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Dunque è medico: uno specialista. Dunque è poeta? La risposta non è consequenziale: non è necessariamente poeta un medico, anche se tanti sono i medici che scrivono poesie. Non starò a ricercare le ragioni che spingono persone che si occupano di scienza verso il linguaggio difficile, la metrica, le figure retoriche, e tutto quanto è richiesto dalla difficile arte poetica. Arte che richiede studio e fatica, sperimentazione e confronto, , secondo quel “metodo galileiano” che vale per la scienza, ma anche per l’erta. Chi si sognerebbe di scrivere musica senza conoscere note, diesis e bemolle, intervalli di settima e settima diminuita, ecc. ecc; chi si sognerebbe di far quadri senza capacità di disegno, di studio dei colori, di analisi dell’arte del passato e così via? Questo però è, almeno in parte, un discorso provocatorio che non toccala vera verità dei medici scrittori, degli scienziati poeti, da Primo Levi a Giuseppe Bonaviri, da Mario Tobino all’ingegner Sinisgalli. La storia racconta di grandi pulsioni verso la poesia, la narrativa, la letteratura, a cui si risponde solamente accettando, scrivendo, proponendo una propria via e un proprio linguaggio. Di questa schiera fa parte, naturalmente, anche Antonio Spagnuolo. Medico e poeta che ha fatto della medicina il suo compito, e della poesia la sua casa, la sua “prima” casa. Sono, per lui, ormai decenni di poesia: l’ ho conosciuto negli anni ottanta, e già aveva una bibliografia dietro le spalle, e un curriculum critico, e una verve poetica che non sempre copriva quella sua personale, esistenziale. Scrivere di lui vuol, dire leggere libri di poesia, parecchi, e saggi critici, introduzioni critiche anche di nomi illustri come Giovanni roboni e Mario Pomilio. I quali lo hanno letto e apprezzato, descritto e auscultato (visto che parliamo di un medico scrittore). Antonio Spagnuolo fa parte, io credo, di quella specie di scrittori che scrivono per tutta la vita un solo libro (l’altra categoria, per dire, è quella degli scrittori per i quali “ogni libro è un’avventura”): Dino Campana è il loro dio, Vittorio Sereni l’esempio più prossimo, Sbarbaro, Saba e Lucio Piccolo altri aulici esempi. Trovata una propria cifra, lo scrittore la segue, la circonfonde, la ama. Non può, o non vuole cambiare. Quale è, allora la cifra, ossia la linea stilistica prevalente, in Spagnuolo ? La sua poesia sembra nascere sempre dall’esorbitanza, dall’eccesso: come se l’invenzione avesse sede in un alter ego spiritato, in una pulsione anomala e fantomatica da cui sorgono visioni, emozioni, fate morgane provvisorie e non dimostrabili. La sua “realtà” è o sembra, a volte, un folletto bizzoso, uno spiritello che nasce dall’Es, dall’inconscio, e niente riesce a frenare. Lui scatta, e scrive, e produce poesia che poco mancherebbe di accostare al surrealismo, ad altri movimenti letterari storici. Però Antonio non dimentica ermetismo, e poesie che tutti abbiamo amato, e personaggi di cui è fatta la poesia attuale: usa parole plurali assolutizzate, senza articolo, e ama ellissi e ossimori, non dissente dall’ipèrbato e si serve di iperboli e di altre figure retoriche tradizionali. Gli è caro anche il mondo medico, l’uso di termini scientifici, l’accostamento di cose reali e palpabili e parole dell’esistenza normale, del quotidiano: la loro reazione reciproca determina analogie inattese, inusuali. Per
fare un esempio:
“il glossofaringeo provoca otalgie attraverso vecchi
sovrumani scantinati
c’è
chi vanta amori protratti chirurgicamente
radici
olfattive nel drenaggio di esplorazioni…”
Altrove più diffusamente lirico, incapace di staccarsi da un cielo e da una vita cautamente realistici: “Almeno bruscamente interrotto in
fotogrammi precipito
a
riempire il mondo che sparisce:
non
puoi scomporre la nostalgia
dei
gabbiani…”
Il
groppo della pulsione medico-linguistica, a volte meno sorretta dall’utilizzo
dell’autocritica, sfiora quella degenerazione iperbolica che altrove ho
chiamato “neobarocco”, un modo iperanalogico in cui, per tentare l’intentabile,
ovvero per riuscire a scovare il “nuovo” assoluto, si inventano accostamenti
inediti ma incongrui, al limite del ridicolo: “Intaglio primavere guaste. Tramuta
cantilene
in gramaglie
ogni
attimo staziona nella mente
presagi
di mercurio,
vertebra
porosa a sghembo
scrolla
l’orizzonte:
spazio
come memorie
e leucociti
vuoti
– dissezione.
Lampi
di settimane
entro
squarci di protesi
risucchiato
resecato
fisso
aguzzi contatti.”
Presentando
“Candida” (1985), Mario Pomilio scriveva una frase illuminante: “il valore
prelogico della poesia di Spagnuolo, la natura d’un linguaggio che non
mira in alcun luogo alla sintassi…A servirci di un paradosso, diremmo quasi
che qui la parola interviene a manifestare ciò che sta anteriormente
alla parola, il pensato allo stato ancora amorfo, i materiali prima che
si coordinino…” E’ che Spagnuolo – dice Asor Rosa – rifiuta una sintassi vincolante, sul piano del linguaggio come su quello del senso. La materialità del reale lo costringe, per assurdo, sull’opposta sponda del virtuale: le parole gli offrono questa estrema possibilità e lo scrittore ne approfitta fino allo stremo, al limite del comprensibile e dell’accettabile. La poesia, nei suoi versi, c’è davvero: “Spesso sbagliando accordi credevo
d’annullarmi:
era
tempo d’ebbrezza.
Ora
l’azzurro stacca
il
sorriso del gesto ripetuto”.
A
tratti colto da un eccesso come da un raptus, sospinto dalla già
rilevata pulsione estrema verso quel pericoloso neobarocco che ne accentua
la deriva verso l’inverosimiglianza (“a violenze di camelie”; “trapasso
furti al tempio di mio padre”). Oppure, addirittura dimentico delle esigenze
metriche, accostando versi non consonanti, parole che provocano ictus fonetici
e aritmie (“abbèverami a nuvole”: una bisdrucciola cui segue
una sdrucciola, un verso impossibile). Gli esempi negativi potrebbero moltiplicarsi,
ma altrettanto, anzi ancor più si moltiplicherebbero quelli positivi,
che attesterebbero una riuscita, una tonalità lirico-surreale spesso
molto efficace. Per descriverla dovrei ricorrere alla pittura
e alla musica, altre importanti muse della poesia di Spagnuolo. Così
che, alla fine, credo abbia ragione Dante Maffia il quale, mentre non vede,
nella maturità di Spagnuolo, diminuire l’ansia e i toni accesi,
tuttavia riconosce il significato autentico della sua ricerca poetica
che mai abbandona i colori e i suoni dell’eros che sono poi quelli della
vita. Colori e suoni di una ricerca esistenziale umana e sovrumana soprattutto
dominata dal timbro e dai toni autentici di una grande, straordinaria passione:
per la poesia, per il suo volto vero e sconosciuto. (2003) 7
settembre 2003
Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997 Per informazioni, si prega contattare la direzione |