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Recensioni e note critiche

La magica, ironica e poetica Tela di Erato di Valeria Serofilli
di pasquale Matrone

Pasquale Matrone: La magica, ironica e poetica Tela di Erato di Valeria Serofilli
 



"Lo stile, per lo scrittore, come il colore per il pittore", sostiene Marcel Proust ne Il tempo ritrovato, "è un problema non di tecnica, bensì di visione. Esso è la rivelazione, impossibile con mezzi diretti e coscienti, della differenza qualitativa che esiste nel modo come ci appare il mondo: differenza che, se non ci fosse l’arte, resterebbe l’eterno, segreto di ognuno." Una riflessione che trova in Tela di Erato, l’ultimo volume di versi di Valeria Serofilli (edito dalla Sovera Multimedia, nel dicembre 2002, con la prefazione di Giulio Panzani), la concreta possibilità di essere sottoposta a una verifica atta a giustificarne la giustezza e le ragioni. E’ lo stile, infatti, personalissimo, fresco e coinvolgente, la prima cosa a colpire l’attenzione di chi si addentra nell’universo poetico dell’artista pisana.

La visione del mondo di Valeria Serofilli è caratterizzata dalla lucida presa d’atto dell’assoluta impossibilità di apportare modifiche al copione di cui ogni essere vivente deve impadronirsi, per farsi attere di un dramma dal finale scontato. Lo dice in modo chiaro nei versi de La recita: “… …/ Siamo tutti qui:/ scaglie di tetto al vento/ … ad imparare la parte/ mostrando il fianco/ mostrando il fianco/ al tempo che ci morde”, verso il muto traguardo della morte. Le cose stanno così. L’analisi è spietata, ma priva di qualsivoglia venatura di compiacimento vittimistico. La consapevolezza del traguardo, infatti, lungi dal costituire un inutile alibi per la resa disperata, diventa strumento d’illuminazione:: bisogna agire, mostrare il fianco alla vita…Occorre distogliere l’attenzione dal fatale traguardo e concentrarsi sul viaggio, tappa dopo tappa, minuto dopo minuto, avendo cura di toccare, sentire, guardare, odorare, assaporare l’intera realtà… Mai arrendersi, dunque. Impegnarsi, invece, di sole e di luce; catturare nuvole, fiori, bagliori improvvisi ( fosfeni per un attimo impressi sulla palpebra, che, solo se nutriti dalla felicità, non van scomparendo e rendono belli fuor come dentro…); e poi ancora: vendemmie, pesci rossi e azzurri, mimose, fili di presepe, girasoli, trecce, foto sbiadite, voci in conchiglie, usignoli, passeri, voli, vento…E, alla fine, con il sogno nelle mani, prendere il pennello e fissare il tutto su una magica, ironica e poetica tela. E’ questo il segreto di Valeria Serofilli, finissima artista che dipinge e scrive, usando, con assoluta disinvoltura, gli stessi attrezzi e lo stesso linguaggio.

Orazio docet! E’ lui, oltre naturalmente a Proust e a tutto il resto, la “chiave” per cogliere le radici dotte e non improvvisate dello stile che dà “forma” ai versi di Tela di Erato. Per averne conferma, risulta sufficiente una rilettura, sia pure rapida, della satira sull’Arte poetica, dedicata ai Pisoni, in cui il poeta latino, tra l’altro, dice:”…/ il libro è come il quadro:/ le immagini senza senso/ sono come gli incubi del delirio/ dove una figura/ ha testa e i piedi chissà dove…[…] lo scrittore che lavora a un poema/ deve fare le sue scelte. / E anche il suo linguaggio/ risulterà unico per freschezza/ ed economia di termini/ se un accostamento intelligente/ potrà far nuova/ una parola abusata…[…] Se vuoi insegnare qualcosa/ sii breve…[…] Ottiene pieni voti/ chi unisce l’utile/ al gradevole,/ divertendo il lettore/ e aiutandolo…[…] La poesia è come la pittura…[…] E’ vecchia questione/ se conti più/ il talento o la tecnica: non saprei a che servirebbe/ lo studio senza ispirazione,/ né l’ingegno senza la cultura./ Hanno reciproco bisogno,/ sono amici.”

Il poeta di Venosa è altresì presente anche nei contenuti del messaggio racchiuso nel libro. Lo è soprattutto per la pacatezza dei toni, espressione di un’innata capacità di osservare le cose non solo da vicino ma anche, e meglio, da lontano e con distacco, procedendo con la lucida razionalità di chi, consapevole della ineluttabilità dell’umana condizione, continua, con determinazione, a utilizzare tutta la sua energia per catturare e fissare nella parola piccoli scampi di memoria, spezzoni quasi invisibili della propria e dell’altrui storia, attimi, sia pure fugaci, di gioia capaci di colmare il vuoto abissale del dolore antico e sempre nuovo che abbuia e gonfia di greve malinconia i pensieri della gente.

Al di là e oltre l’umana e comprensibile angoscia esistenziale, c’è dell’altro a dar senso ai giorni vissuti. Valeria Serofilli ne è convinta. Ci sono gli affetti teneri e grandiosi di una quotidianità riscoperta e rivalutata nei suoi aspetti più belli e, con essi, le esperienze di un’illuminazione improvvisa, rivelatrice di verità semplici e straordinarie insieme. Come quella contenuta nei versi in cui parla del figlio Daniele ( al quale il libro è dedicato): “Ho camminato la città/ senza te, occhi curiosi:/ tutto in bianco e nero./ Non c’era Cocco con Bobo e Balù,/ né streghe e fatine per la strada./ Al mio ritorno, poi, / mi hai ridato il colore della vita.” ( Il colore della vita ); e ancora: “… …/ Oh mia piccola oasi/ di gesti invadenti/ non definiti,/ giocondi/ e irosi al contempo. / L’aria ricolmi/ di te!” (A Daniele sul divano).

L’amore, dunque, è la grande medicina capace di vincere le angustie generate dalle ingiurie del tempo. E’ solo grazie ad esso che l’uomo scopre, costruisce, inventa e progetta sogni, senza pretendere mai, sarebbe assurdo e inutile, che la realtà corrisponda al baglior che dentro gli si accende, bensì facendo sua la saggezza della spuma del mare che con le onde “lotta e baruffa/ ma fusione/ non pretende!”

Ed è proprio l’amore, infine, che spinge Valeria Serofilli a nutrire una fede solida e forte nella scrittura, l’unico strumento in grado di scovare il noumeno nei suoi nascondigli più segreti per interrogarlo e costringerlo a svelare, sia pure in maniera parziale, i suoi misteriosi e sconfinati disegni. Lo dichiara lei stessa, questa volta in maniera inequivocabile, nei versi rasserenanti e solari de La poesia: “ Colpi inferti dalla vita/ puoi smussare con la tua rima,/ per fare girare, con la parola,/ la ruota come vuoi che vada;/ è il barlume che ti vela/ la realtà, poi la disvela/ e come luccichio di cera,/ luce leva e poi/ rivela.”
 
1 luglio 2003 
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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