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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche

Ranieri Teti, Il senso scritto
di Giovanna Frene

Ranieri Teti, Il senso scritto
Collana Limina LXXXV, a cura di Flavio Ermini, Verona, Anterem, 2001, pp. 56, s.i.p.
 

In questo suo terzo libro di poesia Ranieri Teti, tra l’altro fondatore e coordinatore del Premio di poesia “Lorenzo Montano”, prosegue la ricerca in direzione di un nuovo senso della parola poetica. Infatti, con il sintagma “senso scritto” non si evocano più solo spazi letterari e/o filosofici, ma letteralmente anche spazi dell’esistente in quanto essere, cosicché la raccolta si configura come «un nomadismo che contrae, in ciascuna monade testuale, tutto il senso possibile, fra un’infinità di altri ingressi possibili al senso che si sottrae, ma che in quella sottrazione risplende come la deriva alla quale abbandonarsi per fare che la parola lo evochi nella sua nullità» (dalla postfazione di Tiziano Salari). 

All’interno della ricerca poetica, da sempre in prima linea, del gruppo dei poeti della rivista «Anterem», la figura di Teti si distingue per la particolare tensione di pensiero, che lo avvicinano ad alcuni poeti suoi coetanei, quali Coluccino, Guglielmin e Curcetti. Già nei titoli delle due sezioni del libro, Pneuma e Densità del vuoto, si viene a tracciare quella che Celan definiva essere la caratteristica della poesia: il respiro, nella sua inspirazione/espirazione, che nel suo incessante transito è figura stessa dell’esistere, in quanto contatto mobile con la realtà; non a caso in esergo al volume si cita una frase di Char inerente al vivere nel «frammezzo», ma «irresistibilmente gettati in avanti». Spetta al poeta farsi carico con la parola di questa condizione di spostamento continuo, propria di tutti gli uomini: perché di per sé la parola è instabile. 

Questo spostamento si attua fisicamente nella struttura formale del singolo testo poetico, che viene letteralmente decostruito, come se non contasse tanto l’ordine di apparizione degli eventi verbali, ma la loro apparizione in quanto tale, perché appunto quello che conta non è l’ordine del mondo, ma quello che del mondo si riesce a cogliere nel momento in cui si presenta (ma già Leopardi avrebbe detto: nel momento in cui «appare»); l’esempio macroscopico è dato dai versi del testo di apertura, che ritornano uguali ma rimescolati alla fine della prima sezione, come se appunto invertendo gli elementi semantici il risultato non cambiasse affatto, e forse con una lontana reminiscenza, ma postmoderna, del procedimento combinatorio della sestina. Ogni singolo verso poi risulta sintatticamente aperto al precedente e al successivo, quando non attua in se stesso più semplicemente una forte inversione interna a chiasmo, come in «per interposti mancare latenze mostrando», o «uno di questi giorni o ritornando segni». 

Non solo. Tra un testo e l’altro sembra crearsi una forte connessione tematica e verbale, un perpetuo moto: ritornano delle parole-chiave allo stato puro, come «ombra», «segni», «cascame», «soglia», «vuoto», «muro», «terra», «specchio», «senso», «lingua», che variate ridanno, come in un riflesso, quella «soglia di apparenze / adiacenze di lontano», che non è altro che la poesia nel suo stato più vicino all’origine dell’Essere. Del quale, una volta che si sia colta con la parola poetica, nel frammezzo, l’apparente contraddizione del suo essere presente ed insieme in esilio, dell’essere qui ed insieme là, dell’essere temporale e insieme a-temporale, sarà rimasto non altro che un senso scritto sul foglio bianco del mondo. Questo è quello che il poeta può dare.
 

8 luglio 2003 
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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