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Poetry Wave



Recensioni e note critiche

Jabbar Yassin Hussin, Il lettore di Baghdad
di Luigi Durazzo


Jabbar Yassin Hussin, Il lettore di Baghdad
Valtrend Editore 2003
Prima edizione in lingua italiana Traduzione dalla lingua araba di Elisabetta Bartuli  

Jabbar Hussin è nato nel 1954 a Baghdad, sulle rive del Tigri che taglia la città in due parti. “Nel mio paese, afferma l’autore, la mia vita è trascorsa troppo in fretta. Ciò che ne resta nella mia  memoria è l’immagine del fiume, la sera, e il volto della mia giovane madre intenta a cuocere il pane sotto un arancio del giardino della casa che non ho più rivisto da quando, costretto dagli eventi, ho dovuto lasciare l’Irak nel 1976. Nel mio paese ho scritto dei racconti, poesie e racconti per l’infanzia.   

Dopo aver lasciato l’Irak ho ripreso a scrivere racconti, poesie e romanzi, per conservare la memoria di tutto quello che avevo lasciato. In seguito ho scoperto che la scrittura allevia lo scorrere del tempo”. Questo dato biografico sollecita una riflessione attenta sul senso forte e lacerante dello sradicamento che informa la scrittura di Jabbar Hussin,un segno che ha caratterizzato gran parte della letteratura del Novecento. La Entwurzelung ovvero déracinement, xerizosi, sono termini di un paradigma che ha declinato la condizione umana di un secolo che è stato definito“breve”ma che continua a dilagare fino ai giorni nostri e sopra i nostri schermi con il suo carico di morte, terrore, smarrimento, fuga. 

E’una scrittura dunque, quella di Jabbar, che fa avvertire sulla pelle il vuoto di una incolmabile distanza, l’accoramento per l’allontanarsi delle cose e dei luoghi, di una terra-patria , insomma, vissuta e intesa come luogo della vita e origine della civiltà, al di qua della retorica politica e di qualsiasi manipolazione ideologica.

Compagno, come siamo piombati in questa fogna di paura?/ Oh, non questo era scritto nella sorte tua, nella mia, / noi non vedemmo né comprammo mai di questa merce. / Chi è che comanda e uccide dietro le nostre spalle? / Lascia, non domandare. Tre cavalli rossi sull’aia / girano su ossa umane / ed hanno occhi bendati.(…) //. In questi versi che hanno sfidato il tempo , il poeta Seferis ci trasmette la condizione di un esilio, – culturale prima ancora che politico-geografico – della guerra e dell’erranza, la cui connotazione fortemente umana adesso investe tutti in una sofferenza sul destino di milioni di persone e delle generazioni future.

E’ duro il tempo che separa, duro il suo  scorrere quando l’esistenza resta ancorata solo alla memoria, in un processo che ha sfigurato l’identità di un popolo, ha ingiallito e distrutto i libri e i volti delle persone care, fino a cancellare i tratti distintivi di una terra che fu la culla della civiltà . “Da quando ho lasciato il mio paese ho smesso di sognare, –  confessa l’autore – centinaia di volte sono stato assalito da un unico e identico incubo: sono braccato da un branco di cani neri, nella fuga mi ritrovo sempre davanti ad una stessa casa, alla cui porta batto con tutte le mie forze disperatamente, ma la porta non si apre”. In questa resistenza tra memoria e oblio, in questo scarto tra il ricordo e il vorticoso scorrere di eventi sanguinosi si situa la scrittura di questo scrittore iracheno, qui nella forma del racconto breve, secco, pregnante. Lontana dalle andature a schema di un  qualsiasi divario tra l’individuo e l’oggettività  del mondo, la sua narrazione si fa pacata, riflessiva , apre ad un dialogo serrato con l’altro e con l’altrove.

La memoria dunque è il filo conduttore che nell’anamnesi travalica il segmento dell’ esperienza diretta per collocarsi in un punto cruciale nello spazio e nel tempo della storia: lì dove la piana di Karbala lascia sulla propria sabbia i primi martiri:  “La rosa del deserto si richiude/ sui suoi cristalli/ il gufo timoroso trattiene il suo grido/ quali cupi presentimenti/ti fanno rabbrividire/ o desolata pianura di Karbala.// Questo esergo posto ad apertura di un poema di Jabbar  Hussin (La passione di Hossein) rievoca i tragici fatti del 680 d.C. a Karbala, dove il popolo iracheno dovette assistere allo sterminio degli Sciiti i cui corpi furono decapitati e abbandonati nella sabbia  senza sepoltura.

L’autore affida alla scrittura il compito di ripercorrere gran parte della storia dell’Irak attraversando due momenti di violenza sanguinosa: Karbala e - diametralmente opposta nel tempo, ma in stretta e tragica contiguità -  la rivolta del 1991 che in quello stesso luogo rivive lo sterminio delle popolazioni sciite da parte di Saddam Hussein.

Il ricorrente accento sull’elemento “storico” testimonia la tenacia di un impegno civile, quotidiano da parte dell’autore e al tempo stesso  alleggerisce il peso di uno sconforto tutto inscritto nel ciclo di un ritorno del dominio e della tirannide.

Da anni infatti Jabbar Hussin sta lavorando ad un’opera sull’invasione della Mesopotamia da parte dei Mongoli che  nel 1258 conquistano Baghdad radendola al suolo. Così il lettore di Baghdad è colui che   legge, nel suo errare, il paesaggio di un’Europa senza nostalgia, è colui che legge il codice miniato in aramaico e in alfabeto siriaco sull’ultimo re dei Giudei nel monastero di Sant Hermes ad Al Qush, presso Mossul  - lezione di tolleranza  che una volta ancora giunge dal vicino Oriente - ed infine è colui che, guidato dalla luce della luna in una casa-biblioteca stracolma di volumi, legge il grande libro della storia, fatto di pagine bianche senza più  traccia alcuna di scrittura.

La storia è l’uomo, la sua capacità ,in questo viaggio nel tempo della vita e della morte, di leggere e com-prendere gli eventi, di saldare il passato a un progetto di vita futura , in un presente dove il dono  della libertà si possa per tutti coniugare con un senso, con un’identità che restituisca la luce e la misura dell’agire umano; senza dimenticare tuttavia quella costante di dominio che dalla storia ereditiamo come pagina bianca in cui è possibile ancora scrivere, ma solo con parole nuove, il frutto di un’immaginazione che sia atto di libertà ed amore. 

Ed è proprio l’amore per la vita e per la poesia la linfa di questi racconti, il  rispetto della dignità umana e il forte desiderio di dialogo e di un incontro a viso aperto tra l’Oriente e l’Occidente, due sponde che rischiano di separarsi tragicamente  in questo nostro presente sempre più preda dell’irrazionalismo di un nascente totalitarismo; spetta ad ognuno  riavvicinare queste sponde, mettervi a dimora un albero della vita e della pace, quel Kishkanu che un tempo era situato sulla confluenza del Tigri e dell’Eufrate, poi abbattuto per ordine di Saddam, interfaccia e cattiva coscienza di un Occidente armato e ostaggio di una chiusura cognitiva verso mondi storicamente e socialmente diversi, un Occidente restio a riflettere sopra le origini della civiltà ed a comprendere che la scrittura, ma soprattutto la parola – ed il diritto, infine! – rappresentano l’unica nostra inesauribile e più grande risorsa, capace di declinare l’etica  del rapporto con l’altro, con  i popoli e le loro culture.
30 maggio 2003


Indice della sezione Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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