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Dove
va l’uomo? Dove va la poesia?
I testi
di Durazzo, almeno per me lettore, chiamano, anzi sollecitano costantemente,
una condivisione di partecipazione non tanto emotiva ma riflessiva. Soprattutto
riflessiva. Cerco di precisare: una riflessione tutta di ebbrezza e dolori,
un insieme di precipizi e vincolanti impulsi. La sua costante descrizione,
la sua costante enunciazione di partenza, è spesso legata al brivido
di un richiamo straordinariamente perentorio, cioè (lo identifico)
a quello di un mondo o sopra un mondo che è andato dilapidato (fuori
di noi, nelle cose, e dentro di noi, nei sentimenti), oppure che ci è
stato sottratto con imbrogli e livori ma che, tuttavia sgocciola una scia
di cenere della sua trapassata grandezza, così da consentirci di
percepirne gli ultimi palpiti e da non scancellarlo del tutto dalla memoria
generale, dalla memoria degli ultimi assassini. Dal fondo
di questa memoria via via oscurata, da questa profondità disastrata
e amara, scavata dall’ignavia e dal tempo, riescono a salvarsi dal setaccio
dei pazienti ricercatori pagliuzze minute, frammenti spezzati e splendenti
che alimentano il fuoco di quella nostra memoria (o sembrano soltanto illuminare
la drammatica oscurità a cui alludevo), ridando, sia pure per respiri
di tempo, qualche speranza, qualche sostegno alla speranza di poter in
qualche modo ricuperare, rinnovata da noi e indispensabile per noi, l’antica
armonia, l’antico equilibrio e quella antica saggezza che era vento del
cuore e si spandeva (appunto) ogni giorno, ad esempio, nei meandri delle
città e nelle piazze dell’Ellade non mitica ma reale. Durazzo,
sul foglio bianco( come una distesa di spiaggia solitaria sulla riva del
mare che non dorme mai) enumera dati, esempi in una rapida successione
e ogni volta - quando il testo lo propone - è come se una mano protesa,
strisciando con cauta, lenta armonia nell’aria, si appoggiasse sulla nostra
spalla scotendoci per indicarci, di fronte a noi, un nuovo panorama di
rattenuta emozionante violenza (un sommovimento che sprigiona fuoco e rose),
intento a lacerare, a cancellare, o almeno a sbiadire pregiudizi e imprigionati
sgomenti. Fin dal
principio, nell’esemplare enunciazione di Esodo, un verso secco e rapido
come un’indicazione estrema sembra incenerire la pagina: “l’uomo è
fuggito altrove”. Un’essenza, dunque, drammatica e fatale da questo mondo,
da questo luogo di durevole infamia, una volta (ripetiamolo) accompagnato
da una sofferta perfezione almeno nella chiarezza dei pensieri oppure intento
a cercare coi pensieri una straziante faticosa ebbra armonia. Nell’aspirazione
a inseguire sempre le idee e la sovrana immaginazione. Adesso, l’uomo,
la sua presenza reale, è fragile e labile, sdrucciolevole compromesso
tra un avido avere, un avido potere, una selvaggia tracotanza nel
mordere e masticare insaziabilmente solo la polpa del guadagno immediato,
dell’applauso immediato e del disimpegno liberatorio da ogni ragione di
partecipazione costante e disinteressata. Con l’uomo
che non si trova (nascosto o fuggito o consumato o travalicato dagli eventi
calamitosi) e quindi assente nella sua prepotenza vitale e provocante,
proprio in questi anni che avrebbero bisogno di intelligenze potenti e
lungimiranti, anche la poesia – questo misterioso carro portatore di voci,
di ombre e di grida sempre allertate dalla rabbia o dall’amore – sembra
così appartata, isolata e appisolata come un uccello sul proprio
ramo, tanto da richiedere la liberazione di una forte convinzione per essere
di nuovo afferata e ributtata sul campo del mondo dove continuano ad intrecciarsi
le mille battaglie, al fine di tenerci svegli con i suoi suoni profondi
e di scuoterci ancora nell’intimo dei sentimenti e delle idee. Così,
mentre la mente riflette, il pensiero s’invola sulle ali delle parole magari
ubriache di sole sulle pagine, succede all’improvviso che quasi uscendo
senza fiato da una caverna, i testi si complicano utilmente con l’apparizione
di persone vigorosamente esemplari, schizzate sul marmo (o su una pietra)
perché restino davvero a documentare una condizione comune a tutti
in questo nostro tempo, nel quale la vita, il corso dell’esistenza di ognuno
trapassa con una necessità che troppo spesso ci lega a una fatica
standardizzata o a una reciproca indifferenza; perché ormai sembra
che quasi tutti siamo feriti da una solitudine costante e strisciante –
che è un male, un dolore profondo e solitario. Lasciati soli, noi
così tendiamo anzi ci affanniamo a lasciare solo il mondo. A concentrarlo
dentro la sua furia e lasciandoci trasportare (trascinare) sulla nave dell’ipocrisia
per effimere, rapide occasioni di rivalsa, recriminando la nostra generale
protervia e la nostra arida indifferenza. Questi
testi, come ho detto per me lettore, inducono a respingere la consolazione
e l’assoluzione dei nostri continui compromessi comunque camuffati e (invece)
ad allungare la mano sul fuoco della verità, che non riflette altro,
come uno specchio impietoso, se non il guasto ossessivo che l’uomo ha perpetrato
(e continua ritenendosi libero e assolto, a fare) contro se stesso e contro
questo nostro mondo che sembra in disarmo; appagandosi soltanto, e stringendosi
convulsamente adesso, come un mercato avaro, di miserabili e troppo rapidi
benefici. In “Furore”
è l’antico nella sua splendida esaltazione che sembra ritornare
non fra noi ma proprio addosso e noi col tramite del sogno – o dell’immaginazione
turbata da una irrequietezza generosa, piena di luce, per cercare anche
nel sogno di illuminare tutti i dettagli di una vita ritrovata e ricostituita.
Con la riconquista di un territorio in cui essenziale sta ferma in attesa
la poesia; una poesia che cerca, che fruga, che morde e che sembra lì
pronta a muoversi, come portata a fiore del mare sulle ali di un Icaro
del duemila, disposto a tutti i confronti per sconfiggere ogni rinuncia
di vita, per sconfiggere finalmente dopo il lungo errare, il dolore di
ogni rinuncia e l’acro affanno della morte. 30 maggio
2003
Indice della sezione Indice generale Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |