e fuggitive, che trasformano
le idee in osservazioni ed in particolari, attraverso i quali siamo
già passati, proprio noi, senza accorgercene. Occhi e sensi vigili:
- Maripia modifica con estrema mobilità gli eventi per fulminare
interrogativi in apparenza banali, pur densi di spostamenti molteplici
e contraddittori. Ed abile
come la Sibilla a pagina 43 ci offre senza mezzi termini una pacata confessione
: “Io le storie d’amore / so soltanto inventarle./ Il sesso c’è
ma non/ si vede. I baci sono lunghi cavi ad/ altissima tensione: / chi
tocca muore.” Tentando, con questi versi, di suggerirci una chiave di lettura
che sia valida almeno per la sezione “Appunti per la fiaba”. Ma leggendo
attentamente ciò che viene scritto più innanzi : pag. 57
“Strapazzami, frullami, spremimi, fammi liquida. Poi assorbimi nella pelle
di broccato antico e bevimi…” difficilmente riusciamo a credere che tutto
sia invenzione allucinogena… Il suo
stile, i temi della sua ricerca nascono dalla semplicità del suo
coraggio, in una originalità di emozioni tenute sempre sotto controllo,
mentre i pensieri fanno ressa intorno alle parole, dandosi convegno come
tanti passerotti che si precipitano sul ramo. E si posano tra le foglie
per il tempo di un istante. Il tempo di beccare qualcosa che a noi sfugge,
per ritornare in volo, attratti da qualche altro richiamo: impenetrabile,
indicibile, ma sempre raccontato dalla poesia. Lo scrittore
in genere, ed il poeta in particolare necessita di utilizzare la propria
ispirazione per mediare le emozioni della vita, quelle emozioni che vive
non solo con le circonvoluzioni cerebrali, ma soprattutto con la pelle. Le parole
sono in successione regolata dal codice della scrittura, ma sgorgano come
in un incanto liberatore, che svincoli le immagini dal peso del significato
che il codice diurno assegna loro. Tocca -
Mariapia- da vicino la vita, la sua vita e la vita di tutti, creando
un raffinato zapping, via via che i testi vengono offerti alla pagina bianca.
Sceglie, scarta, accosta, ritaglia, propone, scherza sul non detto, e accenna
alla beffa, con discrezione e buon garbo, talora approfittando con accanimento
della occasione, talvolta temperando affabilmente la cronaca personale,
in veri tessuti lirici che riescono ad accattivare sia nel tentativo ludico,
sia nel passo riflessivo. Affiorano
sospetti di memoria: quell’aria dimessa e pure densa di tensione, la raffinata
semplicità, quel far balenare nella pacatezza del racconto le tracce
di sentimenti indefiniti, il sovrapporre o far fluire dei tempi esistenziali
diversi, in un presente aggrovigliato e sospeso, sono alcuni momenti della
sua scrittura migliore, scrittura che vedremo ulteriormente impegnata a
mano a mano che i componimenti si avvicinano al presente. Non vi
sono personaggi dominanti: né
abbandoni di incarnazioni, o negazioni di limiti, ombre di morboso possesso
o di cedimento, chimere da inseguire, vuoti da descrivere, ricerca di un
vortice delle apparenze,…mi sembra che il suo discorso sia oltremodo comprensibile,
quasi un nucleo che abbia come punto fisso di riferimento la sua stessa
“voce”. Accattivante
e razionale, impaziente e fiabesco, il dubbio non accetta tutti i dubbi
nel proprio manifestarsi, ispirandosi allo sceneggiato dell’imprevisto
o alla tripartizione dell’Io tra sfumature, tinte, gradazioni, effetti
di luce e contrasti di ombre, profondità che costruiscono
forme dell’astratto in una poetica padronanza del dettato. La narrazione
indugia ancora – l’ho detto - sulla voce, fra tanto silenzio o fra
tanto frastuono, intorno a qualcuno da “immaginare”, capace di folgorazioni
o di ripensamenti, indistinguibile nel profilo, ma ben presente come figura
tangibile. Nell’inarrestabile
chiacchiericcio nel quale siamo immersi per la quotidianità, Mariapia
riesce a scorgere il pavimento che produce fiori, le mura che cambiano
di colore, le colline moribide come seni, il sussurro rassicurante come
una nenia, una la luce che bagna lenta e certa, eguale e diversa per ogni
tratturo. Non vi
sono voragini che spaventano, ma fantasmi leggeri, sorridenti che occhieggiano
fra le metafore, colorando di affabulazioni e di fantasia , che vertiginosamente
si inseguono e si moltiplicano, non soltanto nella testa, sotto il cuoio
capelluto, ma serpeggiano fra le labbra, inondano la gola, bisbigliano
all’orecchio, scompigliano i suoi biondi capelli, per tentare di coinvolgerci
nelle sue creazioni. Lei con
la lama della proiezione, chiede alle forme indistinte del fantastico
una personalizzazione che pretenda una levità, capace di trasvolare
al di sopra delle nuvole, dei nembi , pur mantenendo nella semplice ironia
del gioco poetico il passo saldamente nel reale. La sua
è una carezza che rende esplicito ogni segnale femminile anche quando
lo strappo potrebbe far credere ad ombre sfumate. Non è
alla ricerca del consenso a tutti i costi – o di un puro e semplice dissenso
- ma si esprime con sincerità soltanto per il suo senso del canto,
il desiderio di urlare quando è necessario, o di sussurrare quando
riconosce un accento: “Io resto
qui, giullare del tempo,/ tra rosso e biacca a dipingermi il viso./ Pantomima
ai tuoi flutti incostanti/ ricompongo le attese/ in un docile, assorto,
sorriso…”. (sono versi che non troverete nel volume, ma che io ho avuto
il privilegio di leggere fra le sue cose inedite) e sono versi che ci fanno
comprendere la personalità della scrittrice, con molta puntualità. Ciascuno
ama ciò che ha creato con la sua propria intuizione e con la materia
dell’altro in un gioco metafisico che appartiene a due o più individui,
per percorrere lo spazio che c’è tra la realtà e la sua trasfigurazione.
Questo pensiero indaga con lo sguardo ciò che è davanti
all’ inconscio, e smette di cercare in altri luoghi, per cercare
invece altri tempi, che riguardano le microstorie della poesia. Cammino,
quello della poesia, a sua volta filtrato dal più generale movimento
del verso, che cerca di tener conto di ciò che già è
stato detto, inventato, suggerito, cantato, per prendere le misure necessarie
che separano il sogno dalla parola. Le microstorie sono scandite da tappe
radicali in bilico tra il vissuto della scrittrice ed i margini del “silenzio”
, - ove è impossibile non pensare -, perché il destino, i
sentimenti, il contrasto giocano scelte di un certo gusto ludico, capace
di trasportare il fascino della rottura attraverso il saltellare del verso: Qualche
volta il tempo affolla sensazioni, sentimenti, conoscenze di oggetti
mai intravisti, perché lo “spazio” del “tempo” assume tanti aspetti,
tante facce, tante luci, tante ombre, tanti colori, che in un manifestarsi
barocco, si imbevono di quella familiarità necessaria alla poesia: fra dilatazione
ed armonia la rapidità della fantasia ha il dono di accogliere i
sogni e le romanticherie, le nostalgie e le ribellioni, l’onda melodica
e la passione , senza contaminazioni di sorta, al di là di quello
specchio che potrebbe essere il riflesso della melodia. I desideri, i rimpianti,
i ricordi, le nostalgie, così come le gioie ed i sorrisi si insinuano
e si nascondono nel verso, come una dilatazione del regno dell’anima, dove
ogni istante può essere avvolto dal canto. ….è
il segno evidentissimo di una maturità espressiva che coinvolge,
senza mezzi termini, una magica energia del vissuto, magia che non è
incertezza , non è impotenza nel vivere una realtà da immaginare
o da sventrare. E’ il presente che appare tra un passato evidentemente
ricco di emozioni ed un futuro paventato nel dubbio. 8
marzo 2003
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |