|
||
Passato il momento di demonizzazione del personaggio e poi della sua altrettanto sospetta esaltazione, Pasolini gode da un po' dei tempo di una relativa calma che spero favorisca la ripresa di una riflessione critica; il mio contributo in questa direzione va verso la sua poesia. La
produzione poetica pasoliniana copre l'intero arco della sua vita ed è
vastissima. La prima parte è dominata dalle opere in dialetto friulano:
da Poesie a Casarsa che è del 1942 fino a La meglio gioventù
del 1954. E' il Pasolini che tutti amano e quello su cui la critica è
sempre stata unanime, fino ad attribuirgli il merito di avere rilanciato
la poesia dialettale in Italia. Che Pasolini le abbia ridato rango e valore
è vero; non va dimenticato che la poesia dialettale è stata
un oggetto di attento studio critico da parte del poeta, dalla fondazione,
insieme a Nico Naldini e altri dell'Academiuta de lengua furlana, fino
alla pubblicazione, nel 52, di un libro sulla poesia dialettale del 900. Senza
nulla togliere al valore poetico di queste raccolte e ai saggi che ho citato,
ritengo tuttavia che tale incondizionato elogio sia anche un modo per mettere
la sordina alla poesia successiva. Dico senza nulla togliere perché
le due raccolte citate sono certamente un esempio di alta poesia lirica,
di elegia non letteraria. La
poetica in cui sono immerse le due opere citate è ancora quella
dell'ermetismo, ma l'uso di una lingua solo orale come quella friulana
a ovest del Tagliamento, conferisce all'opera un valore altamente sperimentale.
Quanto ai temi e all'atmosfera di queste liriche si può dire che
il Pasolini di Casarsa non ha ancora conosciuto il male del mondo, l'ombra;
la poesia riflette, così, uno stato di innocenza vera, pura, non
letteraria, la stessa che si avverte anche in Sandro Penna. Solo successivamente
il mondo di Casarsa diventerà mito e al tempo stesso stimolo per
la ricerca di un universo arcaico dentro le maglie della modernità:
è un mondo che Pasolini cercherà e penserà di trovare
(quasi sempre deluso), prima nelle borgate romane, poi alle Mura di Sanaa,
in Africa e in India, infine nell'immaginario dei suoi film, specialmente
in quelli più rivolti al passato: a cominciare dalla Trilogia dell'amore,
ma anche nel Vangelo secondo Matteo. L'incanto che pervade le poesie di
Casarsa è quello della fiducia primaria, quella che si ha per la
madre. Il darsi del male proprio nel luogo dell'Eden, prima con la tragica
morte del fratello, poi con l'accusa di omosessualità e l'espulsione
dal PCI, sarà come ben sappiamo il trauma che segnerà tutta
la vita di Pasolini. Quel mito dell'innocenza e la ferita del tradimento,
ferita che non si rimarginerà mai, verrà rielaborato dal
poeta in mille modi; ma in altre lingue. Il
Pasolini in lingua italiana esordisce nel pieno del dibattito letterario
del tempo, in un momento cruciale del dopoguerra. Il neorealismo, che peraltro
aveva dato poco in poesia, si era ormai esaurito anche in narrativa; durerà
di più nel cinema, aprendo le porte alla commedia all'italiana.
Pasolini non rifiuta del realismo i suoi elementi popolari e anche populisti
e la tensione etica e civile di cui è portatore; rifiuta la sua
angustia ideologica. Tuttavia se si legge il suo famoso 'Scherzo Shakespeariano',
in cui almeno nella parte iniziale rifà il verso al famoso discorso
di Marco Antonio in morte di Giulio Cesare, si potrà constatare
come egli non buttasse via i contenuti drammatici ed epici di quell'esperienza,
ma rimproverasse semmai una certa acquiescenza successiva da parte di alcuni
suoi protagonisti all'andazzo dei tempi; anzi, in quel testo, sembra proprio
attribuire a tale accomodamento la fine del neorealismo stesso. Quando
Pasolini sta per esordire come poeta in lingua italiana le figure dominanti
sono quelle di Quasimodo, Ungaretti e Montale, ma è la poetica dell'ermetismo
a occupare ancora la scena. Altri protagonisti come Bertolucci, Caproni
e Luzi sono più defilati, mentre la nascente Linea Lombarda non
sarà mai vista da Pasolini come un'alternativa credibile alla poetica
ermetica. Pasolini
entra nell'agone con idee molto chiare per quanto riguarda la pars destruens:
la necessità di superare l'ermetismo, ma anche il petrarchismo,
di cui peraltro l'ermetismo è espressione. Pasolini è il
primo a parlare di pluringuismo, di contaminazioni fra registri alti e
bassi; guarda al Dante dell'invettiva, alle commistioni fra lingua letteraria
e lingua popolare. Sulla rivista Officina, da lui diretta insieme a Fortini,
Roversi, Romanò, Leonetti, esordiscono Sanguineti e Pagliarani e
altri che daranno poi vita al gruppo 63 e alla neo avanguardia italiana,
da cui Pasolini prenderà aspramente le distanze: memorabili saranno
le dure polemiche con Sanguineti. Il rapporto con l'avanguardia, però,
non sarà mai del tutto risolto né nel Pasolini poeta, né
nel critico, anche perché fu proprio lui il primo a parlare della
necessità di un neo avanguardismo, espressione che successivamente
sentirà in qualche modo ritorcersi contro di lui. Questo rapporto
conflittuale e complesso e non risolto è a mio avviso un limite
che influenzerà negativamente la sua ricerca poetica, pur nella
convinzione che il suo rifiuto dell'iconoclastia neo avanguardista fosse
in Pasolini dominante, nonostante le suggestioni che lo sperimentalismo
più estremo esercitava anche su di lui. Il
problema è che le ragioni che spingevano Pasolini a superare l'ermetismo,
erano al fondo diverse da quelle che ispiravano Sanguineti e tutto il gruppo
63. Lo testimoniano sia gli scritti teorici, La libertà stilistica,
per esempio, un saggio pubblicato proprio su Officina; ma anche la
sua prima opera pubblicata in lingua italiana, proprio 'Le ceneri di
Gramsci', (1957), che restano uno dei vertici dell'opera poetica, insieme
a La religione del mio tempo e in parte anche Poesia in forma
di rosa che è del 1961. Nel
saggio ricordato, l'idea di sperimentalismo che viene avanzata è
quella di una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura e nello
spirito. E' un nuovo orizzonte culturale quello che Pasolini auspica e
non semplicemente il rinnovamento della lingua della poesia; nel dire questo,
egli pone per primo la necessità di uscire dal Novecento. Questo
a me pare un punto di irriducibile differenza con la neo avanguardia; che,
specialmente con il Gruppo 63, vedrà invece nello scardinamento
del codice linguistico il modo stesso del rinnovamento, arrivando a stabilire
un'astrusa equazione, almeno per me, fra eversione poetica ed eversione
sociale. Naturalmente dietro questa ipotesi ci stavano lo strutturalismo,
la semiologia, un certo marxismo. Quanto
a 'Le ceneri di Gramsci' e 'La religione del mio tempo', anch'essi
sono un esempio della distanza che lo separava dalla sperimentazione neo
avanguardista. Gli elementi salienti di differenziazione mi paiono tre:
la scelta poematica, la materia epica seppure spuria (dirò poi in
che senso), il corto circuito fra scelta metrico stilistica improntata
a un forte legame con la tradizione (la terzina dantesca, l'endecasillabo)
e un lessico popolare non aulico nel quale viene recuperato tutto il meglio
anche del realismo; l'assenza in Pasolini di ogni intento volto allo scardinamento
sintattico della lingua e ad un'esaltazione pirotecnica del significante.
La valenza sperimentale, invece, si colloca proprio al livello in cui Pasolini
la voleva: un rinnovamento dello spirito che indicasse un orizzonte culturale
nuovo rispetto a quello in cui erano nati l'ermetismo in periodo fascista
e il neorealismo nel dopoguerra. Dicevo
che nonostante gli elementi spuri a me pare che le due opere che ho citato
e in parte anche Poesia in forma di rosa siano da riportare al genere
epico. Mi rendo conto di fare un'affermazione forte e contro corrente rispetto
al parere di molti critici, ma a me sembra del tutto legittimo porre tale
questione e sollevare al tempo stesso una polemica forse anche più
importante e che riguarda proprio la negazione dell'epica e i perché
di tale negazione. Poemi
epici, quelli di Pasolini, sia per la materia (la storia, la società,
la condizione della comunità e non importa, a questo proposito,
che egli presentisse la fine di questa storia e ne vivesse la tragicità),
sia per le scelte metriche; spuri perché segnati in contro canto
da una memoria soggettiva interiore, quasi intimista (quello che è
stato definito un canzoniere intimo alla Machado), che sono estranei al
genere epico per come lo conosciamo se manteniamo ferma nel tempo la definizione
stessa di epica. Chi
ha detto che il genere epico non possa assumere al proprio interno contenuti
e forme che non gli appartenevano all'origine? La stessa poesia lirica
si è rivolta a temi che non le erano tradizionali. E poi non bisogna
dimenticare che per Pasolini ciò che altri potevano leggere come
elementi di un canzoniere intimo, venivano da lui considerati in ben altro
modo. Per lui la condizione di omosessuale e poeta escluso non è
l'irruzione nella partitura della grande storia di un elemento di biografismo,
o non è semplicemente questo (se mai lo diventa nei momenti di caduta
della sua poesia, che non mancano certamente ma che non intaccano il discorso
generale), ma la metafora di una più generale emarginazione dei
popoli del terzo mondo; a cominciare dai borgatari romani, dei sotto proletari
ecc. ecc. Discutibile
o meno che sia tale convinzione, il punto di vista soggettivo che Pasolini
introduce in contro canto non ha nulla a che vedere a mio avviso con un
recupero dell'io poetico forte, biografico dell'artista. Pur non negando
che cadute intimiste vi siano, come anche elementi spuri di biografismo,
tuttavia la tensione che anima queste opere rimane di natura squisitamente
epica. Del
resto Pasolini non è l'unico ad avere portato temi nuovi all'interno
di una partitura epica. Quando morì Bertolucci, su un quotidiano
a tiratura nazionale uscì un lungo articolo, non ricordo di chi,
in cui si diceva addirittura che Bertolucci aveva avuto il grande merito
di salvaguardare il genere epico e di averlo messo al riparo dalla totale
cancellazione. Non condivido quel giudizio perché a me pare che
la poesia epica goda di buona salute, anche indipendentemente dal poeta
parmense: Pavese, Bellintani, Calabrò, la ripresa epico mitica in
poeti come Conte a partire dalla fine degli anni 70; ma sono molti di più.
Ho ricordato Bertolucci per una ragione strettamente connessa al discorso
su Pasolini: il poeta parmense fu fra i primi a immettere temi come la
nevrosi (ma io preferisco parlare di romanzo psicanalitico) nelle
sue opere e anche la nevrosi è un tema nuovo che può entrare
a pieno titolo in un'opera epica. Se questo può valere per Bertolucci
non si vede perché non possa valere anche per quel il canzoniere
pasoliniano, almeno finché questi elementi che io stesso ho definito
spuri non diventano sempre più intimisti come accade sempre di più
in Poesia in forma di rosa. Anche perché Pasolini cercò
di coniugare coscientemente Marx e Freud, le ragioni cosiddette oggettive
della storia con la realtà delle pulsioni. C'è
infine un elemento di cui vorrei parlare e che mi dà modo di affrontare
l'ultima parte della sua produzione poetica. L'ho lasciato per ultimo perché
in questo Pasolini è stato davvero un caso unico nel secondo dopoguerra,
per gli artisti della sua generazione: parlo della sua irriducibile anti
modernità e per la ricerca di mondi arcaici che lo portavano sempre
più lontano dall'Occidente. Per anti modernità costituzionale
intendo poi anche il fatto che Pasolini non ha mai introiettato l'idea
della fine del mandato, per usare un'espressione di Berardinelli; cioè
la convinzione che nella società moderna al poeta non spettasse
più il compito di rappresentare la voce profonda di un'epoca, di
un popolo. Questo mandato Pasolini lo ha conservato e praticato in pieno,
si è posto senza remore e vergogne come un mètre a penser
in quanto artista e poeta. Un altro aspetto altrettanto importante della
sua anti modernità è l'avere inseguito un'idea di opera totale,
attraversando tutti i mezzi espressivi per approdare anche al cinema, certamente
il più moderno di tutti, ma sempre in un'ottica che definirei leonardesca
e dunque premoderna, lontana dalla parcellizzazione del sapere che è
invece un processo che ha coinvolto le arti e le scienze. La
sua non accettazione del moderno, che in alcuni momenti è viziata
da un volontarismo che può apparire ingenuo, ne fa un autore secondo
me lontano da un altro cliché che gli è stato indebitamente
attaccato addosso: quello di essere un maledetto. C'è in
lui troppo senso di colpa da un lato e troppo scandalo per la tragicità
della secolarizzazione, di quella che chiama la fine della storia, per
esserlo. Nel maledetto, almeno in quello moderno che ha in Rimbaud
il padre (Rimbaud che sia detto fra parentesi Pasolini non amava), c'è
sempre il disincanto, mentre in Pasolini c'è il dolore mai risolto,
la ferita aperta che non si chiude mai. Di questo risentirà sempre
la sua poesia, anche come limite, ma l'estetica del disincanto che poi
finirà di passo in passo nel nichilismo non lo attirerà mai,
neppure nei momenti più narcisistici che pure non mancano. Il maledetto
moderno è un dandy disincantato che vive sulla scissione della personalità.
I grandi maledetti della contemporaneità sono in fondo i tecnocrati,
gli gnomi della finanza, quelli che si travestono dal giovedì sera
alla domenica da maledetti, ma che rientrano nell'ordine (anzi ne sono
le colonne) ogni lunedì. Rispetto
a questa irriducibile anti modernità è pur vero che nella
parte finale della sua vita Pasolini si sentiva sconfitto ed era giunto
alla convinzione che la sua disperata vitalità non bastasse
più. Vedeva i suoi amici intellettuali e gli altri poeti prede di
una deriva inarrestabile, vedeva l'omologazione venire avanti senza contrasti.
E' il periodo più oscuro della sua produzione poetica, quello in
cui sembra arrendersi. E la fa con due opere e due movimenti in apparenza
disgiunti, ma in realtà convergenti in un unico punto di caduta,
che inizia a mio avviso da Poesia in forma di rosa, dopo il poema
Guinea. Con
Trasumanar e organizzar Pasolini cede retrospettivamente alle ragioni
della neo avanguardia che pure aveva così aspramente combattuto.
In quest'opera l'impoetico, l'estetica del brutto, il verso libero senza
misura, quasi con un'esibizione, come se stesse dicendo alla neo avanguardia,
vedete che se voglio queste cose le so fare anch'io, tutto questo
mi sembra segnare il suo declino in lingua italiana. Il
secondo movimento lo riporta al dialetto friulano. Apparentemente
si tratta di due direzioni diverse: l'una tutta dentro quella modernità
che aveva criticato, la seconda volta alla riscoperta di un universo statico,
tradizionale e in qualche modo premoderno. Ma guadiamole più da
vicino. Il Pasolini che si sente sconfitto in lingua italiana ritorna al
dialetto come si ritorna regressivamente all'utero materno. E infatti La
nuova gioventù, pubblicata nel 75 pochi mesi prima della morte,
è un ricamo manierista intorno alle due opere dialettali del suo
esordio. Pasolini
era convinto, a torto, che la sua fosse stata una battaglia perduta. Forse
era davvero conclusa la sua parabola artistica, questo sì! E del
resto se si guarda a quello che aveva fatto in così pochi anni,
c'è da rimanere ammirati. Era pure vero che all'interno di quella
vicenda del dopoguerra Pasolini aveva dato fondo a tutte le risorse a sua
disposizione per contrastare la logica dei tempi; anche se tutto questo
è comprensibile, tuttavia vi è un fondo oscuro nella parte
finale della sua vita artistica, quasi una metafora, il presentimento di
una fine tragica. Se Pasolini fosse vissuto almeno fino al 1979, avrebbe
visto che le secche in cui tutto sembrava essere precipitato nella poesia
italiana erano un momento precedente un nuovo giro della ruota. A partire
da Parola innamorata ma anche da altre antologie di quegli anni
stava nascendo una nuova generazioni di poeti e con alcuni di loro credo
che Pasolini avrebbe potuto continuare a parlare e a dialogare, riconoscendo,
almeno nelle intenzioni espresse, qualcosa che aveva animato profondamente
la sua tensione artistica e la sua ricerca. Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |